Il locale è una caverna di suoni e luci, un rifugio sotterraneo dove tutto sembra vibrare sul filo dell’eccesso. L'aria è pesante, intrisa di sudore, alcool e quel vago sentore metallico che arriva chissà da dove. Le luci stroboscopiche tagliano l’oscurità a intervalli irregolari, rivelando frammenti di volti sudati, occhi scavati, sorrisi che sembrano smorfie. Il soffitto basso amplifica la sensazione di essere intrappolati, mentre le pareti, rivestite di specchi opachi, rimandano immagini distorte, come di un sogno febbrile.
Il bancone, lungo e scarsamente illuminato, è un altare di bicchieri sporchi e bottiglie mezze vuote. Dietro, il barista si muove con gesti automatici, lo sguardo spento di chi ha visto troppe notti come questa. Gli avventori sembrano creature notturne, più ombre che persone, intenti a parlarsi in un linguaggio fatto di sguardi taglienti e movimenti sottili. Qualcuno ride troppo forte, un suono che si perde nel ritmo martellante della musica. Altri rimangono immobili, osservano, aspettano.
Due uomini siedono vicini al bancone. Non si toccano, non si guardano troppo a lungo, ma tra loro c’è una tensione che pulsa più della musica. Uno gioca con la cannuccia del cocktail, lo sguardo fisso sul ghiaccio che si scioglie. L’altro tamburella le dita sul bancone, il corpo appena girato verso la pista, dove il movimento dei danzatori ha qualcosa di animalesco, quasi predatorio.
"Lo sai che nessuno è davvero uno?" dice il primo, senza distogliere lo sguardo dal bicchiere. La voce è bassa, quasi un sussurro, come se temesse di essere ascoltato.
L’altro solleva appena il sopracciglio, senza girarsi. "Che vuoi dire? È una di quelle cose profonde che si dicono dopo tre drink?"
"No." Scuote la testa, come infastidito dalla leggerezza della risposta. "È che siamo almeno due. Sempre. E forse molto di più."
"Interessante." Il secondo si volta a guardarlo, un lampo di curiosità negli occhi. "Quindi stasera chi sei? Quello che voleva venire qui o quello che avrebbe preferito restare a casa?"
"Non lo so." Il primo alza lo sguardo, fissando per un attimo le luci che danzano sul soffitto come lampi di tempesta. "Forse nessuno dei due. Forse qualcun altro ha deciso per me. Qualcosa dentro di me."
L’altro sorride, ma il suo sorriso è strano, quasi tagliente. "E se invece fossimo solo un casino? Un groviglio di vite che non riescono a mettersi d’accordo?"
"Lo siamo." Il tono è serio, definitivo. "Un nodo di vite disparate. E nessuna vince davvero. Si tirano contro, si scontrano. E noi finiamo in posti come questo."
Un breve silenzio li avvolge, rotto solo dal battito incessante della musica e dal rumore dei bicchieri sul bancone. Qualcuno, poco distante, scoppia in una risata isterica, seguita da un mormorio incomprensibile. La pista, intanto, sembra una giungla: corpi sudati che si avvinghiano, mani che si perdono su schiene lucide, bocche che si cercano senza parlare. Le luci stroboscopiche illuminano a tratti volti stravolti, quasi irriconoscibili.
"Vieni." Il primo si alza, tendendo la mano verso l’altro. La voce è ferma, come un ordine. "Forse sulla pista possiamo capire chi siamo."
L’altro esita per un attimo, poi sorride di nuovo, ma stavolta il sorriso è meno tagliente. È vuoto. Prende la mano e si lascia guidare. "Chiunque sia, spero sappia ballare."
Si muovono verso il cuore oscuro del locale, inghiottiti dalla folla e dal ritmo ossessivo della musica. La luce li cattura a tratti, un frammento di volto qui, una mano lì. Poi, sono soltanto ombre, parte di quel groviglio di vite che danzano, si scontrano e si consumano nella notte.