Le soglie del desiderio
Incipit e explicit nei romanzi LGBTQ+: una lettura tra letteratura e identità
I. Varcare la soglia
Leggere un romanzo queer è sempre, in un certo senso, un atto di attraversamento. Si entra in una zona franca della narrativa, in cui la lingua si piega per accogliere identità altre, desideri rimossi, corpi sottratti alla visibilità normativa. Le prime e le ultime frasi di un libro – quelle che chiameremmo "soglie" – sono allora momenti privilegiati per cogliere questa tensione tra interno ed esterno, tra silenzio e parola. Il loro valore simbolico è duplice: l’incipit spalanca il varco verso la narrazione, l’explicit lo richiude – ma spesso, nella letteratura gay, quel varco resta aperto, sospeso, interrogativo.
Nella scrittura queer l’incipit è spesso un gesto di rivelazione o di mascheramento, un ingresso nella carne del racconto o una stretta di mano esitante. L’explicit, al contrario, può suggellare una liberazione, una perdita, una sconfitta, ma più spesso lascia il lettore in uno stato di attesa, di "non ancora", come se la storia non potesse, per statuto, trovare compimento.
In questo viaggio attraverso soglie testuali e simboliche, ci lasceremo guidare da romanzi emblematici, editi anche in Italia, per osservare come i grandi autori della letteratura gay abbiano scelto di cominciare e concludere il racconto della differenza.
II. L’incipit: nascita, trauma, rivelazione
Nei romanzi queer il primo paragrafo è quasi sempre un gesto di definizione identitaria. Non si tratta di presentare un personaggio, ma di svelare – o occultare – un trauma, un desiderio, una frattura.
David Leavitt, nella sua opera d’esordio La lingua perduta delle gru (Mondadori, 1987, trad. Ettore Capriolo), apre con una dichiarazione disarmante:
«Avevo ventiquattro anni e non avevo mai baciato un uomo.»
Una frase semplice, quasi cronachistica, che rivela la ferita dell’attesa e al tempo stesso la speranza dell’amore che verrà. La lingua è qui tanto personale quanto universale: il pronome “io” rivendica un’identità, ma la nudità di questa confessione parla a molte vite nascoste.
Molto più ambiguo è l’incipit di E.M. Forster in Maurice (Guanda, 2014, trad. Stefano Tummolini), romanzo scritto nel 1913 ma pubblicato postumo solo nel 1971:
«Una volta per trimestre andava al Museo e guardava con disgusto le sculture del Partenone.»
Un’apertura fredda, quasi ostile. Maurice è qui uno scolaro rigido, immerso in un’educazione repressiva che Forster intende subito mettere a fuoco come contesto nemico. L’omosessualità sarà, nella narrazione, una lenta disobbedienza a questa cultura della vergogna e del disgusto.
Passando a James Baldwin, La stanza di Giovanni (Feltrinelli, 2020, trad. Marisa Caramella) si apre con un tono elegiaco, rarefatto:
«So che stavo a guardare il giorno morire, non potevo farci niente. Il giorno moriva nel modo in cui muoiono certi sogni, con un senso di fatalità e dolcezza.»
Qui l’incipit è già un epitaffio. Baldwin immerge il lettore in una malinconia che è già premonizione di tragedia. L’omosessualità è qui inseparabile dalla perdita: il desiderio è, sin dall’inizio, minacciato dalla morte, dall’assenza, dalla colpa.
Alan Hollinghurst, in La biblioteca della piscina (Mondadori, 1990, trad. Ettore Capriolo), preferisce un registro ironico e mondano:
«Avevo appena salvato la vita a un uomo quando mio zio decise di morire, e fu in tal modo che divenni il possessore di una biblioteca.»
Un’apertura brillante, quasi da romanzo di Waugh, in cui il tono leggero maschera un’indagine profonda sulla memoria, la malattia e il sesso nell’Inghilterra pre-AIDS.
III. L’explicit: chiusura o fuga?
Se l’incipit è spesso rivelazione, l’explicit dei romanzi LGBTQ+ è più frequentemente un enigma. In molti casi l’ultima frase non chiude la storia, ma la rilancia, la sospende, la frammenta.
John Rechy, in Città della notte (Rizzoli, 1968, trad. Renata Pisu), termina con un gesto di dissimulazione:
«E mi voltai a guardare se qualcuno mi stava seguendo.»
Il narratore resta anonimo, instabile, come se non potesse concedersi il riposo di un’identità definita. È la notte a dominare, la notte delle strade e dei corpi, in cui la soggettività si dissolve nel desiderio incessante.
Più lirico è il finale di André Aciman in Chiamami col tuo nome (Guanda, 2008, trad. Valeria Bastia):
«Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio.»
Una frase diventata celebre, che condensa tutta la tensione dell’amore fuso, dell’identità che si scioglie nell’altro. L’omosessualità qui è canto d’amore, ma anche struggimento, malinconia, rimpianto.
In Edmund White, La bella stanza è vuota (Einaudi, 1992, trad. Sandro Melani), la chiusa è un abbraccio collettivo:
«E poi tutta la folla si mosse in avanti e fummo spinti insieme nella stessa grande stanza.»
L’explicit richiama il titolo e ne capovolge il significato: se la “bella stanza” era inizialmente vuota (forse priva d’amore, priva di comunità), ora si riempie di corpi e di presenza. Ma è una felicità precaria, destinata a essere infranta dalla piaga dell’AIDS, che incombe sul terzo volume della trilogia.
Anche il finale di Maurice di Forster è fortemente simbolico:
«Si allontanarono insieme in una notte d’estate, e le loro orme furono perse nell’ombra della foresta.»
Una chiusura quasi fiabesca, in cui Maurice e Alec si perdono nella natura come due creature primordiali. Forster, pur vivendo nell’epoca vittoriana, osa immaginare un lieto fine per due uomini: un atto rivoluzionario, allora come oggi.
IV. Soglie e identità: una lettura simbolica
In molti casi, la forza delle soglie narrative risiede nel loro potere evocativo. La letteratura gay è sempre stata – e resta – uno spazio simbolico. L’incipit e l’explicit non sono meri strumenti tecnici, ma luoghi in cui si decide la possibilità stessa di esistenza narrativa per i soggetti queer.
Nel caso della letteratura americana degli anni Ottanta, come in The Lost Language of Cranes o The Swimming-Pool Library, l’incipit è spesso legato alla presa di coscienza, mentre l’explicit può mostrare una parziale integrazione. Nella tradizione europea (si pensi a Forster, Genet o Gide), le soglie sono più ermetiche, spesso segnate da un senso di colpa o da una fuga.
In tutti i casi, ciò che colpisce è come la parola si faccia gesto. Dire “non ho mai baciato un uomo” o “chiamami col tuo nome” è più che enunciare: è incarnare un’identità.
V. Conclusione: la letteratura come luogo dell’irriducibile
Rileggere le prime e le ultime frasi dei romanzi LGBTQ+ significa tornare all’essenza della narrazione queer: un racconto che non si chiude, che continua a interrogare, che non si lascia catturare da un’unica forma. Le soglie sono, in questo senso, ferite e promesse.
In un’epoca in cui l’identità sembra diventata una griglia, questi romanzi ci ricordano che esistere è un atto letterario, un gesto linguistico, un’apertura. Forse proprio per questo la letteratura gay continua a resistere: perché è l’unico luogo in cui le soglie, anziché separare, congiungono.
VI. Soglie italiane: la lingua queer nella narrativa nazionale
L’Italia ha una storia letteraria LGBTQ+ tortuosa e frammentata, spesso condizionata da censura, autocensura, silenzio. Ma proprio per questo, negli incipit e negli explicit dei romanzi queer italiani si avverte una densità simbolica, una carica linguistica e psichica inusuale. Varcare la soglia narrativa, in questi casi, significa sovente entrare in territori inospitali: la provincia, il corpo maschile ridotto a peccato, l’infanzia come trauma, la religione come condanna.
1. Giovanni Testori – “Il ponte della Ghisolfa” (1958)
Nel racconto La Maria Brasca, contenuto nella raccolta, la voce è immediatamente dialettale, incarnata, teatrale. L’incipit si apre così:
«Gh’è anca quel lì, adess, che mi, quand’l’è là, a vardàmm, gh’ho sèmper la vöia de dìgh: “Tì! Sì, tì!”»
La soglia non è solo narrativa ma fonologica: Testori ci trascina subito nel corpo vivo del milanese, lingua marginale e sensuale, materia carnale del desiderio. L’esplicitazione del desiderio è tutta nei fonemi, nelle inversioni, nei sussulti. L’explicit, spesso, non arriva: è un teatro della sospensione, in cui la rivelazione è sempre posticipata, lacerata.
2. Pier Paolo Pasolini – “Amado mio” (scritto 1948-50, pubbl. 1982)
Romanzo postumo, testimonianza della tensione giovanile tra desiderio e repressione, Amado mio comincia in un’atmosfera quasi crepuscolare:
«Avevamo girato senza scopo, tutto il giorno, per la pineta…»
Una frase semplice, eppure carica di risonanze. Il vagare “senza scopo” è già una poetica queer: un rifiuto del teleologismo narrativo, della linearità. Si apre in un’estate eterna, simile a quella di Death in Venice, ma popolata da ragazzi di borgata, incarnazioni erotiche e sociali della marginalità.
L’explicit del racconto principale, Atti impuri, è doloroso e allo stesso tempo mistico:
«Eppure in quel silenzio, in quell’ombra, in quella fredda eternità, c’era la vita.»
Una frase che potrebbe chiudere un vangelo. Il desiderio non è estinto, ma trasfigurato. Pasolini scrive soglie che si aprono verso il martirio e la contemplazione.
3. Aldo Busi – “Seminario sulla gioventù” (1984)
Il romanzo d’esordio di Aldo Busi è forse il più iconoclasta della letteratura gay italiana. L’incipit, in forma di monologo, è una presa di parola arrogante, verbosa, lucida:
«La gioventù è l’età in cui si dà tutto a tutti, ma soltanto perché non si ha niente.»
Un aforisma che contiene già il nucleo del romanzo: il protagonista è un ragazzo in fuga, che fa della parola un’arma. L’omosessualità non è mai detta, è agita, linguistica, retorica. L’esplicitazione non avviene mai per confessione ma per vertigine sintattica.
L’explicit di Seminario non è una chiusura ma un’ulteriore apertura: un invito a ripartire, a riscriversi. La narrativa diventa here queer: esibita, scostumata, rifiutata.
4. Walter Siti – “Troppi paradisi” (2006)
Con Walter Siti la soglia diventa metatestuale. Troppi paradisi si apre con un’indicazione da diario, sospesa tra autobiografia e finzione:
«La mia è una vita pornografica, nel senso che si consuma tutta in superficie.»
L’“io” è subito esposto, eppure ritratto. È il narratore stesso a dichiarare il fallimento, la trasparenza, la prostituzione simbolica della propria identità. Il sesso qui è linguaggio, e il linguaggio è fallimento.
Il finale, invece, è intriso di un lirismo scomposto:
«Quello che volevo era semplicemente vivere – un verbo così facile, così banale – e invece ho scritto.»
L’esplicit è confessione, non del peccato ma della sostituzione: non vivere, ma scrivere. La letteratura come perdita della carne, e quindi come ultima forma di desiderio.
5. Andrea Pini – “Quando eravamo froci” (2002)
Anche se non è un romanzo ma un saggio narrativo, Quando eravamo froci merita una menzione: si tratta di un’opera ibrida, fatta di interviste, testimonianze, autoritratti.
Il testo si apre con un incipit programmatico:
«Questo libro nasce da un’urgenza.»
Una frase secca, che implica un gesto etico: restituire memoria, visibilità, diritto alla parola. Ogni intervista ha un suo proprio incipit e explicit, spesso orali, talvolta drammatici, sempre rivelatori di una realtà storica rimossa.
L’explicit dell’intero volume è un ritorno alla voce dell’autore:
«Raccontare tutto questo non basta, ma è un inizio.»
Una dichiarazione di poetica e di politica: la soglia è qui quella dell’archivio, della storia, della militanza. La scrittura LGBTQ+ italiana, anche in forma saggistica, si conferma territorio di aperture e ferite.
VII. Le soglie nel contesto italiano: tra corpo e silenzio
Negli esempi italiani il tema della soglia è profondamente legato alla storia culturale del Paese: la potenza della Chiesa, la centralità della madre, l’assenza di un’identità gay visibile fino agli anni ’90. Il corpo, nei romanzi italiani, è spesso colpevole o esibito con ironia, mentre la lingua assume una funzione rivelatrice o sabotatrice.
La letteratura queer italiana si definisce quindi su un crinale doppio: tra lo slancio verso la confessione (Pasolini, Pini) e la fuga nella parodia (Busi, Siti). In entrambi i casi, incipit ed explicit sono atti di resistenza – e a volte di amore.
VIII. Ulteriori voci italiane: da Tondelli a Cognetti, soglie come ferite e carezze
1. Pier Vittorio Tondelli – “Camere separate” (1989)
Tra confessione e frammento
Tondelli è il primo scrittore italiano a legittimare, nella prosa mainstream, un desiderio omosessuale esplicito ma mai banale. Camere separate è un romanzo sul lutto, sulla distanza, sull’elaborazione dell’amore perduto. L’incipit è rarefatto:
«Leo amava Thomas. Lo amava con tenerezza e furia.»
Un incipit che è già dichiarazione, epitaffio, e al contempo premessa drammatica. La frase è di una nudità folgorante: nome proprio, verbo, oggetto. Amore maschile in forma assoluta.
L’explicit, dolcissimo e straziante, chiude il cerchio:
«Leo pianse. E sorrise.»
La soglia qui non è né l’inizio né la fine, ma quel nodo inestricabile tra dolore e grazia, tra perdita e accettazione. È un romanzo sulle soglie dell’amore e del corpo, dove ogni stanza è “separata” ma non per questo priva di comunicazione emotiva.
2. Melania G. Mazzucco – “Sei come sei” (2013)
La paternità queer e la lingua della tenerezza
Un romanzo importante per aver affrontato, con un linguaggio limpido e diretto, il tema dell’omogenitorialità e dell’identità di genere vissuta da una preadolescente. L’incipit racconta la violenza della perdita:
«Era il 20 giugno, il primo giorno d’estate, e sua figlia era orfana.»
La protagonista, Eva, viene strappata al padre superstite – un uomo omosessuale – e costretta a rientrare in un sistema eteronormativo. L’incipit è un taglio netto, l’espulsione da una vita "altra".
L’explicit, invece, restituisce un senso di possibilità, di futuro:
«La bambina sapeva chi era. E questo era abbastanza.»
La soglia diventa qui identitaria: riconoscersi è già esistere, al di là delle strutture oppressive. La frase è semplice, quasi evangelica nella sua affermazione.
3. Andrea Carraro – “Il branco” (1994)
L’omosessualità repressa come violenza collettiva
Sebbene non propriamente un romanzo “queer”, Il branco è fondamentale per mostrare la dimensione repressa e omofoba del maschile italiano. L’incipit è greve:
«Erano seduti su una panchina, senza parlare.»
La sospensione e il vuoto sono già il sintomo del non-detto, del desiderio inconfessabile. L’omosessualità qui si presenta nella forma della violenza omofoba, come riflesso d’una identità maschile minacciata.
L’explicit è una chiusura senza catarsi:
«Avevano fatto quello che avevano fatto. E basta.»
Una frase tautologica, che congela ogni possibilità di elaborazione. La soglia è invalicabile, perché negata.
4. Andrea De Carlo – “Due di due” (1989)
L’amicizia maschile e l’ambiguità del desiderio
Romanzo molto amato da generazioni di lettori, Due di due racconta un’intensa amicizia tra due ragazzi: Mario e Guido. L’incipit è una riflessione sulla differenza e l’incontro:
«Conobbi Guido Laremi nel 1968, in prima liceo scientifico.»
La neutralità narrativa dissimula l’intensità emotiva e il sottofondo ambivalente del rapporto. Mai dichiarata, l’attrazione omosessuale aleggia come un’eco mai pronunciata.
L’explicit guarda al passato con nostalgia:
«L’ho cercato ancora, molte volte. Ma non l’ho più trovato.»
La soglia è allora quella della perdita, del desiderio mai detto, mai consumato. La sua forza è nella mancanza.
5. Tommaso Pincio – “Hotel a zero stelle” (2016)
La marginalità e l’eros senza scena
Un romanzo su corpi ai margini, in cui l’omosessualità si presenta come un riflesso di vergogna e desiderio. L’incipit è volutamente anonimo:
«Stavo seduto nella hall da ore, nessuno sembrava vedermi.»
Il narratore è un’ombra, una figura in cerca d’identità. L’hotel è spazio queer per eccellenza: provvisorio, promiscuo, senza domicilio.
L’explicit invece ricompone la soggettività:
«Alla fine, se ne sono accorti anche loro: esisto.»
Una frase che riecheggia le lotte per il riconoscimento. La soglia è finalmente oltrepassata, ma senza trionfo: solo constatazione.
6. Paolo Cognetti – “Sofia si veste sempre di nero” (2012)
Il queer come eccentricità femminile
Il romanzo è centrato su una protagonista “eccentrica”, Sofia, che fin dall’infanzia mette in crisi i ruoli di genere. Non si tratta di un romanzo LGBTQ+ in senso stretto, ma Sofia è un personaggio queer per la sua radicale inadeguatezza alle norme.
L’incipit la introduce così:
«Sofia si vestiva di nero già a tre anni, e non per caso.»
È una soglia d’identità, un segno precoce e deciso. Il nero è rifiuto ma anche stile. La frase è incisiva e programmatica.
L’explicit è aperto e irrisolto:
«Poi salì sul treno e non si voltò indietro.»
La soglia diventa qui geografica e simbolica: Sofia parte, si allontana, rompe. È un’esistenza mai pacificata, ma in movimento continuo – tipica di molte narrazioni queer italiane.
IX. Conclusione parziale: cartografie dell’intimo
Da Testori a Tondelli, da Mazzucco a Cognetti, le soglie letterarie queer italiane tracciano una mappa dell’intimità attraverso la lingua. Gli incipit sono spesso ferite, aperture brutali sul desiderio o sulla sua amputazione. Gli explicit sono carezze, oppure epitaffi: frammenti di un corpo narrativo che non trova mai pace, perché la pace – per le vite queer italiane – è spesso un miraggio.
Ogni soglia diventa allora un atto politico: nel raccontare, nel confessare, o anche solo nel non tacere.
X. Le soglie del desiderio: metanarrazione queer di inizio e fine
L’inizio e la fine di un testo queer non sono mai semplicemente punti convenzionali su una linea narrativa. Sono, piuttosto, fratture simboliche: aperture feroci, tagli netti, silenzi colmi di senso. Sono soglie — e le soglie, nella narrativa queer, non sono mai neutrali.
Nel canone eterosessuale, l’inizio ha spesso la funzione di fondare un ordine: nominare un protagonista, descriverne il contesto, avviare una progressione causale che condurrà — salvo eccezioni — a una risoluzione. La fine chiude, restituisce, riconcilia. L’ordine viene perturbato e poi restaurato.
Nei testi queer, invece, l’inizio è spesso una rottura dell’ordine, un ingresso nell’alterità. Si comincia nel mezzo di una fuga, di una perdita, di un gesto irregolare. Le identità sono scomposte, gli spazi instabili. L’inizio non dichiara chi siamo, ma ci getta nel vuoto: "Leo amava Thomas" (Tondelli), "Il giorno che morì mio padre io e Carlo eravamo a letto" (Colagrande), "I was born in the sign of water" (Giovanni’s Room). È un linguaggio che non fonda, ma interroga. Il soggetto queer non entra in scena da padrone, ma da corpo vulnerabile, a volte illegittimo, sempre dissonante.
Questo perché la letteratura queer si misura con ciò che non ha avuto parole: racconta ciò che la lingua dominante ha storicamente messo a tacere. L’inizio, allora, è un atto di apparizione e insieme un tradimento: il personaggio queer appare nel testo ma lo fa spesso controvoglia, travestito, protetto dal filtro di un narratore, o esposto nella crudeltà di un realismo freddo.
La fine non risolve: precipita, sospende, lascia in attesa. Non c’è happy ending garantito, né redenzione. Ma proprio in questa mancata riconciliazione si apre uno spazio per la verità. Molti romanzi queer finiscono dove altri inizierebbero: con una partenza, una solitudine, una morte non del tutto spiegata, una dichiarazione appena sussurrata. La narrativa queer rifugge la catarsi — perché il mondo reale non la concede.
Nel romanzo eterosessuale, la fine arriva spesso dopo un matrimonio o una morte simbolica che suggella il compimento. Nei testi queer, invece, la fine è un margine che lascia filtrare ancora desiderio, ancora movimento. Prendiamo la chiusa di Giovanni’s Room di James Baldwin: «I suppose it’s time to go upstairs now.» Il personaggio sa che lo aspetta qualcosa di definitivo — forse la morte dell’amato — eppure rimane lì, nel tempo sospeso dell’attesa.
O pensiamo a Camere separate dove l’ultima frase — «Leo pianse. E sorrise.» — lascia il lettore senza appiglio: non si sa se si tratta di salvezza o rassegnazione. Ma è proprio questa ambiguità che caratterizza l’explicit queer: non chiude, ma rilancia. Non placa, ma ricorda. In ogni finale queer resta un’eco, una faglia che continua a pulsare sotto la pagina bianca.
Il tempo queer: ciclico, interrotto, insistente
A livello profondo, l’inizio e la fine nei testi queer obbediscono a un tempo diverso: un tempo non lineare, non progressivo, non riproduttivo. Il tempo eterosessuale è finalizzato alla famiglia, alla discendenza, alla normalizzazione. Quello queer, invece, è irregolare, interstiziale, ripetitivo. Non a caso, molti testi LGBTQ+ tornano su sé stessi, riscrivono il passato, aprono spiragli nel trauma, nella memoria, nel sogno.
In questo senso, anche la struttura del testo queer è spesso speculare o frantumata: pensiamo alla frammentazione lirica di Camere separate, ai salti temporali di Giovanni’s Room, al ritorno ossessivo sul dolore in Sei come sei. Non c’è un prima e un dopo chiari. Il dolore non si supera, ma si attraversa. L’amore non si risolve, ma si ripete.
Narrazioni non riproduttive
Un altro elemento decisivo è che i testi queer, per loro natura, non sono “riproduttivi” nel senso tradizionale. Non fanno figli, non costruiscono genealogie canoniche, ma trasmettono desiderio, trauma, memoria in modo laterale. L’inizio e la fine diventano allora forme di ereditarietà simbolica: sono gesti che passano qualcosa al lettore, ma non lo fanno con l’ordine della paternità. Lo fanno come un passaggio segreto, una lettera nascosta, un bacio tra ombre.
Ogni soglia queer è anche una testimonianza: non parla solo del personaggio, ma del mondo che lo nega o lo consuma. L’incipit dice: "sono qui, anche se non mi volevate." L’explicit sussurra: "non mi avete ucciso del tutto." È una forma di sopravvivenza letteraria.
Conclusione: scrivere oltre il margine
In definitiva, l’inizio e la fine nei testi queer sono gesti radicali. Non solo per quello che dicono, ma per il modo in cui lo dicono: contro, fuori, oltre. La narrativa queer è una letteratura di frontiera, e le sue soglie — l’incipit e l’explicit — sono i luoghi dove il desiderio si rivela nella sua forma più cruda o più silenziosa.
Sono margini che parlano: di dolore, di bellezza, di perdita, di ritorno. E nel farlo, spostano il lettore da un tempo lineare a un tempo queer: un tempo in cui ogni storia è insieme una ferita e una resurrezione.
Perché come scrive Ocean Vuong in una delle sue lettere più celebri:
«In a world where nothing is born straight, the straight line becomes a lie.»
In un mondo in cui nulla nasce dritto, la linea retta diventa una menzogna.
E i testi queer cominciano e finiscono proprio lì: nel punto esatto in cui la menzogna si rompe.
Sono soltanto appunti, niente di più. Lo si capisce subito, senza bisogno di troppe spiegazioni: frasi annotate in fretta, spesso in orari sbilenchi, con grafie mutate dal sonno o dall’ironia. Sono frammenti scomposti, eppure non disordinati: hanno una loro coerenza intima, una logica interiore che probabilmente comprendo soltanto io — e nemmeno sempre. Si direbbe che respirino appena, come lettere lasciate su un tavolo in una casa dove si vive ancora, ma con le persiane abbassate. Non c’è luce diretta, ma il tempo filtra lo stesso, e lascia una traccia.
Mi domando, ogni tanto, se abbia senso raccoglierli, trascriverli con disciplina, trasformarli in qualcosa che possa presentarsi al mondo. Scriverli davvero, insomma. Dare loro una forma che possa uscire dalla mia stanza, che regga alla lettura di un altro. Ma poi la domanda si consuma da sola, come un fiammifero acceso in una stanza troppo grande. Resta soltanto la cenere del dubbio: per chi? per quando? e — soprattutto — perché?
In un tempo che mi sembra remoto, eppure non del tutto estinto, accadde che qualcuno si interessasse a ciò che scrivevo. Un editore vero, cartaceo, di quelli che riconoscevano a un testo la sua aura, il suo peso specifico, il suo respiro. Era il secolo scorso. C’era ancora, nel gesto di pubblicare, qualcosa che assomigliava a una scelta, a una fiducia. A un’intesa. Ricordo la lentezza con cui si passavano le bozze, l’odore dell’inchiostro fresco sulla prima copia ricevuta per posta. Ricordo la sensazione — rara, quasi mitica ora — di vedere le proprie parole impresse su una carta ruvida e concreta, consegnate al mondo come se davvero avessero qualcosa da dire. Non so se fosse illusione, o incanto. Ma era mio, e mi ha tenuto in piedi a lungo.
Oggi non so se tutto questo abbia ancora un senso, se esista ancora quello sguardo che cerca tra le righe qualcosa che non sia soltanto consumo. Se ci sia ancora qualcuno che legga in silenzio e pensi, anche solo per un attimo, che quelle parole — quelle mie parole — valga la pena di ascoltarle. Gli appunti che tengo adesso sono un esercizio di fedeltà a una voce interiore che non vuole spegnersi del tutto. Sono forme minime, come piccoli animali che non si lasciano addomesticare. Eppure restano lì, giorno dopo giorno, ad attendere qualcosa: forse uno sguardo, forse un’energia nuova, forse solo un’altra epoca.
Se mai dovesse accadere — e con questo “mai” non intendo una chiusura, ma una possibilità in sonno — se mai un editore, ancora cartaceo, ancora curioso, tornasse a interessarsi a ciò che faccio, allora sì: potrei riprenderli. Potrei tornare su quelle frasi con attenzione nuova, con la delicatezza che si riserva a ciò che è stato dimenticato ma non è morto. Potrei mettere ordine, non per amor di pulizia, ma per restituire loro un corpo leggibile, una voce condivisibile.
Ma fino ad allora — e potrebbe voler dire per sempre, o semplicemente per un tempo lungo — lascerò che restino così: imperfetti, liberi, incompleti. E, in un certo senso, più veri. Perché sono lo specchio preciso del momento in cui vivo: un tempo di silenzi trattenuti, di desideri dismessi, ma anche di ostinazioni tenaci, umili, quotidiane. Quella di scrivere, anche senza pubblico, è una di queste.