Nel cinema italiano del secondo Novecento, la figura del direttore della fotografia ha spesso goduto di una visibilità marginale rispetto a quella di registi e attori, pur risultando centrale nella configurazione estetica e ideologica delle opere più significative del periodo. In questo senso, la figura di Tonino Delli Colli rappresenta un caso emblematico, al punto da costituire un vero e proprio paradigma dell’operare visivo come pratica poetica e politica. Il documentario Once upon a time… Tonino Delli Colli, diretto da Paolo Mancini e Claver Salizzato, si inserisce con consapevolezza in questa linea di riflessione, proponendo non solo un ritratto biografico dell’artista, ma un'indagine complessa sulle implicazioni della sua opera nel contesto più ampio della cultura cinematografica europea.
Il film adotta sin da subito una postura epistemologica non lineare, rifuggendo la struttura cronologica in favore di una costruzione tematica e atmosferica, capace di restituire la profondità temporale dell’opera di Delli Colli come materia viva, sedimentata nella memoria culturale collettiva. Lungi dall’essere un semplice omaggio commemorativo, il documentario assume così i tratti di un dispositivo di lettura critica, in cui l’immagine non è illustrativa ma strutturante: il montaggio delle sequenze cinematografiche si fa argomento, la composizione visiva diventa enunciato. Mancini e Salizzato, infatti, costruiscono un film che è esso stesso “fotografato” nel senso più profondo, elaborato cioè secondo una grammatica luminosa ispirata alla sensibilità del soggetto stesso.
Attraverso l’impiego sistematico di materiali d’archivio – spesso rari o inediti – il film compone una narrazione speculare, in cui la riflessione sulla luce si intreccia alla testimonianza, e la testimonianza, a sua volta, si struttura in forma di illuminazione ermeneutica. I contributi di registi, collaboratori e attori che hanno lavorato con Delli Colli – da Roberto Benigni a Giuseppe Tornatore, da Marco Bellocchio a Liliana Cavani – non assumono mai la forma della semplice celebrazione, ma contribuiscono a una ricostruzione polifonica dell’esperienza professionale e umana del direttore della fotografia. Ciò che emerge è la figura di un mediatore silenzioso tra il progetto registico e la sua incarnazione visiva, una figura che ha saputo fare della luce non un effetto, ma un principio strutturale del discorso filmico.
L’impostazione estetica del documentario trova un suo asse teorico implicito nella continuità tra la pratica di Delli Colli e la nozione di mise en lumière come momento fondativo del significato cinematografico. Il lavoro con Pier Paolo Pasolini, in particolare, costituisce uno degli snodi più rilevanti della riflessione proposta da Mancini e Salizzato. Nei film realizzati in collaborazione con il poeta-regista – Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) – la fotografia di Delli Colli elabora un linguaggio visivo capace di mediare tra realismo brutale e astrazione simbolica, tra documentazione antropologica e ierofania. La luce diventa portatrice di senso, capace di inscrivere nel quadro cinematografico tensioni culturali, etiche e ontologiche che travalicano l’aneddotica o l’intenzione d’autore.
Un discorso analogo si può sviluppare rispetto alla collaborazione con Sergio Leone, in particolare nella trilogia del dollaro e ne C’era una volta il West (1968), dove Delli Colli definisce una poetica visiva fondata sull’iperrealismo dell’inquadratura e sull’amplificazione espressiva del paesaggio. In questi film, il direttore della fotografia costruisce una forma di epica luminosa, in cui la luce incide lo spazio come una lama affilata, dando forma a un universo visivo teso tra il mito e l’archetipo. Anche in questi casi, l’intervento di Delli Colli non si limita alla restituzione tecnica delle condizioni ambientali, ma concorre attivamente alla configurazione semantica dell’opera.
Il documentario insiste con intelligenza anche sulla dimensione etica del lavoro di Delli Colli, sottolineando come la sua pratica fotografica si fondasse su un’idea di attenzione e rispetto nei confronti del soggetto filmato. Questa postura si traduce in un’estetica del pudore, evidente soprattutto nei film con Federico Fellini, Nanni Loy, Roberto Benigni. In La voce della luna (1990), ad esempio, la luce impalpabile che avvolge i personaggi non costruisce soltanto un’atmosfera onirica, ma assume la funzione di veicolo empatico, di tramite tra l’interiorità dei personaggi e la percezione dello spettatore. Delli Colli non impone mai la sua visione, ma si pone come testimone partecipe, come artigiano della rivelazione.
La regia di Mancini e Salizzato, nel suo procedere meditativo e stratificato, sembra voler assumere essa stessa la lezione di Delli Colli. Il film non si impone allo spettatore, ma lo accompagna. Non urla, non spettacolarizza, ma lascia che le immagini parlino, che le parole si depositino. Il montaggio, sempre rispettoso del ritmo interno delle testimonianze e delle sequenze filmiche, costruisce un discorso visivo coeso, evitando il rischio della frammentarietà pur nella pluralità dei materiali. Il risultato è un dispositivo filmico che funziona come strumento critico e affettivo, come atto di trasmissione e resistenza.
Sul piano teorico, Once upon a time… Tonino Delli Colli può essere letto come un’operazione di archeologia visiva, tesa a riportare alla luce non solo un percorso professionale, ma un’intera concezione dell’immagine come luogo di senso. In questo senso, il documentario si rivela particolarmente rilevante in un contesto in cui la produzione audiovisiva contemporanea sembra spesso aver smarrito il legame tra forma e significato, tra estetica e visione del mondo. Delli Colli, con la sua opera, ci ricorda che la fotografia cinematografica non è un elemento decorativo, ma una forma di scrittura. E come ogni scrittura autentica, essa implica una posizione, un’etica, una responsabilità.
In conclusione, il documentario di Mancini e Salizzato non solo riporta l’attenzione su uno dei maggiori direttori della fotografia del cinema europeo, ma propone un’inedita cartografia del visivo come esperienza culturale e spirituale. In un’epoca dominata dalla proliferazione dell’immagine digitale e dalla sua conseguente perdita di aura, il film recupera l’idea della luce come evento originario, come gesto significante. In questo senso, Once upon a time… Tonino Delli Colli non è soltanto un documentario su un artista: è un discorso sul cinema stesso, e sul ruolo che la luce – e chi la sa ascoltare – può ancora avere nel nostro modo di vedere e, forse, di esistere.