Ti ho inseguito, o forse venerato, con la devozione disperata di chi, smarrito nella notte più fonda, alza lo sguardo verso un cielo avaro, che nasconde le sue stelle dietro veli d’indifferenza, e intanto ogni passo, ogni respiro, ogni battito del cuore si faceva preghiera muta, non rivolta a un dio misericordioso, ma a un fantasma che si compiaceva della mia inquietudine. Ti ho chiamato nei giorni in cui il sole, non più simbolo di vita ma di condanna, ardeva come una ferita aperta nel cielo immobile, e la terra, prosciugata e desolata, si apriva in crepe profonde, come bocche mute che divoravano ogni speranza, lasciandomi solo con l’eco dei miei pensieri.
Ti ho seguito lungo strade che si moltiplicavano in labirinti senza uscita, ogni curva un inganno, ogni rettilineo un abisso, e ogni binario sembrava inciso dal destino stesso, un destino che conduceva a te, eppure già ti allontanava, come un miraggio che si dissolve prima di essere afferrato. E nonostante tutto, già eri lì, presente sopra di me, non visibile, ma ineluttabile, come una cappa d’ombra che soffoca senza uccidere, come un manto di pioggia sottile che cade senza tregua, insinuandosi in ogni interstizio della carne, in ogni piega dell’anima, lasciando una scia di gelo e tormento che non si può cancellare.
E tu, tu eri – sei – non una luce che salva, ma un chiarore ambiguo e crudele, quel chiarore dell’alba che non porta consolazione ma svela, con un’ostentata indifferenza, ogni miseria, ogni traccia di rovina nascosta dal buio. Sei il richiamo che sveglia i rapaci dai loro nidi solitari, spingendoli a un volo che non ha meta, solo istinto e fame; sei il soffio che percorre le navi abbandonate nei porti, scuotendo il loro legno marcito e facendole sognare il mare come un’agonia mai conclusa; sei la voce che risuona tra le strade vuote dei paesi morti, dove ogni pietra porta il segno di vite spezzate e abbandoni senza redenzione. E le stelle, quegli occhi gelidi e lontani che punteggiano il cielo muto, sembravano inchinarsi alla tua ombra, non per adorarti, ma per riconoscere in te un potere che supera ogni logica, ogni legge.
Venivi, sì, ma non dal tuo volto, che pure si ergeva come un idolo nella mia mente – severo, distante, intoccabile. Venivi da un luogo che sfugge alla comprensione, un altrove che non si misura in spazio o tempo, ma nella profondità del desiderio, un desiderio che si nutre di assenza e si avvolge su sé stesso, come un serpente che morde la propria coda. E io, fragile e consumato, ridotto a un’ombra di me stesso, mi chiedevo se il mio cuore, questo tamburo fragile e febbrile, avrebbe potuto sopportare il peso della tua presenza, o se sarebbe esploso come un vetro sottile colpito da una forza inarrestabile. Perché tu, tu eri – sei – qualcosa di più grande, più spietato, più eterno di qualsiasi cosa io potessi immaginare: eri più forte del mio sangue, quel sangue denso e oscuro che scorreva in me come una linfa velenosa, una linfa che dava vita e morte insieme, come quella di un albero antico, che sopravvive alle tempeste solo per essere abbattuto da una dolcezza tanto irresistibile quanto distruttiva. Un albero che non si spezza per il vento, ma per l’abbraccio silenzioso di ciò che non può comprendere, e che tuttavia, in quel cedimento, trova l’unica verità che conti: l’estasi del proprio annientamento.