venerdì 15 agosto 2025

come se fossi Eco (divertimento)


Ora, nella solitudine che gli anni mi hanno conferito come un manto silenzioso, intessuto di ricordi e di attese senza più oggetto, ancora mi ripeto, come si mormora una preghiera nei giorni più freddi dell’anima, che quella scelta — forse l’unica davvero mia — fu buona, e fu saggia. Ogni fibra del mio essere, col tempo, ha imparato a riconoscere che feci bene, allora, a seguire le orme del mio maestro, senza tentennamenti, senza badare alle voci esterne o ai venti contrari. Fu una fedeltà non cieca ma illuminata, e la sua presenza, nella mia vita, fu davvero una lanterna nelle ombre — quelle oscure, dense, che si posano sulla mente nei momenti di dubbio — e insieme porto sicuro nelle tempeste interiori, quando il mare del pensiero si sollevava minaccioso e le correnti della ragione parevano tradirmi.

Fu guida, sì, e guida di una specie che oggi, forse, non esiste più: severa e tenera al tempo stesso, come un padre antico, che sa quando correggere e quando offrire un abbraccio. La sua voce era misura e passione, come quelle corde di un liuto che vibrano al giusto tocco, e il suo sguardo penetrava le illusioni con la dolcezza di chi ha conosciuto l’errore e ne ha fatto conoscenza. Quando infine il destino, con il suo passo irrevocabile, ci separò — come fa il fiume che porta via una barca nel mattino — egli, con la dolcezza che solo l’affetto antico sa generare, mi lasciò in dono le sue lenti. Un gesto lieve, eppure gravido di senso, quasi volesse trasmettermi, attraverso quella fragile trasparenza, una porzione del suo sguardo sul mondo. Le custodisco ancora, quelle lenti, come si tiene vicino un reliquiario; non tanto per l’uso, ma per ciò che esse rappresentano: la visione acuta, esigente, disincantata eppure mai cinica, con cui egli sapeva leggere le cose del mondo e quelle dell’anima.

Mi abbracciò. E in quell’abbraccio — che fu lungo, e silenzioso come lo sono i commiati che sanno di definitivo — sentii il calore di un’anima nobile, irrequieta, assetata di senso e avvinta a misteri che ci sovrastano. Era un uomo che aveva cercato per tutta la vita, e cercava ancora, come chi sa che la verità non è un possesso, ma una sete. E con voce greve, profonda come il fondo di una cripta, ma priva d’ombra, mi ammonì. Disse parole che ancora oggi tornano, in sogno e in veglia, come una melodia severa: ‘Sappi, figlio mio, che hai attraversato giorni in cui il tumulto degli eventi ha minacciato di dissolvere ogni ordine, ogni forma di rettitudine; giorni in cui pareva che la stessa struttura del mondo vacillasse come un edificio destinato alla rovina. Ma ascolta bene: l’Anticristo, contro cui ci battiamo armati della sola spada della Fede, non sempre giunge da terre lontane o da oscurità riconoscibili. Talvolta, con sottile astuzia, egli sorge proprio dall’intimo stesso della pietà, là dove il cuore si scalda d’un amore troppo ardente per Dio, per la Verità, per la Legge.

Così come il santo, nella sua luce estrema, può generare l’eretico; così come il veggente, acceso da visioni troppo pure, può sfiorare la follia e l’indemoniato, così anche il desiderio ardente di sapere può condurre a un delirio. Perché la verità, se guardata con occhi infiammati dall’assoluto, si moltiplica in riflessi, si frantuma in mille ombre, si deforma come volto in specchio infranto. E tuttavia essa è presente, nascosta ma viva, come il sole che scintilla in acque torbide, come brace sotto la cenere del mondo. Essa brilla, persino negli errori, persino nei fallimenti; e siamo dunque chiamati a leggere i segni anche là dove la notte è più fitta, anche là dove il male intesse, con dita esperte, una trama che pare negazione e scherno di ogni bene, di ogni luce’.

Così parlò. E le sue parole, incise nel tempo come su una tavola di pietra, rimasero scolpite nella mia memoria non come dottrina, ma come ferita luminosa, come tracciato incerto che solo in certi momenti, in certe ore lente della solitudine, si rischiara. Mai più i miei occhi incontrarono i suoi, né mi fu dato di sapere quale sorte fu infine riservata a quell’anima grande, che già, nel suo silenzio ultimo, sembrava prefigurare il passaggio verso il giudizio eterno. Ma ogni giorno, nel tempio del mio cuore, innalzo per lui una preghiera. Prego con la sincerità semplice dell’affetto, con la devozione tenace del discepolo, che Dio — giusto ma anche tenero, giudice e madre — abbia accolto la sua anima in un abbraccio di perdono, e che sull’altare della sua intelligenza ardente e del suo orgoglio smisurato abbia deposto la misericordia che solo a Lui appartiene, e che talvolta giunge quando meno ce lo aspettiamo.

Ora, nel crepuscolo della mia vita, quando le giornate si consumano lente come ceri in una chiesa vuota, e le membra, stanche del viaggio, trovano sollievo solo nel torpore del sonno, la mia mente vaga, come pellegrina smarrita, fra i fantasmi del passato. In quel regno di immagini sbiadite e ritorni improvvisi, si accende talvolta — come un lume su una via interrotta — il ricordo di un volto. Appare e svanisce, come nube leggera portata dal vento, come profumo perduto che all’improvviso ritorna in una stanza chiusa. Tra tutti i volti che dal tempo affiorano, più nitido, più insistente, si fa quello di una fanciulla.

Era luminosa come un sogno nei giorni d’infanzia, lieve come un sospiro che non osa farsi parola. Il suo viso ha visitato silente i miei pensieri, nelle notti di giovinezza e nei giorni lunghi della vecchiaia; era presenza muta e costante, come musica senza suono che accompagna i gesti quotidiani. Ella fu — e resta — il mio unico amore terreno, l’unica luce accesa tra le ombre fitte dell’anima. E tuttavia rimane per me senza nome, non per dimenticanza, ma perché la sua verità sfugge al linguaggio. Come una visione celeste, velata e incomprensibile, come ombra soave che il cuore riconosce ma la mente non sa nominare, ella è presenza ineffabile.

E così, tra tutte le cose che ho posseduto e perduto — tra le voci, le case, i libri, le mani che ho stretto e lasciato andare — il suo ricordo mi resta. Mi resta come eco lontana di una musica d’altri tempi, come frammento di poesia mai scritta, come segreto inattingibile che il tempo e l’oblio non hanno potuto cancellare. È una reliquia nascosta nel fondo del mio essere, un bagliore che non si spegne, un richiamo che non chiede risposta. Ed è forse in quel ricordo, più che in ogni dottrina appresa o missione compiuta, che oggi riconosco il senso più profondo del mio passaggio sulla terra.