Eccolo, l’uomo che nuota tra i giardini: silenzioso, assorto, elegante come una fotografia degli anni Cinquanta lasciata troppo tempo al sole. Ned Merrill, incarnazione borghese dell’uomo che si crede ancora al centro del mondo, scivola nell’acqua con l’illusione di un eterno ritorno. Eppure quel corpo tonico e deciso, che all’inizio si muove come un dio domestico tra siepi ben potate e sorrisi educati, comincia a perdere energia, grazia, direzione. “Il nuotatore” di John Cheever è una delle più affilate parabole del Novecento, perché riesce a fondere in poche pagine la struttura mitologica di un’epopea con il disfacimento interiore del soggetto moderno, annegato in un paesaggio di lusso ovattato e convenzioni sociali.
Siamo in un’America che ha appena creduto di essere invincibile, dove il benessere si misura in metri di prato, nei chili di carne arrostita nei barbecue, nella brillantezza dei denti e nella perfetta simmetria delle piscine. Un’America che ha ridotto il tempo a un eterno presente, e lo spazio a una carta da gioco suburbana dove ogni casa è un’isola, ogni famiglia una narrazione chiusa, ogni legame una convenzione sorridente. Ed è proprio qui che Cheever piazza il suo cortocircuito: un uomo che si crede protagonista di una traversata, un moderno Ulisse che affronta il proprio destino acquatico, e che invece non sa più leggere i segni del tempo, le pieghe della memoria, le crepe della realtà. Quello che per Ned è ancora un gioco, per il lettore diventa sempre più chiaramente un rito funebre, un’agonia lucida.
All’inizio, la contea sembra accoglierlo. L'acqua è tiepida, le persone lo riconoscono, i sorrisi non sono ancora fessure. Ma già qualcosa stride: un commento allusivo, una nota stonata nel tono di un’amica, un dettaglio dimenticato. La percezione comincia a vacillare. Che giorno è? Che stagione? È davvero la stessa estate? Quello che sembrava un unico pomeriggio comincia a contenere settimane, anni, ere. Il tempo implode, si disgrega. I ricordi si sovrappongono come pellicole bruciate. L’effetto è straniante, ipnotico: una distorsione progressiva, un’escalation di spaesamento in cui la realtà si sfalda con discrezione, senza effetti speciali, ma con la precisione chirurgica di chi conosce a fondo il dolore e le sue geometrie.
L’acqua stessa cambia. Da fluida diventa vischiosa, fredda, poi ostile. Le piscine, da soglie trasparenti, si fanno barriere. Gli amici diventano accusatori, gli sguardi inquisitori, gli ambienti ostili. Il paesaggio, che prima sembrava la mappa di un Eden privato, diventa un labirinto di accuse non dette, di vite che sono andate avanti senza di lui. Si scopre che Ned ha perso tutto, che ha forse rimosso o negato la bancarotta, l’abbandono, l’invecchiamento, la fuga degli affetti. Ma non c’è alcuna rivelazione teatrale: è il mondo che glielo restituisce a piccoli tocchi, come uno specchio che non mente più. Le famiglie che lo ignorano, i bambini che lo temono, la servitù che ride sotto i baffi. Tutto il mondo perfetto comincia a mostrarsi per quello che è: un palcoscenico cadente, una menzogna di massa.
In questo disfacimento lento, Cheever costruisce un linguaggio che ha la chiarezza del cristallo e il gelo del ghiaccio. Nessun sentimentalismo, nessuna catarsi: solo la descrizione minuziosa del fallimento di un’illusione. E ciò che più colpisce è come Ned, pur nel precipizio, cerchi sempre di salvarsi la faccia. Anche quando è stremato, infreddolito, solo, prova a comportarsi da gentiluomo. Anche quando non ha più forza nelle braccia, mantiene la postura di chi sta partecipando a qualcosa di importante. Ma è proprio questa ostinazione a rivelare la radice tragica del personaggio: Ned non capisce che il mondo è cambiato, che lui è cambiato, che il tempo non lo ha aspettato. E Cheever non lo risparmia, lo accompagna fino all’ultima porta chiusa, al buio della sua casa ormai disabitata, al punto in cui nemmeno lui può più fingere.
La casa — simbolo assoluto dell’ideologia americana del dopoguerra — si rivela un guscio vuoto, una cripta. Ned, che vi giunge esausto, non trova la consolazione del ritorno. Non c’è un letto caldo, né una luce accesa, né un volto familiare. Solo il freddo, il buio e la certezza che l’impresa è stata inutile. O peggio: che non è mai stata un’impresa, ma un delirio, un viaggio interiore proiettato sullo spazio sociale, un sogno che ha resistito più del corpo, ma non al tempo. Quel grido finale, muto e tremante, è il canto del cigno non di un individuo, ma di una civiltà intera che ha scambiato la forma per sostanza, il benessere per felicità, l’apparenza per realtà.
“Il nuotatore” è un racconto che si legge in mezz’ora ma rimane per decenni nella mente. Ogni piscina che si apre e si richiude dietro il corpo stanco di Ned è una ferita, un ricordo deformato, una stazione di una via crucis senza redenzione. Eppure Cheever non è mai accusatorio. Non c’è rabbia nel racconto, ma un’estrema pietas. Ned non è un mostro: è una vittima, e al tempo stesso il prodotto coerente di un modello sociale che ha venduto il mito dell’eterna giovinezza come fosse un fondo pensione. Il racconto funziona così bene perché parla a chiunque abbia sentito una volta nella vita lo scarto tra come viene percepito e ciò che realmente è. Parla a chi si è scoperto fuori tempo, fuori luogo, dimenticato. E più ancora: parla a chi ha continuato a sorridere, anche nel baratro, perché non conosceva altro modo per stare al mondo.
Attraverso una struttura narrativa sottilissima, Cheever ci costringe a chiederci quanto del nostro presente sia già passato, quanto della nostra identità sia solo un’abitudine sociale, e quanta parte delle nostre vite sia costruita su ciò che rimuoviamo. In fondo, il viaggio di Ned è anche il nostro: una lenta presa di coscienza del fatto che, mentre fingevamo di vivere, qualcosa — forse tutto — è cambiato senza di noi. E la domanda finale che il racconto lascia aperta, sospesa nell’aria come l’eco di un tuffo nel vuoto, è questa: se arrivassimo oggi alla porta della nostra casa più vera — quella interiore, quella segreta, quella che nessun altro vede — ci sarebbe ancora qualcuno ad aprire?