venerdì 15 novembre 2024

Pagliaccio

Il fuoco, che si era insinuato come un male sottile, come un veleno che lentamente corrode l'anima di un corpo, continuava la sua danza tra le ombre e le luci del teatro, inghiottendo tutto ciò che incontrava nel suo cammino. La sua furia non conosceva pietà: saliva dai fondali come una marea inarrestabile, travolgendo con rabbia e senza alcuna distinzione le cose più sacre di quel luogo. Il legno che un tempo accoglieva le storie degli uomini, la seta che sfiorava i corpi degli attori in un abbraccio morbido, la polvere che portava con sé i ricordi delle centinaia di spettacoli che avevano animato quelle pareti, tutto scompariva. E tutto ciò che restava, nell’aria, era una nuvola nera di fumo, che gravava sul cuore di chi ancora non capiva. Il fuoco non era solo un elemento naturale, era una condanna, una riflessione della nostra fragilità, del nostro bisogno incessante di ignorare la realtà fino al punto di autodistruggerci. Le fiamme si facevano più alte, più potenti, eppure il pubblico, là, sotto il cielo di luci fredde e rassicuranti, non sembrava vedere, non sembrava sentire.

Il pagliaccio, che un tempo incarnava il sorriso e la leggerezza, ora era l’unico testimone di ciò che stava accadendo, l’unica anima che non potesse voltare la testa per sfuggire alla verità che si srotolava sotto i suoi occhi. La sua maschera, che di solito era un perfetto gioco di colori e sorrisi, ora appariva una distorsione, un volto che sembrava riflettere un’altra realtà, una tristezza che non aveva nulla a che fare con la sua solita indifferenza. Le sue labbra tremavano, le mani nervose si alzavano in aria come se cercassero di fermare il corso inesorabile degli eventi, ma tutto ciò che otteneva era l’indifferenza. Ogni passo che faceva, ogni parola che pronunciava sembrava spezzarsi in aria, dispersa dal fragore degli applausi che si sollevavano come onde su un mare di ignoranza. "Fuggite!" gridava, la sua voce ora squillante di paura, ma veniva sopraffatta dal rullo degli applausi che, più che essere una risposta a una performance, erano una negazione della realtà. La sua richiesta di salvezza non aveva valore. Per loro, per quel pubblico che si nutriva di illusioni, quella non era che un'altra battuta, un altro scherzo.

E così, ripeté, con forza crescente, con una disperazione che dilatava il tempo stesso, come se ogni singola parola fosse l’ultimo tentativo di sfuggire alla morte. “Fuggite!” Ma il pubblico, ben addestrato nella sua inconsapevolezza, non udì. Ogni volta che la sua voce veniva risucchiata nell’abisso del rumore, l’applauso si faceva più forte, più assordante, un boato che sembrava voler annientare ogni altra forma di esistenza. Non c’era posto per la verità. Non c’era posto per la paura. Non c’era posto per nulla che non fosse il godimento immediato del momento, come se quel piccolo gesto di compiacimento fosse tutto ciò che contava in quel breve frammento di tempo che chiamavano vita. Le loro mani battevano sempre più forte, senza fermarsi, come se il battito stesso fosse la loro unica forma di resistenza contro il mondo che stava crollando. Ma non c’era resistenza. Nessuna lotta.

Il pagliaccio, intrappolato in quella farsa, sapeva che stava combattendo una battaglia che non avrebbe mai vinto. Le sue urla di disperazione si perdevano come foglie trasportate dal vento. Non c’era ascolto, non c’era pietà. Non era più un uomo, non era più nemmeno un personaggio. Era diventato l’incarnazione stessa della consapevolezza di ciò che stava accadendo, l’ultimo, inutile baluardo contro l'indifferenza del mondo. Le sue mani si agitarono, cercando di farsi notare, di attirare l'attenzione di qualcuno che potesse vedere. Ma i suoi sforzi erano come un’eco nel vuoto. Le sue parole, che prima avevano avuto una forma e un significato, ora erano solo suoni senza corpo. Il fuoco, ormai diventato una fiera che divorava senza più distinzione, non si fermava mai, eppure il pubblico continuava a ridere, a esultare. La tragedia era ormai consumata, eppure continuavano a applaudire, convinti che fosse solo parte del gioco, parte di una realtà che non esisteva più.

Il pagliaccio ripeté ancora: “Fuggite!” Ma questa volta, la sua voce non si unì al fragore dei battiti di mani. La sua voce si unì al crepitio delle fiamme, alla caduta dei sogni e delle illusioni. Non era più un grido di paura, ma un sussurro di resa. La sua anima si stava consumando come un raggio di luce che si spegne, e il pubblico, ignaro di tutto, acclamava, applaudiva, gioiva. Il mondo stava finendo, e loro stavano applaudendo la sua fine.

Mi venne in mente, mentre la scena si dilatava nell’inquietante surrealismo di quel momento, che non era mai stato diverso. La fine del mondo non sarebbe mai stata un fragore di morte, non sarebbe mai stata un’apocalisse fatta di urla e terrore. No, la fine del mondo sarebbe stata proprio così: silenziosa, implacabile, celata dietro un sorriso, un applauso, una risata. La fine sarebbe giunta con l'ignoranza, con la certezza di non voler vedere. Il fuoco avrebbe bruciato tutto, ma nessuno lo avrebbe visto. Avrebbero continuato a ridere, a credere che fosse solo uno scherzo, una parte dello spettacolo. La fine del mondo non era una catastrofe visibile, era una discesa nell’incredulità. Era il momento in cui il pubblico continuava a applaudire, convinto che fosse solo un gioco. La fine del mondo, la vera fine, sarebbe arrivata come un’ovazione, come una risata collettiva, come una negazione di ogni possibile consapevolezza. E il pagliaccio, che ormai non aveva più voce, avrebbe continuato a urlare nel silenzio, nel vuoto, nell’eco di un applauso che non aveva più senso.