Nell'opulenza di uno studio trasformato in un tempio di sensazioni e di languore, ogni dettaglio sembrava pensato per evocare il piacere di una vita vissuta interamente nel culto dell'estetica, e l'aria stessa, satura del profumo sontuoso delle rose, esalava un’armonia che si mescolava, quasi in una sinfonia invisibile, all’aroma più discreto dei lillà e al respiro appena percettibile delle rose canine, che, trasportati dalla brezza estiva, penetravano attraverso la porta aperta come una carezza delicata, insinuandosi tra i mobili intagliati e le stoffe pregiate, e là, adagiato con un’indolenza quasi teatrale sull’angolo di un divano orientale rivestito di cuoio brunito, Lord Henry Wotton, circondato da un alone di fumo azzurrognolo prodotto dalle sue innumerevoli sigarette, lasciava che il suo sguardo, semisocchiuso e brillante di un'ironia languida, si posasse distrattamente sui maggiociondoli che si piegavano sotto il peso dei loro fiori dorati, il cui colore e dolcezza ricordavano il miele distillato, e parevano vibrare nell'aria come se la loro stessa bellezza fosse un carico insopportabile, mentre ombre leggere, proiezioni fuggevoli di uccelli in volo, attraversavano le tende di seta che ondeggiavano davanti alla finestra spalancata, creando un effetto tanto sfuggente quanto poetico, che sembrava evocare le immagini fluttuanti e stilizzate di quei pittori di Tokyo, le cui mani sapienti e i cui volti di pallida giada sono consacrati all’arte immobile di catturare l’inafferrabile, e intanto, nel giardino ormai invaso dall’erba alta e da ciuffi disordinati di caprifogli, le api ronfavano con una monotonia ipnotica, il loro ronzio scandiva un ritmo che, anziché spezzare l'immobilità, ne accentuava il carattere ossessivo e implacabile, quasi fosse un canto funebre per un mondo senza tempo, e tutto ciò si univa, come una nota grave che completava la sinfonia, al rombo profondo e distante di Londra, che giungeva attutito e remoto, simile alla vibrazione di un organo nascosto nella nebbia di una cattedrale, mentre al centro della stanza, solenne e immobile come un idolo, si ergeva su un cavalletto di legno scuro il ritratto di un giovane di straordinaria bellezza, il cui volto, modellato da linee tanto perfette da sembrare quasi irreali, era un trionfo della maestria e della passione dell’artista, e Basil Hallward, seduto poco distante, lo contemplava con uno sguardo in cui si mescolavano estasi e tormento, come se la visione che aveva evocato sulla tela fosse divenuta un riflesso inquietante della sua anima, e mentre il suo volto si increspava in un sorriso che sapeva insieme di trionfo e di rimpianto, si levò improvvisamente con un gesto convulso, come scosso da un pensiero troppo intenso per essere contenuto, e chiuse gli occhi con forza, premendo le dita contro le palpebre, nel disperato tentativo di imprigionare dentro di sé quella visione troppo perfetta, troppo fragile, temendo che, al primo contatto con la realtà, potesse dissolversi come il miraggio di un sogno troppo audace per sopravvivere alla luce del giorno.
16 ottobre 1854, Westland Row, Dublino, Irlanda
30 novembre 1900, Parigi, Francia