Voci. Non una, non due, ma un intreccio inestricabile di voci, come se il mondo avesse perso la capacità di articolare il senso e si fosse frantumato in frammenti vocali, in schegge dissonanti che vagano nello spazio come detriti cosmici. Le voci non chiedono, non sussurrano, non consolano. Esistono e basta, e nel loro esistere si fanno minaccia. Ogni voce è una cicatrice che si riapre, un’eco che non ha origine né fine. Galleggiano nell’aria stantia del vagone, si annodano l’una all’altra come i capelli di una medusa: voci che non si lasciano guardare, che pietrificano.
Sono schegge di tenebra, e non è un’immagine. È realtà. Frammenti scuri, concreti quasi, che si insinuano sotto la pelle, che si depositano negli occhi come una polvere nera. Ogni parola che si libera da quelle gole invisibili è un atto di contaminazione. Un sussurro, una frase smozzicata, una risata breve, secca, come lo schiocco di una corda spezzata. Non c’è calore, non c’è ironia. Solo veleno. Veleno sottile, che si diffonde come un fumo tossico, lento, sinuoso. Mi avvolge le tempie, mi entra nel naso, si poggia sulla lingua con il gusto acre delle lacrime.
Le parole... Le parole sono lame. Non metafore. Non immagini. Lame vere. Sottili, affilate, forgiate nel silenzio e nel disprezzo. Parole che affondano nella carne viva dei pensieri, che incidono la memoria, che tagliano le connessioni logiche e lasciano solo un senso di disordine, un dolore opaco e continuo. Ossidiana: nera, lucida, tagliente. Ogni parola lanciata da quei corpi è una freccia che non cerca il bersaglio, lo possiede.
E il silenzio. Il silenzio non è una pausa, non è tregua. È la materia stessa dell’urlo. Un urlo trattenuto, spremuto, condensato in un silenzio così denso da diventare vischioso. Un silenzio che si può afferrare, modellare, rompere, ma che nel farlo ruggisce. Dentro quel vagone, quel maledetto vagone, il silenzio ha preso la forma dell’orrore, ha assunto le fattezze della condanna.
Il vagone, sì. La metropolitana. Ma non più quella che conoscevo. Non più mezzo di spostamento, sequenza di fermate, flusso urbano. È diventata qualcos’altro. Un corpo cavo, una bara d’acciaio, una cella monastica per penitenti ignari. Ma non c’è preghiera, non c’è redenzione. Solo attesa, solo sfinimento. L’aria è satura, le luci pulsano come occhi stanchi. Le pareti, riflettendo le ombre, sembrano respirare. Ogni vibrazione, ogni scossa è una contrazione uterina. Stiamo per nascere, mi dico. O per morire.
Tutto è rituale, e io non conosco la liturgia. Intorno a me non ci sono passeggeri. Ci sono officianti muti. Lenti, immobili, implacabili. Celebrano un rito che non ha dio, non ha sacrificio, ma solo spettatori costretti a offrire la loro impotenza. Mi guardano senza occhi, oppure non mi guardano affatto: e in questo doppio movimento, nello sguardo che non è sguardo, si consuma la mia rovina.
Il mio libro. L’unico oggetto che possedevo, il mio talismano, il mio appiglio. Mi è scivolato dalle mani come un bambino lasciato cadere. È caduto ai loro piedi. E lì è rimasto. Un piccolo rettangolo di carta e silenzio, abbandonato in mezzo ai corpi come un cadavere. Nessuno si china. Nessuno si muove. È come se avesse emesso un suono che solo loro potevano udire: un suono blasfemo, insopportabile, che li ha offesi nel profondo.
Non è un libro, adesso. È una reliquia contaminata, un’offesa visibile, uno scandalo. Le sue pagine sembrano respirare, come se volessero chiudersi da sole per non farsi guardare. Il sapere, in questo luogo, è bestemmia. Il sapere è sacrilegio. La conoscenza è reato. Il titolo, una frase sibillina, scritta in caratteri consunti, si è fatto enigma. Non dice più nulla. È un’eco lontanissima, che rimbomba dentro caverne che non ho mai visitato. Una chiave spezzata, un enigma indecifrabile. Come il nome di un dio morto.
E loro. Loro. I corpi. La cortina opaca che mi circonda. Una muraglia senza appigli. Volti senza volto, mani ferme, occhi abbassati. Nessuno parla. Nessuno ride. Ma la minaccia pulsa sotto la pelle, è scritta nei muscoli tesi, nei respiri trattenuti. Sono lì, immobili, ma mi schiacciano. Mi stringono in una morsa fatta di carne e vergogna. Ombre fitte, sagome nere che assorbono la luce come se la divorassero.
E poi, quel dettaglio osceno, inevitabile. I loro pubi, all’altezza del mio volto. Non è una postura. Non è casualità. È gesto. È intenzione. È il simbolo puro della sopraffazione. Mi si impongono. Senza toccarmi. Mi profanano. Senza violarmi. È un’offesa primordiale, che parla il linguaggio dell’istinto e della minaccia. Non hanno bisogno di muoversi. Il loro solo essere lì, il solo stare eretti, allineati come statue del giudizio, è atto di violenza. È un rito d’umiliazione senza contatto.
Sento il mio cuore battere come se volesse sfondare lo sterno. Sento le ginocchia diventare liquide. Eppure resto. Non per coraggio, ma per impossibilità di fuggire. La fuga non è concessa. Il vagone non ha uscite. La metropolitana non corre. Siamo fermi. Sospesi. Come se il tempo si fosse spezzato. Come se questo istante, questo solo, eterno istante, fosse tutto il tempo rimasto.
E io sono lì. Con la fronte abbassata. Le mani vuote. Gli occhi nel vuoto. Testimone inutile di una liturgia che mi esclude.
La muta ride. Ride forte, sguaiata, soddisfatta, senza ritegno, senza grazia, senza misericordia. È una risata che non ha origine nel petto ma nel ventre, nelle viscere. Un ruggito spezzato, un verso di branco, una celebrazione del potere esercitato attraverso la paura. Il vagone — stretto, sporco, illuminato da luci tremolanti e fioche — si trasforma in una cassa armonica per quel suono disumano, che si propaga, rimbalza sulle pareti di metallo, si moltiplica, si distorce, si fa presenza fisica. Non è più solo rumore: è materia, è pressione sull’aria, è un vento caldo e malevolo che soffia alle spalle, che spinge avanti qualcosa di invisibile ma inarrestabile. È un’eco di risate cavernose, sì, ma anche uno schianto, uno sfregamento tra lastre d’odio, una valanga invisibile che travolge ogni certezza. Quelle voci non hanno volto: sono denti, sono lingue, sono gole aperte e nere. Si espandono, s’intrecciano, si nutrono l’una dell’altra. Un ghigno collettivo e feroce che si insinua dentro, si fa strada tra le ossa, serpeggia lungo la colonna vertebrale come un morso elettrico. Scivola sotto la pelle, penetra nel sangue, vibra dentro le arterie, e gela, gela tutto quello che trova. È un brivido acido, una morsa, un inchiodamento. L’anima – se ne esiste una – si contrae, si rannicchia, si ritira in un angolo remoto del petto, e smette di respirare.
Poi basta un niente. Davvero, un niente. Un gesto qualsiasi. Un colpo di tosse fuori tempo. Una mano che scivola troppo in fretta verso il cellulare. Un ginocchio che si alza. O, più spesso, un’ombra. Una semplice ombra che si allunga sul pavimento del vagone, disegnata da una luce tremolante, e che sembra all’improvviso una lama, una minaccia, un pretesto. Un presagio. È come se l’aria, già pesante, si facesse densa come vetro fuso. Una tensione che si carica senza esplodere, che resta lì, trattenuta, sospesa, intollerabile. È un avvertimento che non ha voce, ma che grida. Si sente nel fiato che cambia, nei silenzi improvvisi, nel rumore secco delle giacche sintetiche che si tendono sui muscoli pronti a scattare. Una premessa. E poi, inevitabile, viene lo sguardo. Il mio. Non cercato, non desiderato. Non un atto d’orgoglio, ma una distrazione, un riflesso, un inciampo. Involontario, assolutamente. Ma sufficiente. Più che sufficiente. Come se avessi acceso una miccia. Come se avessi rovesciato benzina su una brace. Basta poco per rompere la fragile simmetria del terrore. Basta un solo istante in cui gli occhi si incrociano, e tutto si compie. Quella scintilla – piccola, quasi impercettibile – diventa fuoco. Una fiamma che nessuno può più contenere.
È una scintilla che brucia la distanza tra me e loro. Che annulla lo spazio, che trasforma ogni cosa in campo di battaglia. È un errore. O forse un atto d’onore, ma involontario, e quindi ancora più assurdo. È come se, nel mio sguardo, loro avessero letto una sfida. Non voluta, non pensata, ma irrevocabile. Un guanto lanciato sul pavimento unto del vagone. Non importa se volevo sfidarli o meno. Loro hanno deciso che lo sguardo è offesa. Che è insolenza. Che è provocazione. E per questo va punito. Perché il branco si nutre della sottomissione, e tutto ciò che somiglia anche solo da lontano a un gesto di dignità va schiacciato.
E allora comincia. Il meccanismo si mette in moto. Preciso, spietato, automatico. Una reazione a catena. Come se tutto fosse già stato scritto. Un copione. Un rituale. Come se da anni, da secoli, da millenni, quella scena si ripetesse identica. Cambiano i volti, cambiano i vestiti, cambiano i suoni, ma la struttura resta. Un destino che scatta. Che si apre come un baratro sotto i piedi. Una spirale, sì. Una spirale di violenza. Ma anche di memoria. Come se in quel momento, senza capire come, mi ritrovassi dentro una liturgia antica. Il capro. Il rito. Il sacrificio. La vittima designata. E non c’è nulla da fare. Nessuno da chiamare. Nessuna via d’uscita. Nessun Dio a cui rivolgersi. Solo la consapevolezza crescente che sto per essere travolto. Che sto per essere inghiottito. E che tutto questo era già deciso prima ancora che io salissi sul treno. La violenza non è un’esplosione. È un vortice. E io ci sono dentro. Mi gira intorno, mi strappa, mi schiaccia, mi disintegra. Mi divora lentamente. Mi mastica. Non con i denti, ma con la paura.
E io reagisco. In modo istintivo, disperato, quasi ridicolo. Mi alzo. Di colpo. Un movimento brusco, violento. Ma non ha nulla di eroico. È più vicino al sussulto di un animale in trappola che a un gesto cosciente. È un gesto che vorrebbe essere ribellione, ma che sa già di sconfitta. Un atto che, nel farlo, già si dissolve. È una fiammella. Una piccola luce nel buio, che si alza, che tenta di farsi largo tra le tenebre. Ma è destinata a spegnersi subito, soffocata, dimenticata. È un ultimo scatto di dignità che si dissolve nell’indifferenza. Perché nessuno guarda. Nessuno interviene. Nessuno si oppone. Il vagone è pieno di sguardi bassi, finti assorti, o voltati altrove. E capisco. Tutto in un secondo. Capisco che sono solo. Che lo sono sempre stato. Che l’unica cosa che credevo di avere – la possibilità di dire no, di oppormi – era un’illusione. L’ultima. E si spezza. Si frantuma. Cade come vetro in mille schegge. E con lei, ogni speranza. Ogni sogno di giustizia. Ogni senso. Resta solo il silenzio. E il rumore dei passi che si avvicinano.
Un’azione più violenta, più teatrale, eppure terribilmente precisa. Non era soltanto un’esplosione cieca di aggressività: era una coreografia dell’odio, una messinscena in cui ogni gesto, ogni parola non detta, ogni sguardo trattenuto contribuiva a un climax di sopraffazione. Come in una tragedia, ma senza catarsi. Come un rituale oscuro, dove il male non si traveste, ma si mostra per ciò che è: nudo, brutale, inesorabile. Ogni movimento aveva un suo significato, ogni pausa un suo peso, ogni colpo una scrittura. Non era solo un atto, era una narrazione della distruzione. E io ero il testo da riscrivere con il sangue, da cancellare col fango. Il corpo diventava linguaggio, carne da plasmare, memoria da sfigurare. Non c'era possibilità di sfuggire, perché la scena era già stata scritta altrove, in un luogo dove non esiste perdono.
Il capo era lì, non più umano, ma un’entità astratta e allo stesso tempo viscerale. Un’ombra che incombeva su tutto, come un’eclissi che spegne ogni luce. Era una forma muta di terrore, un’architettura del dominio. Aveva l’aura di chi ha deciso di incarnare l’inferno, e di regnarci dentro con fierezza. La sua presenza era un veleno lento: si insinuava nei pensieri, li deformava, li riduceva in cenere. Non parlava, ma il suo silenzio gridava più forte di qualsiasi insulto. Gli altri lo seguivano come si segue un dio pagano, un totem crudele, un'emanazione della notte più fonda. Non c’era bisogno di ordini: bastava che fosse lì, e il male si faceva carne. Un re dell'inferno, incoronato non da meriti ma da paure, da sottomissioni striscianti, da complicità silenziose che profumavano di pus.
E poi, quel gesto. Quell’erezione che si ritrae, come se il desiderio stesso avesse capito di non essere più desiderio ma strumento di oppressione. Il calo improvviso non era un fallimento, ma un’apoteosi del disprezzo. Era l’indice puntato che diventa coltello, la lancia che non trafigge ma deturpa. Un atto di umiliazione che superava ogni definizione, che varcava i confini del corpo per entrare nel territorio dello spirito. La profanazione era totale, come se un tempio venisse preso a calci fino a ridursi a una latrina. La mia carne diventava l’altare di un sacrificio senza senso, la scena di un crimine sacro. E quel getto acre, improvviso, veniva giù come una benedizione al contrario, un liquido sporco che cancellava ogni dignità. Era una punizione simbolica e concreta, era un marchio infamante che non si vede, ma si sente pulsare sotto la pelle per sempre. Un battesimo d’infamia, una consacrazione alla vergogna. Un’onta che non lava la pioggia, né l’oblio.
Mi afferra per il giubbotto, e non è una presa, è un possesso. Le sue mani non stringono solo il tessuto: si insinuano dentro, mi sollevano come si solleva una carcassa, come si muove una bambola rotta che non ha più volontà. Sono leggero non perché sono debole, ma perché non sono più io. Sono ciò che resta. E lui è un burattinaio impazzito, un demiurgo sadico, un creatore che gode a vedere la propria creatura in frantumi. Le braccia si tendono come funi, e io vengo tirato in alto, esibito, mostrato come trofeo, come esempio. E mentre mi tiene lì sospeso, in bilico tra il suolo e il disastro, i suoi occhi brillano d’un fuoco che non è passione ma dominio. È un dio crudele, e il mio corpo è il suo altarino mobile. Le sue dita non lasciano segni visibili, ma sotto pelle, sotto carne, incide comandamenti di dolore.
Poi, altri palmi, altri gesti. Le mani dei suoi accoliti, giovani e caldi, ancora intrisi di un’umanità che si è persa solo da poco. Mi toccano il viso, ma non è una carezza: è una ferita lenta. Quel contatto brucia come ferro rovente, come se ognuno di loro avesse in mano un chiodo da piantare nella mia identità. Non è solo il calore fisico: è l’intenzione. L’odio. Il piacere maligno di chi infligge un dolore e sa di farlo bene. Mi guardano, mi toccano, mi consumano come una candela accesa nel vento. L’ultima tortura, forse, ma proprio per questo la più precisa, la più affilata. Non vogliono più spezzarmi: vogliono trasformarmi. Rendermi il monumento vivente della loro vittoria. E l’ultima profanazione non è nel corpo, ma nell’anima. È la certezza che nessuno verrà, che nessuno vedrà, che questa scena rimarrà impressa solo dentro di me. E che io, da domani, non sarò più io. Ma ciò che di me è sopravvissuto a questo teatro d’inferno.
Non si può sopportare troppa realtà. È una legge silenziosa, un confine impalpabile che pochi osano nominare, e ancor meno tentano di oltrepassare. Oltre quel limite, ogni cosa conosciuta si dissolve, si sfalda, come sabbia tra le mani. C'è un punto in cui la realtà si fa così densa, così schiacciante, da diventare intollerabile, ingestibile, crudele nella sua indifferenza. Quel punto si avvicina a me come una marea nera, lenta ma inarrestabile, e io non ho alcuna forza per fuggirle.
L'intonaco del muro, che sembrava così saldo, così eterno, sotto le mie dita si disgrega in minuscoli frammenti, si stacca con una facilità spaventosa, come se tutto ciò che mi circonda non fosse mai stato altro che una fragile menzogna. Ogni granello che cade, ogni pezzo che si sgretola, sembra raccontare la storia di una certezza tradita, di una fiducia mal riposta. E mentre li guardo scivolare via, sento che è l'intero mondo a sgretolarsi con loro: una cattedrale di illusioni che si sbriciola senza alcun rumore, senza clamore, nel silenzio più assoluto, come se non valesse neanche la pena di essere pianta. Tutto ciò che pensavo di sapere, tutto ciò a cui avevo ancorato la mia identità, vacilla, si dissolve come nebbia al primo soffio di vento. Nessuna pietra rimane al suo posto. Nessun giuramento è mantenuto. Nessun ricordo resiste all'assalto della rovina.
La vertigine che mi avvolge è totale. Non è solo una perdita d'equilibrio del corpo, ma un collasso della mente stessa, come se ogni logica, ogni direzione fosse stata cancellata da una mano invisibile e crudele. L’aria si fa pesante, viscosa, come se respirassi piombo liquido. Ogni respiro è una lotta, ogni battito del cuore un atto eroico contro una pressione che vorrebbe spezzarmi dall'interno. La morsa che mi stringe non è solo fisica: è l'intero universo che si ripiega su di me, come se il peso delle stelle e dei pianeti fosse stato posto sulle mie spalle, e io, creatura fragile, non potessi che soccombere. Cammino dentro un incubo senza confini, un sogno distorto che non ha una logica, né un inizio né una fine. Ogni cosa che incontro è deformata, intossicata, resa irriconoscibile. Il mondo è diventato una caricatura di se stesso, e io, spettatore impotente, non posso che assistere al suo spettacolo grottesco senza la possibilità di intervenire o anche solo di voltarmi dall'altra parte.
Davanti a me si apre un abisso, e non è solo una metafora. È un vuoto reale, vivo, pulsante, un'entità a sé stante che sembra respirare con un ritmo sinistro. Un baratro che non promette nulla se non la cancellazione totale di tutto ciò che sono stato, di ogni memoria, di ogni desiderio. Non c'è appiglio né salvezza: il bordo dell'abisso è friabile, traditore, e ogni tentativo di resistenza è destinato al fallimento. Mi sento trascinato, irresistibilmente attratto verso quella voragine, come da una forza primordiale che non posso sfidare. L’oscurità che mi avvolge non è soltanto assenza di luce: è una materia viva, che serpeggia, che si insinua nelle pieghe più intime dell’essere. È un'oscurità che conosce il mio nome, i miei timori più nascosti, e li usa contro di me, uno per uno, come armi affilate.
Sprofondare in quell'abisso è come cedere a un oblìo perfetto. Non esiste più distinzione tra corpo e pensiero, tra paura e rassegnazione. Esiste solo una caduta continua, senza fine, in una notte senza stelle. È l’anticamera della follia, il vestibolo di un regno dove le leggi umane, morali, perfino naturali, sono state abolite, dove il concetto stesso di identità evapora come brina al sole. E mentre cado, mentre vengo inghiottito da quel nulla che è più reale di ogni realtà conosciuta, capisco che non c'è ritorno, che nessuna mano verrà a salvarmi, che nessun ricordo potrà trattenermi. La mente si frammenta in schegge impazzite, si disperde come polvere al vento, incapace di ritrovare un centro, una direzione, una ragione d'essere. Tutto ciò che ero si spegne, e in quell'istante di completa dissoluzione, paradossalmente, scopro l'unica verità che nessuno osa mai ammettere: che la realtà ultima è proprio questo abisso, questa caduta senza fine, questo eterno perdersi.
Voglio vedere i loro occhi. Non semplicemente guardarli, non con la distrazione con cui si getta un’occhiata a qualcosa di irrilevante, ma fissarli come si fissa una ferita che pulsa, un punto oscuro sul lenzuolo bianco, un cratere ancora fumante in un campo di battaglia. Voglio scrutarli a fondo, stanare l’ombra che li abita, forzare il loro silenzio, indurli a confessare senza parole. Voglio attraversarli come si attraversa una soglia proibita, voglio entrare nel mistero che si cela dietro le pupille, dove si nascondono le paure non dette, i desideri marci, le origini del male. Voglio scrutare l’abisso che si cela dietro i loro sguardi, non per curiosità, ma per necessità, come un prigioniero osserva la crepa nel muro della cella, cercando una via d’uscita o la certezza della condanna. Voglio vedere ciò che si cela nella profondità della loro indifferenza, nell’inerzia delle loro espressioni scolpite come maschere rituali. Voglio capire — capire davvero — la natura della loro malvagità, non quella spettacolare e gridata, ma quella sottile, sistemica, quotidiana, che si annida nei gesti piccoli, negli sguardi elusi, nelle parole omesse.
Voglio decifrare la struttura invisibile di questa malvagità, studiarla come si studia un organismo alieno, tracciarne la genesi, seguirne i percorsi, osservarne la crescita come si osserva un tumore. Voglio vedere la loro anima corrotta, voglio illuminarla come un archeologo che porta alla luce un relitto sommerso da secoli. Voglio sollevare i veli, grattare via le croste della rispettabilità, rompere le teche della loro compostezza. Voglio stanare quella parte di loro che si nasconde, che mente anche a se stessa, che indossa il perbenismo come una corazza, mentre sotto brulica il desiderio di distruggere, di ferire, di assoggettare. Voglio vedere la loro anima corrotta distendersi davanti a me, tremante e isterica, privata delle sue finzioni. Voglio assistere al collasso della loro finzione morale.
Il loro rituale, quel teatro accurato di gesti studiati, di parole calibrate, di ruoli assegnati, è stato interrotto. Non da un atto eroico, ma da un incidente sacro, da un’imprecisione divina. L’ordine si è spezzato nel punto più delicato, nel momento in cui la finzione toccava il suo apice. È stato un sacrilegio, sì, ma non un sacrilegio umano. È stato un grido del reale che ha forato la superficie della loro cerimonia. Un sacrilegio involontario, come se l’universo stesso avesse deciso di interrompere il loro gioco, di mostrarne la crudeltà sottesa, l’assurdità delle pose. Un’offesa imperdonabile, perché non prevista. Perché non ci si aspetta mai che il male venga messo a nudo da un’innocenza che inciampa. Una blasfemia, perché ha scardinato il meccanismo, ha riso nel tempio, ha restituito la loro sacralità perversa alla banalità del gesto.
In quel momento, sono diventato il nemico. Non un nemico voluto, ma un nemico necessario. Un’ombra proiettata dalla loro luce artificiale, una contraddizione vivente che non può essere integrata, che deve essere espulsa. Sono diventato il capro espiatorio, colui su cui scaricare la colpa collettiva, colui che raccoglie su di sé tutti i peccati non detti, tutte le vergogne taciute, tutte le ipocrisie santificate. Sono diventato l’oggetto del loro disprezzo, il contenitore vuoto in cui versare il loro rancore, il volto su cui incidere le frasi non pronunciate. Il bersaglio della loro violenza, della loro furia beneducata, della loro voglia di ordine, pulizia, redenzione imposta. Il martire della loro perversione, colui che, nella sua caduta, legittima la loro superiorità, la loro funzione salvifica, il loro diritto alla punizione.
Un’offerta sacrificale, certo, ma non nella sacralità mitica dei testi antichi. Un’offerta in un mondo disilluso, dove il sacrificio è burocratizzato, dove la crocifissione è amministrativa, dove il rogo è sostituito dal silenzio, dall’esclusione, dalla diagnosi. Un agnello immolato non con la lama rituale, ma con la lingua tagliente, con la sentenza inappellabile, con il ridicolo. Immolato sull’altare della loro crudeltà, che non è fatta di schiaffi, ma di assenze, di sguardi che scivolano via, di porte che si chiudono. Un’icona di innocenza violata, sì, ma anche un simbolo inquietante, un promemoria che la loro struttura non è perfetta. Che può creparsi. Che può tremare.
E il mio corpo, il mio volto, le mie parole — tutto ciò che di me è stato preso — diventa liturgia. Non quella ufficiale, ma quella segreta, clandestina, scritta con il sangue e la resistenza. Il mio sangue è diventato l’inchiostro con cui verrà raccontata la verità che hanno cercato di nascondere. Voglio vedere i loro occhi, perché nei loro occhi io cerco giustizia. Ma non la giustizia delle leggi, non la giustizia dei tribunali: la giustizia dello sguardo restituito. Voglio restituire loro il riflesso della loro stessa colpa, voglio che si vedano come io li ho visti. Voglio che, per un istante, la maschera cada, e che si scoprano nudi — miserabili e mostruosamente umani.
Rimango lì, a faccia in giù sul marciapiede. Come un relitto, un naufrago in un mare di asfalto, un'ombra di me stesso, un'eco di un'esistenza passata che ormai sembra estranea, distante, quasi irreale. Il mio corpo, stremato, giace senza forze, schiacciato dal peso di un mondo che non mi appartiene, ridotto a un oggetto che non riesce più a prendere forma, che non sa più riconoscere il suo scopo. Mi sento come se stessi affondando in una distesa di pietra e cemento, un mare che non offre tregua, che non permette salvezza, una distesa grigia e senza orizzonti. In questo angolo dimenticato, nel cuore di questa città che continua a respirare indifferente, io sono nulla. Non sono più un uomo, né un nome, né un pensiero. Sono solo una figura che scompare, come un riflesso che si perde nell'acqua turbinosa.
Ogni respiro è un affanno, un lamento che si perde nell’aria come una preghiera non ascoltata, un’implorazione che si infrange contro il muro dell’indifferenza del mondo. Il mio petto si solleva e si abbassa come una palude che respira a fatica, ma senza speranza di rinnovo. Ogni battito del cuore sembra un colpo, un peso che rimbomba nel mio corpo, ma non riesce a sollevarmi, a restituirmi al mondo. Mi sembra di non essere più vivo, ma soltanto una presenza vacua, una figura che non ha senso né di esistere né di sparire. Non posso fare a meno di pensare alla violenza che mi ha gettato in questo abisso. Non è una violenza fisica, ma psicologica, sottile, che penetra come un veleno, che inizia a corrodere tutto ciò che di umano c'era in me. È una violenza che non lascia segni immediati, ma che si insinua sotto pelle, che cresce dentro come una malattia invisibile, una metastasi dell’anima. Mi è stata inferta da chi non vedeva me, ma solo una vittima da consumare, una vittima che avrebbe potuto essere chiunque, che avrebbe potuto essere un altro, ma che per qualche oscuro motivo è diventata io.
Non è solo un’offesa al corpo, è un’umiliazione che non si limita alla pelle, ma che investe la mia mente, il mio spirito, che invade ogni angolo della mia esistenza, lasciando dietro di sé solo cenere e desolazione. Ogni pensiero che mi attraversa è pervaso dalla paura, dalla vergogna, dalla sensazione di essere perennemente esposto, come se il mondo stesse osservando ogni mio respiro, ogni mio movimento. Non posso nascondermi, non posso fuggire da me stesso. Non c’è più rifugio né nella solitudine né nell’affollamento. Ogni angolo del mio essere è permeato da quella cicatrice, che è diventata parte integrante di me, come una seconda pelle che non posso togliere, che non posso rimuovere, una ferita che, purtroppo, non è solo esteriore, ma che si è radicata nel mio cuore, nella mia mente, nel mio spirito.
Questa ferita, questa cicatrice profonda, non è solo un segno lasciato dalla violenza di un momento, ma il marchio di una battaglia che sembra non finire mai. Ogni tentativo di dimenticare, ogni tentativo di guarire si scontra con il muro di questa memoria che non lascia spazio né al sollievo né alla pace. Ogni giorno che passa è come se il dolore si rinnovasse, come se non fossi mai uscito da quel momento, come se fossi intrappolato in un loop senza fine, dove la sofferenza è costante, eppure mai veramente definibile, sempre sfuggente eppure sempre presente. Non è più una questione di tempo, perché il tempo non cura, non restituisce nulla. Il tempo è solo un velo che si stende sopra un dolore che non va via, che non si dissolve, ma che resta lì, in agguato, pronto a riemergere ogni volta che cerco di andare avanti, ogni volta che tento di muovermi, ogni volta che cerco di respirare senza pensare a quello che è successo. Non riesco a staccarmi da questa ferita, non riesco a immaginare una vita senza di essa.
È un’impronta che non si cancella, che non si dissolve nemmeno nel tempo. Mi ha cambiato per sempre, mi ha scolpito nell'anima, rendendomi altro, un altro da quello che ero, un altro da quello che avrei potuto essere. Non sono più la persona che camminava sicura nel mondo, che guardava gli altri con speranza, che vedeva un futuro aperto davanti a sé. Ora, quella persona sembra lontana, quasi irreale, un sogno che non ha mai avuto davvero consistenza. La realtà che vivo ora è fatta di crepe, di ombre, di silenzi pieni di rabbia e di frustrazione. Ogni passo che faccio è incerto, ogni decisione che prendo è influenzata da questa cicatrice, che mi guida, che mi limita, che mi imprigiona. Eppure rimango lì, in quel punto morto, come se cercassi una via di fuga che non esiste, come se sperassi in una redenzione che non arriverà mai. La speranza è un lusso che non posso permettermi, perché ogni speranza mi riporta a quel momento, a quel dolore, a quella cicatrice che non posso più ignorare. Ogni movimento, ogni pensiero, ogni parola che pronuncio è come una sfida a questa realtà che non posso cambiare. Ma dentro di me c'è sempre la domanda: "Esiste davvero un modo per liberarsi da tutto questo? O sono destinato a vivere per sempre con questa ferita che mi definisce?"
Un rumore indefinito. Presagio di un pericolo imminente, un’ombra che si allunga, un’eco di morte, un sussurro dell’abisso, come se l’aria stessa fosse percorsa da un’inquietudine primordiale che penetra in ogni fibra dell’essere, lasciando dietro di sé un’impronta che non può essere cancellata. Non è solo un rumore, è un'energia palpabile, qualcosa che invade la quiete e la trasforma, come un’onda invisibile che scuote il silenzio fino a frantumarlo. Ogni respiro sembra attraversato da quella stessa tensione, come se ogni battito del cuore fosse il segno di un dramma che si prepara a compiersi. Una sensazione che cresce nel profondo, che invade la mente e non lascia spazio a nulla di diverso dalla paura, come se tutto ciò che conosciamo stesse per svanire nell’incertezza di ciò che sta per accadere.
Si fa strada nell’atmosfera con la delicatezza di una minaccia che si cela nell’ombra, come una presenza che osserva senza farsi vedere, ma che è impossibile non sentire. È un segno, una traccia che ci invita a essere consapevoli di qualcosa che non possiamo definire, ma che è ineluttabile. Arriva sottile, si insinua tra le pieghe del nostro essere, scivolando senza rumore, ma lasciando dietro di sé un vuoto che non può essere ignorato. Un avvertimento che sussurra nelle orecchie, che ci ricorda che non siamo mai al sicuro, che ogni passo che facciamo ci avvicina sempre di più a ciò che temiamo di più. È la sensazione che qualcosa sta accadendo al di fuori della nostra percezione, qualcosa che non possiamo né fermare né comprendere appieno, ma che è inesorabilmente destinato a travolgerci.
Ogni suono che lo accompagna sembra svanire sotto il suo peso, come se il mondo intero si fosse fermato, immobilizzato da una forza che non vediamo ma che percepiamo in ogni angolo. Ogni passo che facciamo è accompagnato dal suono del nostro cuore che batte, sempre più forte, sempre più irregolare, mentre l’aria diventa sempre più densa, carica di un’energia sconosciuta che ci stringe. Come il fruscio di un ramo spezzato, che rilascia un rumore quasi impercettibile ma che, come una freccia, penetra nel nostro essere, scuotendoci dal nostro torpore, facendoci capire che non siamo più in un luogo sicuro, ma in un limbo che ci trascina lentamente verso un destino che non possiamo controllare.
Un presagio di sventura che si fa strada tra le pieghe del nostro tempo, che si infila in ogni pensiero come una spina che non possiamo rimuovere. È un avvertimento che ci parla direttamente al cuore, senza passare per la mente, un richiamo che ci paralizza e ci costringe a guardare in faccia ciò che ci siamo sempre rifiutati di vedere. Un’eco che cresce, che risuona in ogni cellula del corpo, che ci ricorda che non esiste alcuna salvezza, alcuna via di fuga. L’ineluttabilità di ciò che sta per accadere è scritta nel ritmo stesso dell’universo, nelle leggi che regolano l’esistenza. Ogni movimento che facciamo, ogni gesto, ogni respiro ci avvicina sempre di più a quella verità che, pur essendo sfuggente, è sempre più presente, sempre più pressante.
Un’eco di un destino ineluttabile che cresce in ogni respiro, come un’ombra che si allunga sul nostro cammino, oscurando la luce di ogni speranza, di ogni sogno. È la consapevolezza che non siamo mai stati liberi, che le nostre azioni sono guidate da forze che non comprendiamo, ma che determinano ogni nostro passo. È la sensazione che il futuro ci stia già sorpassando, che ogni istante che passa ci stia conducendo verso una fine che non possiamo evitare, che non possiamo modificare. È una verità che ci paralizza, una consapevolezza che cresce in modo inesorabile, fino a diventare l’unica cosa che ci rimane. Il passato svanisce, il futuro si allontana, e noi siamo intrappolati in questo presente che ci schiaccia, ci soffoca, ci obbliga ad affrontare la realtà di ciò che siamo, di ciò che ci è stato imposto.
La sensazione si fa più acuta, più penetrante, come il silenzio che avvolge un luogo vuoto, un vuoto che diventa sempre più carico di significato. Ogni istante si dilata, si allunga, mentre il tempo sembra fermarsi, sospeso in un’attesa che non promette nulla di buono. Il vento che porta con sé il suono di qualcosa di lontano, di inafferrabile, che si avvicina sempre di più, trasportato dalla stessa forza che ci sta tirando dentro questo vortice. È la percezione che qualcosa sta accadendo, che qualcosa di grande e terribile si sta preparando, ma che non possiamo né fermare né cambiare. È l’inquietudine di non sapere cosa ci riserva l’ignoto, ma di sapere, senza alcun dubbio, che non possiamo sfuggirgli.
È una lunga attesa, un countdown che non ci lascia scampo, una preparazione al confronto con ciò che non siamo pronti a affrontare. Il nostro cuore batte sempre più velocemente, mentre i pensieri si accavallano, confusi, ma inevitabili. Ogni pensiero che nasce è un pensiero che ci avvicina a ciò che stiamo cercando di evitare, ma che ci troverà comunque. È come se il nostro destino fosse scritto da qualcun altro, da una mano invisibile che ci guida in un cammino che non possiamo vedere, ma che è già deciso. Ogni sforzo di resistenza si infrange contro questa forza superiore, contro questa legge che governa l’universo e che ci condanna a una fine che non possiamo nemmeno immaginare.
Un presagio che, purtroppo, non lascia mai spazio alla speranza, ma solo una consapevolezza crescente di un destino che si sta per compiere. È come un urlo silenzioso che esplode nell’anima, una verità che non possiamo più ignorare, ma che dobbiamo affrontare con la consapevolezza che nulla sarà mai più lo stesso. Il nostro mondo sta per cambiare, sta per essere ridisegnato dalla mano di una forza che non ci appartiene, ma che ci sovrasta. È un’inevitabilità che non possiamo sfuggire, una legge che non possiamo infrangere, e l’unica cosa che possiamo fare è arrenderci a essa, con la consapevolezza che ogni tentativo di resistenza è inutile, che siamo già intrappolati in un destino che non possiamo evitare.
Mi alzo sulle ginocchia e sulle mani, il corpo piegato in una posizione che non avrebbe mai dovuto essere la mia. La terra sotto di me è umida e fredda, ma la sensazione di freddo che mi pervade non ha nulla a che vedere con il contatto fisico, ma con una sorta di gelo interiore che penetra in me come un’ombra. Ogni fibra dei miei muscoli è tesa, il respiro affannoso e incerto. Mi sembra che la mia stessa carne stia lottando contro la forza di gravità, come se ogni movimento fosse un atto di resistenza, un ultimo tentativo di tenere insieme ciò che, ormai, è già frantumato. Non sono più uomo, sono un essere che si muove in una condizione tra il vegetale e l’animale, un corpo che si trascina come una carcassa priva di spirito, eppure costantemente consapevole di sé, sempre cosciente della degradazione che sta vivendo. Una bestia ferita, sì, ma più di questo. Più di un animale in fuga, braccato dalla sua stessa angoscia, dal peso delle sue cicatrici interiori, da un dolore che non trova più un nome. Braccato non solo da chi mi ha fatto questo, ma anche dal mio stesso corpo, dalle sue debolezze, dalle sue contraddizioni. Ogni passo che faccio è una lotta per non cedere, per non cadere definitivamente a terra. Ogni passo è una sconfitta, ma non riesco a fermarmi, come se una forza esterna, oscura, mi spingesse avanti, come se fossi costretto a vivere una sofferenza senza fine.
Sono un essere umano ridotto al suo minimo esistente, privo di ogni dignità, un corpo privo di memoria, di razionalità. Ma più mi osservo in questa condizione, più mi sembra che non ci sia più nulla di umano in me, che il mio corpo non appartenga più alla mia volontà, ma sia solo una cosa che subisce, che resiste senza ragione. Non è più solo il mio corpo a essere ridotto a carne, ma la mia stessa essenza è stata svuotata, annientata. Sono un essere umiliato, la mia mente è velata da una sorta di nebbia che non mi permette di comprendere se quello che vivo è reale o se sono intrappolato in una fantasia dolorosa, in un incubo che si ripete senza tregua. Il mio corpo, in questa posizione, non ha più una forma chiara, è solo un ammasso di carne che si contorce, che si dibatte, ma non trova più un senso. La mia esistenza è ridotta a un movimento involontario, un corpo che, spinto dalla forza della disperazione, cerca di rimanere in piedi, ma che in realtà sta già crollando. La terra sotto di me è come un riflesso della mia anima, un luogo che non vuole accogliermi, che mi respinge come se fossi indesiderato.
Una creatura degradata, sono diventato nulla di più. La mia condizione è così lontana da ciò che un tempo avrei potuto essere, da quello che mi aspettavo di essere. Non c’è più nulla da fare per me, non ci sono più sogni, non ci sono più speranze. Siamo ridotti a sopravvivere, ma nemmeno la sopravvivenza è un’illusione che mi possa consolare. L'unica cosa che resta è l'agonia di un corpo che non sa più come reagire, una mente che non sa più come pensare. Ogni respiro è un atto meccanico, ogni movimento una continua ribellione contro un destino che ormai è segnato. Ma la resistenza, quella visibile o invisibile che sia, è sempre presente, in qualche modo. Un corpo che si rialza, che non si piega definitivamente, nonostante il dolore, nonostante l’umiliazione. È come se ci fosse ancora una speranza che non riesco a identificare, ma che continua a pulsare, nascosta nel buio della mia mente, nel profondo del mio essere. Una speranza che, seppur fioca, non può essere completamente estinta. Ma, al contempo, questa resistenza è una condanna, un altro dolore che mi accompagna.
Mi girano con la punta degli anfibi, un gesto che va oltre la violenza fisica. È un atto che mi spinge a riconsiderare ciò che sono diventato, ciò che era la mia dignità, ciò che mi aveva definito. Il dolore che sento sulla pelle è solo la parte visibile di un atto che va ben oltre l’aspetto materiale. Ogni loro passo, ogni movimento, sembra segnare un confine, una linea che separa ciò che ero da ciò che sono. Quella punta che si ferma sulla mia carne è come un sigillo, un marchio che mi viene imposto, un marchio che mi indica che non posso più tornare indietro. Ogni passo è una negazione, una conferma che il mio corpo è ridotto a qualcosa di meno, che non sono più il padrone di me stesso, che non posso più decidere né il mio destino né il mio corpo. Il gesto di disprezzo che mi viene fatto è la conferma della mia totale impotenza, della mia condizione di servitù e di miseria. Non c’è nulla di umano in questo, nessuna pietà, nessun rimorso. Solo una forza che si manifesta come un’onda travolgente, che non lascia spazio per la resistenza. È come se non fossi neppure più degno di un’occasione di salvezza, come se fossi un oggetto, una cosa da usare e poi gettare.
È l’ultimo gesto, l’ultimo atto che mi riduce alla mia essenza più bassa, quella che nessuno vorrebbe vedere, quella che nessuno vorrebbe essere. Ma è anche un atto di supremazia, non solo fisica ma psicologica, che mi schiaccia, che mi fa sentire ancora di più la mia inutilità. In quel gesto c’è tutto il peso della condizione che mi è stata imposta, una condizione che non posso sfuggire, che non posso evitare. Il mio corpo non è più un rifugio, è diventato un campo di battaglia, un luogo dove ogni respiro è una lotta. Ma non c’è più forza in me per resistere. Quella punta degli anfibi affonda nella mia carne come un atto di annientamento, un atto che non è solo di violenza fisica, ma di profanazione totale. Mi profanano, mi umiliano, mi distruggono. Eppure, nonostante tutto, non c’è nulla che possa cancellare ciò che ero prima, nessun gesto che possa veramente annientare la memoria di ciò che sono stato. Ma forse, in questa profanazione finale, non c’è nemmeno più posto per quel ricordo, perché ogni speranza, ogni possibilità, è ormai perduta.
Il ricordo non corrisponde mai alla realtà. È un costrutto della mente, una creazione che si costruisce pezzo per pezzo in modo tanto involontario quanto necessario. Mai, mai e poi mai possiamo affermare con certezza che ciò che ricordiamo sia effettivamente ciò che è stato. Ogni esperienza, ogni frammento di memoria, viene rielaborato in un processo continuo che mescola sensazioni, percezioni e sentimenti, creando una versione distorta e incompleta degli eventi. Non è mai una copia esatta, ma una reinterpretazione, una versione filtrata e modellata dal tempo e dalle circostanze. Il nostro cervello, come una macchina che cerca di proteggere l’anima, manipola i ricordi, li ridimensiona e li addolcisce per farli sopportabili, per non cedere all'insopportabile peso della verità nuda e cruda. La realtà è troppo spietata, troppo sfuggente per essere abbracciata interamente, quindi costruiamo uno specchio che non riflette mai la forma vera e intatta delle cose, ma un'immagine distorta che possiamo vivere.
Ogni volta che cerchiamo di richiamare alla mente un momento passato, la realtà sfugge dalle nostre mani come sabbia. Ciò che resta non è la concretezza dei fatti, ma una nebbia che avvolge e trasforma ciò che abbiamo vissuto. Il passato, ormai lontano, non è più a portata di mano, ma si è dissolto nell’aria, nella polvere del tempo, e ciò che ci rimane sono frammenti, istantanee che non riescono a catturare l’intero quadro. Eppure, ogni volta che tentiamo di afferrarlo, il ricordo sfugge, eppure ci si presenta con una forma rassicurante, come un paravento che ci separa dal buio del nostro passato. È una menzogna, ma è una menzogna che abbiamo bisogno di sentire. Una finzione che ci consente di sopravvivere, di andare avanti, pur sapendo che non è mai stata la realtà. Ogni ricordo che riscopriamo è una versione alterata, una narrazione che cambia a seconda di come ci sentiamo, di cosa stiamo vivendo nel presente, una narrazione che muta con noi, con il nostro stato d’animo. E mentre il tempo scivola via, quei ricordi si colorano, si arricchiscono, diventano più vividi, ma mai più veri. Essi sono, come ci piace credere, un rifugio. Un rifugio che non ha nulla a che fare con ciò che è stato, ma che ci consente di vivere nell’inganno, di restare all’interno di una bolla che ci protegge dalle scosse più dure della realtà.
Eppure, ogni volta che ricordiamo, stiamo raccontando una storia. Non stiamo evocando il passato, stiamo creando una sua versione che si adatta ai nostri bisogni, alla nostra condizione emotiva e psicologica. Ciò che ricordiamo è una narrazione che rispecchia le nostre necessità del momento, più che una riproduzione fedelissima degli eventi. Il ricordo, dunque, non è mai un punto di partenza sicuro, ma un terreno mobile che si sposta, che cambia, che si adatta e si modifica continuamente. Ogni volta che cerchiamo di fare chiarezza su ciò che è stato, la chiarezza si allontana, sfuma, diventa ancora più nebulosa. Non possiamo mai ricostruire il passato in modo autentico, perché ciò che ricordiamo non è più il passato: è ciò che il passato è diventato attraverso il filtro della nostra mente. Il ricordo non è una finestra sul passato, ma un velo che ci nasconde la vera essenza di ciò che è stato.
E così, il ricordo diventa una trappola. Una trappola che ci imprigiona in una realtà che non è mai stata, ma che sembra essere più sicura, più gestibile della realtà che non ricordiamo, quella che abbiamo vissuto ma che ora non possiamo più afferrare. La trappola si stringe attorno a noi ogni volta che cerchiamo di fare i conti con il nostro passato. Non possiamo mai entrare nella vera sostanza di ciò che è stato, ma possiamo solo vagare nell’apparenza che ci siamo costruiti intorno. Il ricordo, allora, diventa il nostro rifugio e il nostro tormento, una doppia faccia che non possiamo evitare. È il nostro modo di proteggere noi stessi dalle ferite, ma è anche la nostra condanna, perché, purtroppo, ciò che è accaduto non sarà mai più come ce lo immaginiamo. Non c’è giustizia nel ricordo, né coerenza. C’è solo un insieme di immagini confuse, frammentate, che ci cercano di convincere che questa versione è quella che più ci conviene.
Il ricordo è un labirinto di specchi, come uno specchio distorto che riflette non solo la realtà, ma anche tutte le nostre paure, i nostri desideri e le nostre speranze. Ogni specchio ci mostra un lato diverso della nostra esperienza, ma nessuno di essi ci dà la verità completa. Ogni riflesso è solo una parte, un frammento di qualcosa che è più grande, ma che non possiamo mai afferrare nella sua interezza. Ogni specchio, ogni riflesso, ci inganna. Non possiamo mai fidarci completamente di nessuno di essi, perché ogni specchio riflette una versione diversa di noi stessi, una versione che non è mai quella che siamo davvero, ma solo una proiezione di ciò che siamo diventati nel corso del tempo. Siamo persi in questo labirinto, alla ricerca di un’immagine che ci faccia sentire più sicuri, ma che alla fine ci confonde sempre di più. E più cerchiamo di uscire da questo labirinto, più ci addentriamo nei suoi meandri, nella speranza di trovare una risposta che ci sfugge sempre.
Ogni riflesso, ogni frammento di ricordo, è una deformazione della verità. Ciò che una volta era vivido, potente e autentico, ora appare solo come un’ombra lontana, una visione che si è sbiadita con il passare degli anni, come una fotografia che ha perso il suo colore originale. Ogni ricordo diventa, così, un’interpretazione, un’ombra del suo passato, un fantasma che non ha più una forma definita. Non possiamo più fidarci di ciò che vediamo, perché ciò che vediamo non è mai la realtà, ma solo la sua eco, un’impressione che si è smarrita nel tempo. L’orrore che un tempo ci ha sopraffatto ora è solo una reminiscenza sbiadita, un’incertezza che non ci tocca più con la stessa intensità. Eppure, questa immagine deformata ci perseguita. Non se ne va mai davvero, ma ci accompagna, ci fa compagnia nei nostri sogni, nei nostri incubi. Ci ricorda che, nonostante il tempo, nonostante il nostro tentativo di dimenticare, l’orrore è ancora lì, nel nostro cuore, nell'angolo più nascosto della nostra mente. E così continuiamo a vivere con questa inquietudine, con questa frustrazione, in bilico tra ciò che è stato e ciò che non possiamo più toccare, sempre inseguiti dal fantasma di un passato che non è mai stato davvero nostro.
Ho interrotto il cerchio dei loro corpi, un movimento incessante che sembrava non avere fine, un flusso di corpi in cui ogni gesto, ogni respiro, sembrava essere parte di una danza oscura e ineluttabile. Il loro mondo si muoveva come una spirale, avvolgente e nauseante, come un sabba infernale dove il confine tra il sacro e il profano si faceva sempre più sottile, quasi inesistente. In quel cerchio, ogni cosa era ridotta a una semplice ripetizione di violenza e perversione, dove il corpo perdeva la propria umanità per diventare pura materia da consumare, da piegare. Un rituale di violenza che, con la sua brutalità sorda e cieca, mi circondava, mi opprimeva, mi inghiottiva. Ogni movimento era un atto di possesso, ogni respiro una scossa che andava ad amplificare l'assurdo di quella scena. Una messa in scena dell’assurdo, un teatro dove la tragedia si mescolava alla follia, dove ogni uomo e ogni donna erano ridotti a burattini senza più volontà. L’orgasmo non era più il culmine di un piacere, ma la fine di ogni speranza, il trionfo della disillusione.
Ogni gesto, ogni respiro che si incrociava con un altro, formava un nodo che legava più saldamente il mio pensiero all'inferno in cui ero costretto a guardare. Vedevo corpi contorti come statue spezzate, incapaci di liberarsi dalla prigione del desiderio che li teneva intrappolati in quella follia senza fine. Non c'era nient’altro che una spasmodica ricerca di un piacere che non fosse mai appagato, un continuo scivolare nel vuoto del corpo, un’autoalimentazione di dolore e frustrazione che non conosceva tregua. Sapevo che ognuno di loro, nel profondo, cercava di allontanarsi da quella follia, cercava una via d'uscita, ma non c’era via di scampo. Il cerchio era ormai chiuso, non c’era né inizio né fine, solo un continuo ritorno, un ciclo che non avrebbe mai cessato di ripetersi. Eppure, ero costretto a guardare, obbligato a rimanere, come se ogni parte di me fosse intrappolata nella scena stessa, come se il mio corpo e la mia mente fossero legati a quel cerchio da una forza invisibile che non riuscivo a scardinare.
Ma non potevo restare lì, non potevo essere parte di quella finzione, di quella messa in scena che stava consumando ogni briciola di umanità. Dovevo passare, attraversare quel cerchio di carne e corpi annodati, cercando di non perdermi, cercando di non essere inghiottito dalla loro oscurità. Mi staccai, come una scheggia, come un frammento lanciato nel vuoto, ma in me non c’era pace, solo l’urgenza di fuggire. La mia mente urlava, il mio cuore batteva all'impazzata, come se ogni battito fosse un tentativo di staccarsi dal peso che gravava su di me. Ma fuggire non era facile, non era mai facile. Ogni passo che facevo per allontanarmi da quel luogo sembrava un passo che mi riportava sempre più vicino a quella maledetta spirale, a quella gravità che mi risucchiava. Dovevo liberarmi, ma ogni mia azione sembrava solo rafforzare la prigione. Per fuggire dall'incubo che si era fatto carne e sangue, che mi aveva avvolto, che aveva preso forma, mi aveva stordito. Era un incubo che non poteva essere dimenticato, che non poteva essere ignorato, perché ogni dettaglio di quella scena si era tatuato dentro di me, in ogni angolo della mia mente.
Dovevo andarmene, allontanarmi da quell’orrore che pulsava nel cuore di quel cerchio. Per cercare una via di fuga, per trovare uno spiraglio che mi permettesse di respirare, per non essere più un testimone inerte di quella follia, per non essere più un corpo tra i corpi, un’anima intrappolata nel vortice dell'assurdo. Ogni movimento che facevo era un atto di resistenza, ogni passo un grido muto di disperazione. Non c'era più nessun senso in quel luogo, solo il bisogno impellente di salvarmi, di lasciare tutto alle spalle, di non guardare più, di non udire più quei suoni che si confondevano tra il pianto e il grido. Ogni suono era un rullo di tamburo che mi travolgeva, che mi costringeva a rimanere prigioniero della scena, anche mentre cercavo di fuggire. Ogni passo era una liberazione, ma ogni passo era anche un’ulteriore condanna, perché il cuore continuava a battere al ritmo di quella danza macabra, e sapevo che l’abisso mi avrebbe sempre seguito, in ogni angolo, in ogni respiro. Non c’era pace, non c’era speranza. Solo l'urgenza di allontanarmi, di tagliare il legame, di uscire da quella prigione di corpi e di desideri ormai irrimediabilmente corrotti. Eppure, mentre correvo, mentre mi allontanavo, il peso di quel cerchio, di quella spirale, continuava a inseguirmi. La mente sapeva che non c'era davvero fuga, che quel luogo sarebbe rimasto in me, una cicatrice che il tempo non avrebbe potuto cancellare.
L’odore acre e morbido della polvere — questo contrasto insensato eppure così profondamente reale — si insinua ovunque, senza lasciare scampo, come una marea silenziosa e invisibile. È un odore che non rimane in superficie: attraversa le narici come una lama vellutata, penetra sotto la pelle, si mescola al sangue stesso, trasformandolo in una sostanza grigia, torbida, senza più energia. Non è soltanto olfatto, è contaminazione, è colonizzazione lenta, totale, assoluta. La polvere sembra provenire da una crepa antichissima nel tessuto stesso del mondo, come se si fosse liberata da un abisso dove sono stati relegati i secoli dimenticati, le vite consumate, gli amori sepolti. È l’alito stesso del tempo morto, e io lo respiro, lo ingoio, lo accolgo senza più barriere. Sento che si posa sui miei capelli, sulle ciglia, sulle labbra, nei polmoni: non c’è gesto che possa liberarmene, non c’è forza che possa impedirne il dominio. Ogni molecola d'aria è infetta, ogni spazio è occupato da questo miasma che non soffoca, non punge, ma accompagna dolcemente alla resa.
Non è solo un’esperienza fisica: è una trasformazione profonda, una metamorfosi inarrestabile. Il corpo stesso perde i suoi contorni, si sfalda in una nuvola senza peso. Le mani non sono più mani, ma spettri che si dissolvono al minimo movimento. Gli occhi non vedono più, registrano solo il perpetuo ondeggiare di una polvere che non cade mai, che non tocca mai davvero il suolo, ma resta sospesa, in attesa, come una sentenza non ancora pronunciata. La mente, avvolta in questa cappa spessa e invisibile, cede lentamente, cede senza clamore, cede come cede una diga sotto la pressione incessante dell’acqua: non con una frattura, ma con una serie infinita di microcrepe che nessuno riesce a vedere finché il crollo non è già avvenuto.
Un sudario si stende sopra di me, ma non è fatto di stoffa: è tessuto con i filamenti della dimenticanza. È un velo, sì, ma un velo che non vela, un velo che assimila, che ingloba. Non sento più i margini tra me e ciò che mi circonda: è come se fossi diventato la stessa sostanza che mi opprime, senza più distinzione tra il dentro e il fuori. Il velo scende senza rumore, senza pietà, senza tregua. È la carezza terminale, l'abbraccio dell'indistinto, il saluto definitivo al senso. Non oppongo resistenza. A che servirebbe? Ogni atto di ribellione sarebbe solo un piccolo, patetico fruscio nella vastità silenziosa che mi inghiotte.
Questo manto che mi avvolge — così tenero e così spietato — è il testimone di tutto ciò che è stato e non sarà più. È composto di ricordi sfilacciati, di emozioni sbiadite, di gesti interrotti. Ogni strato racconta una storia incompleta, ogni granello porta il peso di una promessa non mantenuta. È un archivio muto, un museo della disfatta personale, in cui ogni reliquia è destinata a disfarsi senza spettatori. Sento il peso leggero di tutte le mie rinunce, sento il soffio impercettibile di tutte le parole che non ho avuto il coraggio di pronunciare, dei silenzi che hanno scavato abissi tra me e gli altri. Mi rannicchio, mi stringo a me stesso come un naufrago che abbraccia il nulla, e mi lascio cullare da questa deriva senza nome.
Intorno a me, il mondo si dissolve lentamente, senza rumore, senza una vera catastrofe: è un'implosione silenziosa, una resa che non ha bisogno di dichiarazioni. Ogni oggetto perde consistenza, ogni suono perde risonanza. È come se il tempo stesso, esausto, si fosse arreso, lasciando spazio a un presente congelato che non ha né inizio né fine. I contorni sfumano, i colori scoloriscono, le ombre si confondono tra loro finché ogni differenza si annulla. Non sono più un essere che percepisce: sono diventato parte dell'aria immobile, parte del vuoto stesso.
L’eco di morte che avverto — una morte non teatrale, non eroica, ma banale e assoluta — si fa sempre più profonda. Non ha voce, non ha urlo, non ha canto. È un'eco sorda, che si propaga in cerchi sempre più ampi dentro di me, scavandomi come l’acqua scava la pietra, senza fretta, senza rabbia. Non è una fine esplosiva, ma una estinzione per consunzione. Sento la mia identità disfarsi come un tessuto marcio, fibra dopo fibra, senza possibilità di ricostruzione. Sono io a seppellirmi, senza rito, senza testimoni, senza nemmeno l’illusione di un giudizio. È un disfacimento che non pretende redenzione, che non concede spiegazioni.
Ogni pensiero che nasce viene subito soffocato. Non c'è spazio per idee, per immagini, per sogni. Appena un'ombra di pensiero si forma, viene inghiottita da un manto grigio che la riduce a niente. Non c’è lotta, non c’è resistenza. È come tentare di accendere un fiammifero sotto una cascata. Le idee non si sviluppano, le emozioni non maturano: tutto muore allo stadio embrionale, in un aborto perpetuo della mente. Vivo — se così si può ancora chiamare — in una terra di nessuno, dove la speranza è un ricordo di cui non si conosce più il contenuto.
Sono trascinato via, ma non da una corrente impetuosa: da una deriva lenta, estenuante, silenziosa. È un trascinamento che non porta da nessuna parte, un viaggio circolare che conduce solo più a fondo nel nulla. Non c'è bussola che possa orientarmi, non c'è stella che possa guidarmi. Mi dissolvo in un buio che non è mancanza di luce, ma mancanza di tutto. Il buio che mi inghiotte non mi opprime, non mi terrorizza: semplicemente mi cancella. Nessuno saprà che sono stato qui. Nessuno saprà nemmeno che sono scomparso.
Eppure, proprio quando la notte interiore sembra totale, avverto qualcosa. È debolissimo, tremulo, fragile come il primo respiro di un neonato. Una scintilla. Un puntino minuscolo che, inspiegabilmente, non si spegne. È forse un ultimo gesto della volontà, un’eco residua di chi ero, di chi avrei voluto essere. Non è abbastanza per salvarmi, non è abbastanza per invertire la corrente. Ma esiste. In un angolo remoto della mia coscienza — se ancora posso chiamarla così — c'è ancora una memoria di me, una nostalgia di vita. È come se, nel fondo più oscuro, una particella infinitesimale di luce rifiutasse di arrendersi. Una particella che non ha più motivo di essere, ma che persiste, ostinata, crudele nella sua inutile speranza.
Questa scintilla è il mio ultimo legame con tutto ciò che fui: i miei desideri, i miei sogni, i miei errori, le mie paure. Tutto ciò che ora non esiste più, tutto ciò che è stato inghiottito dalla polvere e dall'oblio, sopravvive in quel microscopico battito che nessuno sente, che nessuno vede, che forse nemmeno io saprò più riconoscere. È il mio ultimo atto di resistenza, la mia ultima parola non detta, il mio ultimo sguardo verso un mondo che non mi appartiene più. È la dimostrazione crudele che qualcosa, in me, ha amato la vita fino all'ultimo.
E mentre anche questa consapevolezza inizia a vacillare, mentre sento che anche la scintilla potrebbe spegnersi, comprendo che non importa. Perché anche un istante infinitesimale di luce, anche un sussurro inudibile di essere, ha un valore immenso nel silenzio assoluto dell'oblio. Anche nell'annientamento totale, anche nella sconfitta più profonda, la possibilità di esistere per un frammento, di ricordare per un respiro, è un atto di sublime, inutile, disperata bellezza.
Mi tiene sollevato con una mano sola, eppure in quell’istante tutto il mio corpo pesa come se fosse colmo di pietre, come se fosse diventato un sacco di sabbia inzuppato d’acqua e lacrime trattenute troppo a lungo. Non so se sia la forza bruta del suo braccio o la mia volontà ormai dissolta a farmi restare lì, sospeso tra l’aria e la rassegnazione, ma so con assoluta certezza che in quell’istante non sono più uomo. Non sono più niente. Sono materia inerte, una carcassa senz’anima, il guscio di un me stesso che è già stato svuotato, annientato, rimosso dalla scena. E mentre sento la sua presa ferma, sicura, senza cedimenti, come quella di un carnefice abituato al proprio compito, comprendo che sto per essere trasformato in qualcosa che non potrà mai più tornare indietro. È un attimo fuori dal tempo, fuori dalla logica degli affetti e della memoria: un attimo in cui la violenza non è più solo fisica, ma diventa metafisica, trasfigurazione oscura, sacrilegio contro ogni legame.
E poi arriva il colpo. Lo schiaffo. Il gesto secco, preciso, come un taglio netto dato con il bisturi alla base del volto, come se volesse separare me da me stesso, recidere in un solo attimo tutto ciò che ero, tutto ciò che avevo amato, creduto, sperato. Non urla, non maledice, non mostra emozione. Il silenzio è assordante, più del dolore, più del rumore dello schiaffo che rimbalza sulle pareti e poi dentro la mia testa, ripetendosi all’infinito. È un gesto meccanico, ma non perché privo di significato: è meccanico come una sentenza già scritta, come un dovere che lui ha deciso di eseguire senza più porsi domande. In quel gesto c’è la freddezza di chi non riconosce più l’altro come essere umano, c’è l’atroce lucidità di chi decide che non c’è più spazio per alcun tipo di misericordia.
Mi colpisce e mi annienta, senza parole, senza esitazioni. Come se non fossi che un’ombra, un fantasma fastidioso da scacciare con una mano. Ma io sento quel gesto diventare fuoco, diventare lama, diventare un eco devastante che si ripercuote in ogni centimetro della mia pelle, in ogni strato della mia memoria. È un atto di disprezzo, ma non un disprezzo impulsivo o cieco: è qualcosa di peggio. È un disprezzo consapevole, studiato, calcolato per ferire non solo nel presente, ma per continuare a ferire anche nel futuro, per imprimersi nella mente come un marchio che nessun tempo potrà mai cancellare. È una profanazione, sì, ma non di un corpo soltanto: è la violazione sistematica e definitiva di ciò che credevamo intimo, condiviso, inviolabile. Profana il nostro passato, ma anche ogni possibilità futura.
È come se avesse deciso che io non meritassi neppure la dignità del silenzio complice o dell’addio rispettoso. No, lui ha scelto l’umiliazione. L’ultima. La più crudele. Mi ha strappato la pelle della speranza, mi ha lasciato nudo, esposto, fragile come un vaso rotto rimesso insieme male. È un’ultima umiliazione, sì, ma è anche la prima di una serie di giorni a venire in cui quella sensazione si ripeterà, ogni volta che mi guarderò allo specchio, ogni volta che incrocerò occhi che non sanno, ogni volta che proverò a spiegare cosa significhi essere stati spezzati in quel modo. Non ci sono parole adeguate. C’è solo quel gesto, quel contatto che non ha bisogno di essere ricordato, perché non potrà mai essere dimenticato. È un marchio indelebile, inciso sotto pelle, come una firma nera che si rinnova a ogni battito del cuore.
E non importa se intorno le cose continueranno a muoversi, se il mondo proseguirà la sua corsa indifferente, se le stagioni cambieranno, se altri amori, altre voci, altre mani proveranno a lenire quella ferita. La cicatrice resterà. Non si rimarginerà mai, perché non è fatta solo di carne: è una cicatrice dell’anima, un taglio interno che sanguina silenziosamente ogni volta che qualcosa mi ricorda la violenza subita. Ed è una ferita infida, perché non grida. Non ha il suono del dolore esplicito, ma vive nel corpo come un sussurro che non smette mai di parlare. E parla nel linguaggio della vergogna, del tradimento, del senso di colpa immeritato.
È un’onta eterna. Eterna nel senso più tragico del termine. Non perché sia qualcosa che il tempo conserverà con onore, ma perché è ciò che resterà quando tutto il resto sarà svanito. È l’ombra che seguirà ogni mio passo, la nota stonata che incrinerà ogni melodia, il nodo alla gola che tornerà nei momenti di pace apparente. Nessuno la vedrà, forse. Ma io la sentirò. Sarà la mia compagna silenziosa, la mia doppia pelle. Sarà nel modo in cui abbasserò lo sguardo quando qualcuno alzerà la voce, nel modo in cui mi irrigidirò a ogni gesto improvviso, nel modo in cui sorriderò con cautela, temendo che quel sorriso venga nuovamente distrutto da una mano come la sua. Sarà lì, tra le mie ciglia, dietro i miei occhi, dentro la mia gola. Sarà in ogni poesia che non riuscirò a scrivere, in ogni parola che non avrò il coraggio di pronunciare, in ogni notte in cui mi sveglierò senza ricordare il sogno, ma solo il gesto.
E sarà lì, infine, anche quando crederò di esserne libero. Perché quel colpo, quell’atto, non è mai stato solo fisico. È stato l’inizio di una metamorfosi: l’ingresso in un luogo in cui non si è più se stessi, ma qualcosa che resta a metà tra ciò che si era e ciò che non si riuscirà mai più a diventare. E allora continuerò a camminare, a vivere, a fingere. Ma dentro, dentro davvero, sarò sempre lì: sospeso. Sollevato da una mano che non mi regge più, ma che ancora non mi ha lasciato cadere.
Ero sulla metropolitana. Il vagone oscillava con il suo ritmo sordo, come un cuore stanco che batte per inerzia, ripetendo sempre lo stesso gesto, come se anche lui, quel treno sotterraneo, fosse ormai preda di un automatismo cieco, privo di desiderio, di volontà, di sorpresa. La luce al neon vibrava appena, tremolava come una palpebra esausta, e il metallo nudo delle pareti restituiva riflessi freddi, taglienti, come lame dimenticate in una sala operatoria abbandonata. La gente sedeva, in silenzio o assorta nei propri dispositivi: dita che scorrevano schermi, occhi persi nel nulla, anime disabitate. Poi l’ho visto.
Di fronte a me, un ragazzo leggeva. Leggeva con intensità, con una concentrazione che sembrava provenire da un altro tempo, da un'altra era. Aveva una postura quieta, composta, come se intorno a lui non esistesse rumore, né movimento, né alcun altro essere umano. I suoi occhi erano fissi sulle pagine, e il modo in cui li muoveva – quella danza regolare da sinistra a destra, da riga a riga – era una forma di resistenza. Le labbra erano socchiuse, come in un sussurro muto, come se stesse ripetendo quelle parole per sé soltanto, per non dimenticarle, per trattenerle nel corpo. Era un gesto così umano, così intimo, che spiccava come una fiamma in mezzo alla notte. Un ragazzo che legge: gesto semplice, quasi banale, ma in quel contesto metropolitano – freddo, disilluso, automatico – era un’apparizione. Era come un miracolo non reclamato, una reliquia viva, un frammento di bellezza dimenticata che riaffiorava tra il cemento e l’asfalto.
Era, davvero, un'icona di innocenza profanata. Perché lo sguardo che gli si poteva rivolgere, lo sguardo che io stesso gli rivolgevo, era inevitabilmente corrotto dalla consapevolezza del mondo, dalla memoria di ciò che il mondo sa fare ai puri, agli ingenui, a quelli che credono ancora nella parola scritta. Era una figura fragile, ma non per debolezza: fragile come lo sono i fiori, le voci, gli sguardi dei bambini che non hanno ancora imparato a temere. Un simbolo di purezza violata, come quelle statue classiche il cui volto è stato sfregiato dal tempo e dalla violenza, ma che proprio per questo splendono di una luce più tragica, più intensa. C'era qualcosa nel suo modo di leggere che sembrava implorare il mondo di non toccarlo, di lasciarlo restare così com’era, almeno per un altro istante.
Era un’immagine, forse, di ciò che siamo stati. Un riflesso lontano, sbiadito, ma ancora visibile. Un'eco di un'umanità perduta. Un’umanità che sapeva stare in silenzio, ascoltare, immaginare. Un’umanità che trovava conforto e senso nelle storie, che si riconosceva nella fragilità di un personaggio, nella complessità di una pagina. Ora tutto questo sembrava un sogno logoro, una nostalgia che si vergogna di se stessa. Eppure, guardando quel ragazzo, mi tornavano alla mente frammenti di una civiltà più lenta, più attenta, più profondamente inquieta e viva. Ma era anche – e in modo ineluttabile – un'eco di dannazione. Perché ogni bellezza non riconosciuta, ogni purezza lasciata sola, diventa una condanna.
Quella scena era un presagio di sventura. Lo sentivo nella pelle, nei suoni assorbiti dal vagone, nel ronzio elettrico che riempiva gli interstizi del silenzio. Era come se il ragazzo stesse leggendo la nostra fine, e non lo sapesse. Come se quelle righe che scorrevano davanti ai suoi occhi raccontassero il destino di tutti, di noi che lo guardavamo senza vederlo, di noi che ci siamo dimenticati che cosa vuol dire abitare un pensiero. Un avvertimento sinistro, dunque. Un monito che nessuno ascolta, che si dissolve appena pronunciato. C’era qualcosa di profetico, di terribilmente sacro nel suo gesto: un bambino che legge mentre la città brucia, un monaco che trascrive un manoscritto mentre i barbari abbattono le porte del convento.
Era un’eco dell’abisso. Un abisso che non urla, ma sussurra. Che non spalanca le sue fauci, ma scava lentamente sotto i piedi, come acqua che si infiltra nelle fondamenta. L’abisso era nel suo silenzio, nel fatto che nessuno, oltre me, sembrava notarlo. Che la sua presenza non sconvolgeva nulla, non cambiava nulla. Che sarebbe sceso, avrebbe chiuso il libro, sarebbe tornato nel nulla. Eppure, per un istante, lui era tutto. Era la memoria, la colpa, la speranza. Il ragazzo leggeva, e in quel leggere c’era come un pianto muto per tutto ciò che non tornerà. Era lì, immobile e meraviglioso, e io – testimone inutile – non potevo fare altro che guardarlo, e ricordare, e sentire che forse, in fondo, non volevamo davvero salvarci.
Un’azione più forte e decisa, apparentemente. O, più probabilmente, solo più vistosa, più spettacolare, più rumorosa. Una scelta che non nasce dalla necessità, ma dal bisogno di affermarsi, di lasciare un segno, di alzare il volume del proprio esistere fino a sovrastare tutto il resto. Un gesto che non cerca davvero di risolvere, ma di dominare la scena. Una teatralità che non teme l’eccesso, anzi, lo coltiva, lo invoca. Ogni movimento è calcolato come in un'opera tragica: lo sguardo che indugia, la pausa prima del colpo, il modo in cui il corpo si irrigidisce prima dell'impatto. È potere che si mette in posa, che si veste da dramma, che si compiace di sé.
Un’esibizione di forza, certo, ma anche un’esibizione dell’esibizione stessa: un gioco di specchi in cui chi agisce non vuole solo imporsi sull'altro, ma essere visto mentre lo fa. L’importante è l’occhio esterno, lo sguardo del pubblico – reale o immaginato – che osserva e conferma, che giudica e interiorizza. Il potere non ha più bisogno di giustificarsi: si limita a mostrarsi, a reiterare la propria evidenza, a gridare il proprio diritto a essere potere. Si fa spettacolo, e come ogni spettacolo ha bisogno di un climax, di un colpo di scena, di un applauso – anche silenzioso, anche interiore. È una recita, sì, ma una recita senza finzione, dove la violenza non è simulata, bensì agita per davvero.
Una messa in scena della violenza, dunque, ma non solo per trasmettere un messaggio o per ottenere un risultato. No. È violenza che si celebra, che si offre in pasto all’attenzione, che si fa rituale, atto sacrificale, gesto solenne. Ogni schiaffo, ogni parola tagliente, ogni silenzio carico di minaccia è parte di un copione, e chi lo pronuncia lo conosce bene. Si tratta di creare un’immagine – nitida, potente, memorabile – che si incida nella mente dell’altro e vi resti. Una sorta di icona negativa, di fotografia mentale del dolore, della sottomissione, dell’impotenza. E questa immagine è ciò che veramente conta. Il gesto in sé passa, ma la scena rimane.
Un rituale di umiliazione, reiterato con una precisione quasi liturgica, come se fosse parte di un culto segreto e sinistro. Non si tratta solo di infliggere un danno: si tratta di scolpire la gerarchia nella carne e nella memoria, di ribadire chi comanda e chi subisce, chi guarda dall’alto e chi deve chinare il capo. È un’operazione simbolica, oltre che fisica. È la costruzione di una struttura mentale in cui l’altro, l’umiliato, impara a vedersi attraverso gli occhi del suo aguzzino. E in questa struttura, ogni dettaglio ha valore: il tono della voce, la posizione del corpo, la scelta del momento, la presenza di testimoni. Nulla è casuale. È un teatro della crudeltà che si alimenta del silenzio complice, della paura diffusa, del conformismo che preferisce voltarsi altrove.
E mentre tutto ciò accade, mentre il gesto si compie e si ripete, il mondo assiste. Talvolta in silenzio, talvolta giustificando, spesso senza nemmeno rendersene conto. E in questo sguardo collettivo, in questa normalizzazione della violenza, risiede la sua forza più grande. Perché ciò che viene messo in scena non è solo il dominio su un singolo individuo, ma un’intera concezione del potere, un'intera grammatica dell’oppressione che si trasmette, si perpetua, si insinua nei corpi e nelle menti.
Mi sono abbandonato a lui. Come un peso morto, un corpo inerte, un involucro vuoto, un’ombra di me stesso. Un sudario funebre, un velo di morte, un’ombra che si dissolve, un’eco di un’esistenza passata.
Mi sono lasciato andare, senza più resistenze, come se ogni fibra del mio essere avesse smesso di lottare. Le membra flosce, la carne priva di volontà, la pelle tesa come un drappo dimenticato: ero diventato materia spenta, cosa priva di scopo. Ogni pensiero si era ritirato in un altrove irraggiungibile, lasciando dietro di sé un corpo svuotato, una carcassa spirituale. Non ero più un essere umano, non ero più una persona con un nome, con una forma. Ero il nulla che si faceva spazio tra le cose, l'assenza che si insinuava negli spazi tra un respiro e l'altro.
Mi sono abbandonato come si lascia andare un ricordo troppo doloroso, un desiderio ormai spento. Il mio respiro era un soffio spento nel vento, il battito un’eco lontana che non mi apparteneva più. La mia esistenza sembrava sfumare, ridursi in frammenti dissolti nell’aria. Ogni movimento che compivo era privo di scopo, una gestualità vuota, un’azione senza direzione, come se fossi stato abbandonato in un mondo che non riconosceva più la mia presenza. Non c'era più nulla di me, e tutto ciò che mi circondava sembrava respingermi, come se la realtà stessa si stesse distaccando da ciò che ero.
Ero ciò che resta dopo la fuga della luce: un guscio senza seme, un abito senza corpo, un nome pronunciato da nessuno. Il mio corpo si faceva invisibile, cancellato dalla disperazione e dal silenzio. Ogni angolo della mia esistenza era ormai solo ombra, il suono della mia voce un mormorio scomparso nel nulla. E, nonostante questo, il mio corpo continuava a occupare lo spazio che gli era stato assegnato, ma senza più senso, senza più una funzione. Come se avessi preso il posto di qualcun altro, come se fossi diventato un'ombra riflessa, senza verità e senza futuro.
Lì, tra le sue mani, ero la memoria di ciò che non ero mai stato davvero. Un ricordo che non aveva mai avuto vita, che non aveva mai avuto un volto. Ogni traccia di identità si dissolveva in un mare di nulla, ogni speranza si riduceva a polvere, lasciando solo il peso di una presenza che non c'era. La sua stretta, che inizialmente sembrava il gesto di chi si preoccupava, ora appariva come l'ultimo tentativo di trattenere qualcosa che non aveva più consistenza. Il mio corpo, che una volta era stato un rifugio, un luogo di piacere, ora era solo una carcassa. La sua pelle, la sua carne, la sua ossa: tutto era diventato estraneo, come se non appartenessi più a me stesso.
E in quell’abbandono totale, muto e profondo, c’era qualcosa di terribilmente puro, quasi sacro: come se la fine di me contenesse un principio imperscrutabile. Non ero più io. Eppure, ero esattamente quello che avevo sempre temuto di diventare. Un riflesso evanescente, un’assenza che si confonde col buio. Una resa. Una fine. Una verità che non volevo vedere, ma che ero costretto a vivere, come se ogni strato di esistenza fosse stato rimosso, lasciando solo la sostanza nuda, l'essenza priva di maschere.
Nel buio di quell’abbandono, tutto era chiaro e allo stesso tempo confuso. Ogni dettaglio della mia vita passata si mescolava in un vortice di immagini, suoni, e sensazioni che non avevano più forma. La linea tra passato e presente era diventata indistinta, come se il tempo stesso fosse stato annullato, lasciandomi in un eterno ora in cui non c’era più nulla da aspettarsi. Ogni tentativo di resistere si dissolveva in un istante, come un sogno che svanisce non appena cerchi di afferrarlo. Non c’era più niente da fare, niente da salvare. Solo il silenzio e l’oscurità che mi circondavano, solo l’accettazione di non essere più nulla.
Eppure, nonostante la dissoluzione di ogni cosa, nonostante la perdita di me stesso, c’era una calma terribile, un'inquietudine che si mischiava con la pace di un’inesorabile conclusione. La mia fine era inevitabile, ma in qualche modo anche liberatoria. Come una verità che, seppur dolorosa, portava con sé la rivelazione di una realtà che avevo sempre evitato di guardare in faccia. La fine di me stesso era il segno di una rinascita che non avrei mai visto. E questa consapevolezza mi dava un’ulteriore sensazione di sospensione, come se non avessi mai camminato sulla terra, ma fossi sempre stato sospeso tra la vita e la morte, tra il passato e il futuro, tra il desiderio di essere e l’accettazione di non esserlo mai stato davvero.
Difficile essere più preciso, davvero impossibile se si cerca di cogliere l'essenza di un'esperienza così travolgente, così inafferrabile. In questo delirio senza fine, in questo vortice inarrestabile di sensi che si sovrappongono e si confondono, in questa tempesta di emozioni che si accavallano senza tregua, si perde il confine tra la realtà e l'illusione, tra il corpo e la mente, tra il reale e l'immaginario. Ogni pensiero si dissolve, ogni ricordo si frantuma come vetro sotto una pressione insostenibile. E tutto si riduce a un abisso di dolore che inghiotte, che non lascia scampo, che raschia via ogni traccia di speranza. È una spirale che risucchia, che attira verso il basso, come un buco nero che inghiotte ogni cosa nella sua infinita e insaziabile fame.
In questo stato di abbandono, un'anima in pena, persa nella vastità dell'universo, vaga senza meta, senza più un rifugio, senza più una guida. È come un fantasma che fluttua tra il mondo dei vivi e quello dei morti, incapace di trovare pace, intrappolato in un ciclo eterno di sofferenza e solitudine. Ogni passo è incerto, ogni respiro è affannato, ogni pensiero è un eco che rimbalza contro le pareti di una prigione invisibile. Un'ombra che cerca disperatamente la luce, ma la luce sembra sempre sfuggire, sempre troppo lontana, sempre appena oltre l'orizzonte. Eppure l'anima continua a cercare, a sperare, a lottare contro una realtà che sembra incomprensibile e crudele.
Alla fine, quello che resta è solo l'eco di un'umanità perduta, un frammento di ciò che un tempo era, una traccia sbiadita di emozioni e di esperienze che ormai non hanno più un nome, né un volto. È un grido silenzioso, un pianto che nessuno può udire, un ricordo che sfuma nel nulla. Un ricordo di un tempo che non tornerà mai più, di un'umanità che si è persa nel flusso del tempo, nel cammino di una vita che non ha più direzione. Eppure, nel cuore di questa oscurità, continua a vivere la speranza di una salvezza, di una redenzione che forse non arriverà mai.
Il riflesso del suo viso sui vetri è come un'ombra sfuocata che sfida la trasparenza, una visione indistinta che tuttavia risuona nell'aria con una forza inquietante. L'immagine spettrale di quel volto è come un ricordo che si forma nell'aria, ma non lascia mai traccia, come un'illusione che si dissolve con il minimo movimento. È un volto distorto dalla violenza, dove ogni linea e ogni contorno sembrano lacerati da un dolore che non ha nome, un'espressione che rimane sospesa tra il vissuto e l'inimmaginabile. Quella figura, pur essendo il risultato di un riflesso, appare viva e palpabile, e ogni sua parte sembra raccontare una storia di sofferenza, di aggressione e di abisso. È un'icona dell'orrore, non nel senso tradizionale, ma come una rappresentazione di un male che si fa visibile senza bisogno di alcun simbolismo esplicito: un volto che, pur privo di contorni definiti, possiede una potenza che supera la visione stessa. Un'eco della malvagità, come una vibrazione che risuona nell'anima, in grado di scuotere chiunque la incontri, lasciando un'impronta che non si cancella, nemmeno nel silenzio della mente. È un'immagine che non chiede di essere compresa, ma che impone la sua presenza, come se ogni singolo riflesso non fosse altro che il ricordo di un'esperienza terribile e irreversibile.
Capisco solo che ho interrotto la loro azione, ma in fondo non sono certo di quale sia la natura vera di quell'intervento. Non so se sono stato spinto da una sorta di impulso eroico, una necessità di intervenire per fermare un'onda che mi sovrastava, oppure se, nel mio gesto, c'era solo un'inconscia paura di perdermi in un'azione che, più grande di me, avrebbe portato il caos troppo vicino alla mia realtà. La percezione di quella scena era talmente intensa, come se avessi assistito a un evento che trascendeva ogni tipo di logica e di spiegazione. Non si trattava di qualcosa che si potesse facilmente decifrare, ma di una forza collettiva che, come una corrente sotterranea, si stava facendo strada, un potere che sfuggiva a ogni controllo. Quella che stavo vivendo non era solo una reazione a un conflitto, ma un vero e proprio sfogo di una tensione sociale, un atto di forza che sembrava non voler lasciare spazio ad alternative, come se la violenza fosse l'unica via d'uscita.
L'azione in corso era una catarsi violenta, una spinta irrazionale che metteva in discussione ogni ordine stabilito. Un'azione più forte, più convinta e più decisa di quanto avessi mai visto, un atto di sfida che non concedeva alcuna possibilità di dialogo o di mediazione. Era come se, in quel preciso momento, ogni norma fosse stata annullata, ogni forma di educazione o di compromesso fosse stata messa da parte per dare spazio solo all'urgenza di un gesto. La ribellione che si stava consumando era senza scopo, quasi una necessità inutile, come se non ci fosse davvero una ragione per cui il conflitto dovesse arrivare a quella magnitudine, ma si stesse alimentando esclusivamente per il piacere di resistere, per il gusto amaro della rivolta, senza una vera consapevolezza del suo fine. Un grido disperato, un'espressione di impotenza mascherata da forza, una lotta che non aveva un obiettivo se non quello di fare rumore, di segnare il proprio passaggio in un mondo che sembrava incapace di offrire altro che resistenza alla propria esistenza.
Ma forse c'era qualcosa di più, forse dietro quella ribellione c'era la ricerca di un'identità più chiara, una voglia di affermarsi in un contesto che sembrava ignorare ogni tipo di diversità o di bisogno. Eppure, con il passare dei momenti, cominciavo a capire che tutto ciò non era altro che un gioco, un teatro dove ognuno recitava la propria parte senza alcuna consapevolezza del vero significato del proprio ruolo. Un atto teatrale, esagerato e irreale, dove la violenza diventava un linguaggio comprensibile a tutti, ma che non risolveva nulla, se non il continuo rincorrersi di emozioni insoddisfatte. La violenza si trasformava così in un gesto simbolico, una messa in scena del potere che sembrava pensare di poter risolvere ogni crisi, ogni incertezza, ma che alla fine non faceva altro che allontanare ulteriormente l'idea di una soluzione. Non c'era nulla di autentico in quel potere, solo la sua manifestazione più grottesca, come se l'esercizio della forza fosse l'unica risposta, l'unica alternativa possibile a un vuoto che non si riusciva più a colmare.
Era un rituale di umiliazione, un copione che si ripeteva senza mai cambiare. Ogni volta, i protagonisti assumevano ruoli già noti, già scritti, ripetendo le stesse azioni senza mai arrivare a una vera conclusione. Le stesse dinamiche, le stesse violenze, le stesse cadute, eppure sempre con la speranza che qualcosa potesse cambiare, che questa volta il finale sarebbe stato diverso. Ma nessun finale arrivava mai. La tensione aumentava, ma non si risolveva mai in una liberazione definitiva. Era come un circolo vizioso in cui ogni atto violento, ogni provocazione, ogni gesto di potere, veniva risucchiato in un vortice che si autoalimentava, un ciclo che non si chiudeva mai. Così, nel mio gesto di interrompere, non ho fatto altro che interrompere l'illusione, spingendo la violenza a cercare una nuova forma, a mutare maschera, ma senza mai sfuggire alla sua essenza. Forse la mia interruzione non ha fatto altro che rendere più evidente che tutto ciò che stava accadendo non era altro che una recita. Una recita che, in fondo, nessuno di noi poteva evitare di recitare, nemmeno io.
Voglio vedere i loro occhi, non semplicemente guardare, ma scrutare, indagare, penetrare fino in fondo, dove si cela il mistero che li rende ciò che sono. Voglio vedere l'abisso che si nasconde dietro il loro sguardo, quell'infinito vuoto che sembra assorbire ogni barlume di speranza e di ragione. Voglio capire l'origine della loro violenza, scoprire quel punto preciso, quel momento che ha segnato la rottura, quella frattura insanabile tra l'essere umano e la sua stessa umanità. Voglio vedere la loro anima corrotta, una corruzione che non è solo superficiale, ma che ha radici profonde, che infetta ogni aspetto della loro esistenza. Voglio percepire la tristezza e il dolore che li definiscono, il peso di una coscienza che non riesce più a distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. Voglio vedere la loro umanità perduta, quella scintilla che un tempo li rendeva simili a me, ma che ora sembra svanita, dissolta in un buio senza ritorno. È un'ossessione, un desiderio che mi consuma, di comprendere ciò che non può essere compreso, di dare un senso all'incomprensibile, di trovare una chiave che apra la porta su un mondo che sembra sfuggire alla logica. Un'urgenza che cresce dentro di me, una tensione che non posso liberare, che mi spinge a cercare risposte dove forse non ci sono. Un'eco di disperazione, una voce lontana che mi grida che nulla ha senso, che tutto è perduto, ma che continuo a cercare, continuo a lottare, perché forse, solo forse, in quella ricerca troverò la verità che mi sfugge.
Un vagone di metropolitana. Un'arca di perversione, un luogo di perdizione, un teatro dell'assurdo, un'anticamera dell'inferno. Un microcosmo di oscurità e riflessi, dove il tempo sembra essersi dilatato in una distorsione sensoriale. Il ronzio monotono delle rotaie si mescola ai suoni di voci sbiadite, a metà tra il mormorio di chi sogna e quello di chi è completamente prigioniero di un incubo urbano. Ogni volto è una maschera di solitudine, di incomprensione, di una vita che scivola via senza nemmeno il respiro di una possibilità di fuga. Le anime si muovono come ombre, in un silenzio che non è mai silenzio, ma una strana cacofonia di pensieri non detti, di desideri repressi, di angosce sommerse. Ogni gesto sembra essere un atto di resistenza al caos che esplode senza preavviso, una lotta, forse persa in partenza, per mantenere un briciolo di umanità. È l'inferno moderno, dove la disperazione è in silenzio, nascosta dietro l'indifferenza della gente che guarda ma non vede, che tocca ma non sente, come se ognuno fosse prigioniero di un destino che non ha mai scelto. Un luogo dove la libertà è solo una parola vuota, e la salvezza è un'illusione lontana, un sogno che si dissolve non appena ci si sveglia.
Protestai. All’inizio fu solo un tremore della voce, un sussulto del respiro. Poi si fece più chiaro, un suono rauco, sgraziato, quasi bestiale, partorito da una gola che non era più mia. Protestai, sì, perché si erano ammassati addosso a me con la furia dei ciechi, dei dannati, dei sopravvissuti a un naufragio che non ho vissuto. Il loro peso mi schiacciava, le loro mani — o forse erano artigli — mi premevano sul torace, sulla schiena, sul volto. Mi respiravano addosso. Mi assorbivano. Mi annullavano. E io volevo urlare, ma era come sprofondare in un lago di pece. Voglio conoscere quei volti, uno per uno. Li voglio vedere alla luce cruda, impietosa. Voglio guardarli senza pietà, voglio scorticare la pelle dell’indifferenza che portano come un’uniforme. Voglio scrutare ogni ruga, ogni tic, ogni movimento delle loro bocche distorte. Voglio vedere la bastardaggine nei dettagli — negli occhi bassi, nelle mascelle serrate, nei sorrisi mancati. Voglio entrare, con ferocia analitica, nella loro anima corrotta: rovistare tra i detriti, tra gli avanzi di morale, tra le macerie del desiderio. Voglio capirla, la loro malvagità, voglio darle un nome, una forma, un volto. Voglio assaporarla, sezionarla, ingoiarla come un veleno per poi sputarla. Voglio vedere, con la lucidità atroce di chi non ha più illusioni, l’umanità che hanno smarrito. Dove l’hanno lasciata? In quale infanzia bruciata, in quale vicolo, in quale confessionale?
Uno scompartimento. Uno spazio chiuso. Ma non è solo uno spazio: è un’idea, un simbolo, un paradosso. Uno scompartimento è come una cella monastica senza Dio, senza silenzio, senza disciplina. È un guscio senza protezione. Una capsula sigillata, un’urna mobile, un sarcofago con le ruote. È il regno del non-detto, il palcoscenico della sopportazione. È un luogo di reclusione senza guardiani, ma con troppi testimoni muti. È un sepolcro in movimento, che trasporta anime che non si parlano, corpi che si sfiorano senza vedersi. Un luogo di condanna, sì, perché nulla si redime lì dentro. Tutto si trascina. Tutto marcisce. Il vagone diventa una tomba. Il sedile è una lastra di marmo. Il finestrino, una finta via di fuga. È la dannazione fatta abitudine.
Ma cos'è stato? Qual è stato l’innesco, il punto di rottura, la scintilla? Cos’ha fatto — o non fatto — per scatenare quella furia improvvisa, quel disprezzo viscerale, quel bisogno urgente di annientarlo? È bastato uno sguardo fuori posto? Uno di quegli sguardi che non rispettano la grammatica invisibile del terrore? O un gesto, magari incerto, forse ambiguo, forse troppo umano? O è solo il suo essere che era intollerabile? Il suo esserci — davanti a loro, davanti a me — come uno specchio storto, come un altare rovesciato? Un labirinto, tutto questo. Una spirale di domande senza uscita. Un enigma che si frantuma in mille frammenti taglienti. Un mistero che non cerca risposte, ma solo repliche. Un’eco, sì, un’eco antica, potente, che rimbalza nelle ossa. È il suono stesso del destino, quel suono cupo e ineluttabile che ci accompagna da sempre. Un richiamo alla colpa. Alla punizione. All’irrimediabile.
Il dolore. Quello vero. Quello che ti stringe le tempie e ti blocca il respiro. Il dolore di allora non è mai andato via. È rimasto nascosto, in agguato, come una bestia paziente. Riaffiora quando meno te l’aspetti, come un’onda improvvisa che ti strappa dal fondo. Ti sommerge, ti ribalta, ti penetra. Come un fiume nero che tracima dentro, che sale lungo la schiena, che risale la gola. È un’eco — e come tutte le eco, non finisce mai. È la voce di una ferita che non si rimargina. È il sussurro dell’abisso che hai dentro. È un richiamo antico, fatto di parole senza suono, di immagini senza colore. È una dannazione personale. Un presagio di rovina. Un allarme che suona anche quando tutto tace. Un’eco dell’oscurità più profonda, quella che portiamo nel sangue.
Eppure, mentre racconta, non vedo i suoi occhi. O meglio: li vedo, ma non dicono nulla. Come se fossero spenti da tempo. Come se si fossero chiusi su qualcosa che non vogliono più ricordare. Come se fossero stati testimoni di una visione così atroce da essersi consumati. Sono occhi che non vedono più, che non credono più, che non chiedono più. Sono diventati fessure d’ombra. Cavità silenziose. Spazi in cui la luce si spegne, definitivamente. Hanno perso tutto. La curiosità, la paura, la tenerezza. Sono due pozzi secchi.
E il calore. Il loro calore mi infastidisce, mi ripugna, mi brucia addosso come febbre. È il calore dei corpi che non conoscono amore, solo urto, solo invasione. È il calore dei demoni — sudati, affannati, violenti. Sono creature infernali, deformate dal desiderio di distruggere. Mi stanno attorno come un cerchio di fuoco. Mi toccano senza toccarmi. Mi possiedono senza accorgersene. Mi consumano. E ogni respiro che sento, ogni parola non detta, ogni movimento sfiorato è un’eco — ancora un’eco — dell’inferno.
E tuttavia, a volte, il ricordo si traveste. Si maschera da nostalgia. Da malinconia. Si fa carezza, rifugio. Ma è tutto un inganno. È uno schermo di nebbia. Una scenografia fragile che crolla al primo soffio. È un rifugio illusorio, come le braccia di un amante che ti ha tradito. È un miraggio che consola, ma solo per un attimo. È una menzogna necessaria. Un’eco dolceamara di ciò che è stato — o che non è mai stato. Un’eco di umanità, sì, ma smarrita, abbandonata, ridotta in pezzi.
Sono giunto alla stazione. Ma non è una stazione. È un ingresso. È un passaggio. È un girone. È l’inizio di qualcosa che non so nominare. Un luogo di dannazione, ma vestito da quotidiano. Un abisso con il tabellone degli orari. Un’anticamera del delirio. Una soglia oltre cui tutto si deforma. E io l’ho attraversata. Non so quando. Non so perché. Ma ora sono lì. Davanti al precipizio.
E il ricordo? Il ricordo è un tradimento. Sempre. Non corrisponde mai. È un inganno sottile, costruito a posteriori. È una narrazione che modifica i fatti, li addolcisce o li deforma. È un inganno dolce, sì, ma è pur sempre inganno. Un’eco della mente, dell’inconscio, della paura. Una maschera. Una menzogna che consola.
Il riflesso del suo volto sul vetro — quello è rimasto. È inciso nella mia memoria come un sigillo. Era un volto spezzato. Distorto. Come visto attraverso una lente rotta. Era un’immagine sacra e profanata. Era l’icona del dolore. Il simulacro dell’orrore. L’eco della malvagità umana. E lì, in quel riflesso, ho visto me stesso. O quello che sarei potuto diventare.
Ero sulla metropolitana. Ma era un viaggio dentro. Dentro l’abisso. Dentro la condanna. Un presagio. Un rito. Una discesa. Un avvertimento. E quell’eco dell’abisso — quella voce sorda, quella vibrazione sottile che tutto avvolge — è ancora con me. Non se n’è mai andata.