venerdì 15 agosto 2025

Salieri (un monologo ispirato)

In molti mi avevano chiamato genio, o almeno un uomo di talento: qualcuno capace di piacere, di imporsi, di farsi rispettare nel mondo severo della musica. E in effetti era così: piacevo a tutti, anche a me stesso, e questo forse era la cosa più importante. Ma poi arrivò lui. Non lo vidi subito, non con gli occhi del corpo, ma con quelli dell’anima. Un ragazzo, un bambino prodigio, portato da un’eco lontana fino a Vienna, sotto la protezione del Principe Arcivescovo di Salisburgo. Quel nome risuonava come un tuono silenzioso: Wolfgang Amadeus Mozart. E con lui arrivò una tempesta, un’onda che avrebbe travolto tutto ciò che credevo solido, che avrebbe infranto le mie certezze e svelato crepe invisibili nel mio orgoglio.

Lo aspettavo con un misto di curiosità e inquietudine. Mi aggiravo per i corridoi delle residenze principesche, cercando di indovinare quale volto, quale presenza potesse celare quel talento inarrivabile di cui tutti parlavano. Avevo sentito storie incredibili: a quattro anni aveva composto il suo primo concerto, a sette la sua prima sinfonia, a dodici un’opera completa. Quale traccia poteva lasciare un simile genio su un volto così giovane? Che aria avrebbe avuto quella creatura? E soprattutto: come avrei reagito al suo confronto?

La notte in cui finalmente ascoltai quella musica cambiò tutto. La partitura, sulla carta, sembrava semplice, persino modesta, come l’apertura di un gioco infantile. Fagotti, corni di bassetto che tintinnavano come un vecchio scrigno che si apre dopo un lungo silenzio. Ma poi venne l’oboe: una sola nota, lunga, sospesa, immobile nel tempo. Una nota che sembrava arrestare il respiro stesso dell’aria intorno. Poco dopo, il clarinetto entrò, adagiando quella nota in una melodia dolce, carezzevole, tanto delicata da sembrare quasi un sussurro divino. Quel suono non apparteneva a una scimmia ammaestrata, a un virtuoso qualunque, ma a qualcosa di altro, di superiore. Era la voce di un desiderio, di una passione irrefrenabile che non avevo mai udito prima, e che in quel momento mi sembrò la stessa voce di Dio.

Eppure, proprio mentre ero rapito da quella musica, mi scattò dentro un’improvvisa rabbia. Perché? Perché Dio, se davvero esiste, avrebbe scelto un fanciullo così sfacciato, così infantile e impudente, come suo tramite? Era un’ingiustizia troppo grande da accettare. Quella musica, quel talento, dovevano essere un errore, un caso fortuito, una burla crudele. Guai se fossero stati veri. Guai se quel ragazzo fosse davvero il messaggero di un destino che mi era stato negato.

Furioso, mi avvicinai al crocifisso che pendeva sulla parete della stanza, il simbolo della fede che avevo sempre rispettato e temuto. Lo presi in mano, con un gesto violento, e lo gettai tra le fiamme del braciere. “D’ora in poi saremo nemici,” gli dissi, con voce rotta dall’ira e dal dolore. “Tu hai scelto come tuo strumento un vanaglorioso, un ragazzo libidinoso, sconcio, infantile. A me invece hai concesso solo il dono maledetto di riconoscere la tua incarnazione, senza poterla fermare. Tu sei ingiusto, sleale, crudele. Ma io non ti lascerò vincere. Io ti ostacolerò, ti bloccherò, ti combatterò con ogni fibra del mio essere, perché non permetterò che la tua creatura terrena sovrasti tutto ciò che ho costruito.”

E così iniziò la mia lotta, un conflitto che avrebbe segnato ogni momento della mia vita, un duello tra due destini incrociati, due voci che si sfidavano nel silenzio delle sale da concerto, in un mondo che non avrebbe mai potuto comprendere la profondità della nostra guerra.

Non dormivo più. Le notti erano una lunga catena di immagini, suoni, e pensieri che mi trascinavano senza tregua in un abisso da cui non potevo tornare indietro. Ogni nota di Mozart si insinuava nella mia mente come un serpente velenoso, eppure seducente. La sua musica era un linguaggio segreto, una lingua che io volevo decifrare, conquistare, ma che restava a me negata, come un mistero che si rifiutava di rivelarsi.

Mi chiedevo se lui, quel bambino dal volto angelico e dallo sguardo impudente, fosse davvero consapevole del dono che portava. O forse, nella sua innocenza perversa, non aveva nemmeno idea del potere devastante che sprigionava. Mentre io, invece, lo vedevo come un flagello, una presenza diabolica che minava le fondamenta della mia arte e della mia vita.

Eppure non potevo fare a meno di ammirarlo. Il suo genio era qualcosa di assoluto, che superava ogni logica umana. Mi tormentavo pensando a come Dio potesse essere così crudele da eleggere un ragazzino sfacciato e scapestrato a suo tramite, lasciando me, fedele servitore, nell’ombra, condannato a inseguire quella luce senza mai raggiungerla.

In quei momenti di disperazione, il mio rapporto con la fede si incrinava, si faceva fragile. Il crocifisso che avevo gettato nel fuoco era il simbolo di una frattura insanabile: non riuscivo più a credere in un Dio giusto, né in un destino equo. Eppure, proprio nella mia ribellione, sentivo nascere un’insolita devozione per quell’arte divina che Mozart incarnava.

Ogni mio gesto, ogni mia composizione, divenne una lotta contro quel dono troppo grande. Scrivevo per affermare me stesso, per dimostrare che anch’io potevo toccare il sublime, ma ogni nota sembrava solo un’eco fioca di quella voce che mi perseguitava. Eppure non potevo smettere, perché interrompere quel duello significava abbandonare la mia ragione di vita.

La mia ossessione si trasformò in un’ombra che mi seguiva ovunque. Nei saloni dorati, tra le candele tremolanti, mentre il suono di un clavicembalo risuonava lontano, io vedevo solo Mozart, il suo sorriso beffardo e la sua musica che si insinuava ovunque come un incantesimo impossibile da spezzare.

E così giurai a me stesso che non avrei mai smesso di combattere quella luce, di frappormi tra lui e la sua gloria. E se non avessi potuto diventare Dio attraverso l’arte, allora avrei fatto tutto il possibile per essere il suo ostacolo, la sua maledizione, l’ombra che ne offuscava il fulgore.

In fondo al mio cuore, sapevo che questa guerra era persa in partenza. Che la musica di Mozart era immortale, mentre la mia esistenza avrebbe lasciato solo polvere e silenzio.

Ricordo quella sera come se fosse ieri. Il suono dei passi leggeri che risuonavano nei corridoi, il lieve fremito delle tende mosse dal vento, l’aria carica di profumi d’incenso e cera fusa. Tutto sembrava sospeso, come in attesa di un evento che avrebbe cambiato il corso della storia.

E poi lui, Mozart, entrò nella sala con quel sorriso sfrontato, quegli occhi azzurri pieni di fuoco e follia. Mi guardò, e io sentii un gelo attraversarmi la schiena, un presagio oscuro che non avrei potuto ignorare.

«Salieri,» disse con quella voce di bambino e di dio, «sei tu il mio maestro o il mio rivale?»

Non potevo rispondere. Perché la verità era che già non sapevo più chi fossi io, né quale fosse il mio posto nel mondo. Eppure, dentro di me, si agitava un sentimento nuovo, spaventoso: l’ammirazione mescolata all’odio.

Passavano i giorni, e ogni incontro, ogni duello silenzioso di sguardi e note, aumentava la mia frustrazione. Ogni volta che sentivo la sua musica, quella melodia sfuggente e sublime, il mio cuore si spezzava in mille pezzi.

Eppure, non potevo smettere di ascoltare. Era come se quella voce divina fosse l’unica cosa che mi tenesse ancora aggrappato alla vita. Senza di lei, sarei stato nulla, un uomo cancellato dal tempo.

Una notte, solo nella mia stanza, mi misi a scrivere. Le mie dita tremavano mentre tracciavano le note su quel foglio bianco. Volevo creare qualcosa che potesse competere, qualcosa che potesse almeno avvicinarsi alla perfezione di Mozart.

Ma ogni suono che producevo era solo un’ombra, un’eco stanca.

Sentii allora la disperazione abbracciarmi come un freddo mantello, e per un attimo pensai di arrendermi. Ma la mia anima era troppo orgogliosa, troppo piena di rabbia per mollare.

Allora capii che la mia missione non era diventare Dio, ma diventare il suo angelo caduto, il custode dell’ombra.

E così, giorno dopo giorno, continuai a tessere la mia tela di gelosia e vendetta, sapendo che il mio destino era segnato. Ma in quella condanna trovai una sorta di terribile dignità.

Perché, in fondo, chi sono io? Solo un uomo che ha osato sfidare il divino, e ha perso.

Eppure, non smetterò mai di combattere.

I giorni si susseguivano lenti, come un flusso immobile, eppure ogni ora era densa di un peso insopportabile. La mia mente non conosceva tregua. In ogni angolo di quella casa, in ogni sussurro della sera, sentivo ancora il respiro di Mozart, il soffio di quella musica che penetrava la mia carne e s’ancorava al mio cuore con artigli di fuoco.

Non era solo invidia, o gelosia: era qualcosa di più profondo, una ferita aperta che sanguinava a ogni battito. La sua esistenza era un richiamo incessante, un monito crudele che mi ricordava la mia mortalità, la mia limitatezza, il mio fallimento.

Avevo dedicato la mia vita a Dio, alla musica, all’arte come a un patto sacro. Eppure, il destino mi aveva riservato un ruolo che non avevo scelto: quello dell’ombra. L’ombra di un bambino immortale, capace di trasformare il suono in luce e dolore, in innocenza e perdizione.

A volte mi chiedevano se odiassi Mozart. Ma io sapevo che non era odio. Era qualcosa di più inquietante e sottile: un amore avvelenato, una venerazione torturata che mi consumava dall’interno. La sua musica era un’onda inarrestabile che trascinava via ogni certezza, ogni sicurezza che avevo costruito con fatica.

Provavo a comporre, a creare, a urlare il mio nome nel silenzio dell’arte, ma tutto si dissolveva. Ogni mio tentativo sembrava una preghiera pronunciata in una lingua morta, un grido soffocato nel vento.

E mentre lui cresceva, il suo genio dilagava, io scivolavo lentamente nel baratro di un’esistenza fatta di rancore e rimpianto. La mia anima si faceva più nera, più aspra, ma anche più lucida. In quella disperazione trovavo una strana forma di forza: la consapevolezza che la mia battaglia non era contro un uomo, ma contro il mistero stesso del dono divino.

E così, nell’oscurità della mia solitudine, accettai il mio destino. Non sarei stato il trionfatore, non avrei raccolto le lodi del mondo, ma sarei stato il custode di un segreto doloroso, l’uomo che ha amato e odiato allo stesso tempo la luce più pura mai nata.

Perché, in fondo, non è forse questo il prezzo della grandezza?

Portare con sé la propria croce, anche quando pesa più di quanto si possa sopportare.

Che cos’è il talento, se non un dono ricevuto a caso, senza merito né giustizia? Quante volte ho meditato su questo mistero, interrogando il cielo e il silenzio, cercando risposte che mai sono arrivate.

Il talento non è frutto di virtù, non è ricompensa per l’impegno o la bontà d’animo. È un’imposizione arbitraria, una scintilla che cade su pochi, illuminando la loro vita e, paradossalmente, oscurando quella degli altri.

Dio, o qualunque cosa ci sia lassù, ha scelto Mozart. Ha voluto che questo fanciullo fosse il suo strumento, il suo messaggero. E io? A me ha lasciato solo l’invidiosa capacità di riconoscerlo, di ammirarlo e di odiarlo insieme.

Questo mondo non è giusto. È crudele e cieco, e chi ha talento spesso ne fa pessimo uso, mentre chi si sforza resta nell’ombra.

Ho osservato Mozart nella sua follia, nel suo disordine, nella sua impudenza infantile, eppure anche nella sua straordinaria innocenza. È stato il simbolo di una verità dolorosa: che il genio non si può domare, non si può comprendere pienamente, né controllare.

Eppure, come uomo, ho cercato un senso in tutto questo. Ho cercato di capire se la mia vita, segnata dalla mediocrità e dall’ossessione, potesse avere un valore.

Forse il valore sta nella lotta stessa, nel non arrendersi alla disperazione, nel continuare a cercare, a combattere, anche quando si sa di essere destinati a perdere.

La mia battaglia contro Mozart, contro Dio, contro il destino, è stata una sfida esistenziale. Una sfida a ciò che sembrava impossibile da sfidare.

E forse, in questa resistenza, in questo rifiuto dell’ingiustizia, c’è un frammento di umanità che nessuna luce divina potrà mai cancellare.

Così rimango, prigioniero della mia gelosia, ma anche custode di una verità terribile: che la grandezza non è mai senza ombra, e che la luce più pura può accecare e distruggere tanto quanto può illuminare.

Il talento è un enigma, e io sono la sua maledizione e la sua testimonianza.

La fede... una parola che un tempo mi dava forza e consolazione, ora è divenuta il crocevia della mia disperazione. Per anni ho cercato Dio con devozione, consegnando a Lui la mia vita, la mia arte, il mio essere. Ho pregato, ho sperato, ho cantato la Sua gloria. Eppure, il silenzio che ho ricevuto in cambio è assordante.

Come può un Dio giusto scegliere un bambino così sconcio, così vanaglorioso, come suo strumento? Come può permettere che un’anima semplice e devota come la mia sia condannata a soffrire nell’ombra?

Ho lottato con questa domanda fino a consumarmi. Ho sfidato il cielo, ho scagliato la mia rabbia contro il crocifisso, ho visto il volto di Dio come quello di un tiranno capriccioso.

Eppure, nonostante tutto, non posso negare che in quella musica c’è una scintilla di divino, un frammento di verità che trascende ogni umana comprensione.

Forse la fede non è tanto nella giustizia o nell’equità, ma nell’accettazione dell’enigma. Nel riconoscere che la vita è fatta di luce e ombra, di gioia e dolore intrecciati inestricabilmente.

L’artista, allora, non è un servo di Dio, né un eroe trionfante. È un pellegrino errante, condannato a camminare su un sentiero incerto, a volte illuminato da lampi di genio, altre volte immerso nell’oscurità più profonda.

La mia vita è stata questo cammino tortuoso, fatto di battaglie e rinunce, di amore e odio. Sono stato il custode di un segreto che nessuno voleva sentire: che il genio porta con sé una maledizione, e che la grandezza spesso nasce dal dolore e dall’incomprensione.

Nel silenzio delle mie notti, quando il mondo dorme e la musica tace, sento ancora quell’eco lontana, quella voce che mi chiama e mi sfida.

E capisco che, nonostante tutto, la mia esistenza non è stata vana.

Perché ogni uomo che osa sfidare il divino, che lotta con le proprie ombre, che cerca la luce nonostante la tenebra, compie un gesto di coraggio che trascende il tempo e la morte.

E così, anche nella mia sconfitta, c’è una forma di vittoria.

Una vittoria fragile, amara, ma autentica.

La luce del mattino filtra appena dalle finestre alte della cappella privata, posandosi a malapena sulle pagine ingiallite degli spartiti sparsi sul leggio davanti a me. Resto seduto, immobile, lo sguardo perso nel vuoto, mentre il ticchettio lento dell’orologio a pendolo scandisce il tempo di un’attesa che sembra non finire mai.

Le mie mani, un tempo così sicure, tremano lievemente. Gli occhi sono stanchi, assediati da notti insonni, eppure cerco dentro di me un barlume di forza che a fatica si fa largo.

Ogni giorno combatto contro un’ombra che si allunga minacciosa: ricordi, note perdute, e il fantasma di un genio che non riesco a raggiungere.

Ricordo ancora il primo istante in cui ho udito quelle note: così semplici, eppure così vive da scuotermi l’anima come un fulmine improvviso. Quell’attimo ha lasciato in me una ferita che non si rimarginerà mai.

Mozart è un riflesso accecante nella mia mente, un fantasma che offusca ogni mia conquista, ogni mia aspirazione. Quando provo a comporre, ogni suono è solo un debole tentativo di inseguire una luce che si allontana sempre di più.

Eppure, non posso arrendermi. Dentro di me arde un fuoco, una necessità insopprimibile di combattere, di esistere almeno come l’ombra fedele di un capolavoro che non sarà mai mio.

Mi alzo lentamente, lascio il leggio e mi avvicino alla finestra. Fuori, i tetti di Salisburgo sono illuminati dal sole che inizia a scaldare l’aria fredda del mattino.

In quel momento sento la cruda verità della mia esistenza: sono destinato a vivere nell’ombra, a camminare dietro a un sogno che non mi appartiene. Ma in questa condanna trovo una terribile dignità, un motivo per continuare a lottare.

Perché, in fondo, non esiste luce senza ombra.

E io, Antonio Salieri, sarò per sempre quell’ombra, fedele e irriducibile.

Ci sono momenti in cui il peso del silenzio è quasi insopportabile. Rimango solo con i miei pensieri, e allora la musica di Mozart risuona più forte che mai, un’eco che rimbomba dentro le pareti della mia mente e non si placa.

Non è solo la perfezione delle sue composizioni a ferirmi, ma la loro innocenza, la loro leggerezza così distante dalla mia realtà fatta di calcoli, di compromessi, di lotte continue. Lui scriveva come se tutto fosse facile, come se il talento fosse un gioco, un dono leggero e spontaneo. Io, invece, sentivo ogni nota come una battaglia, ogni accordo come un sacrificio.

In quei momenti mi chiedo se la mia vita avrebbe potuto prendere una strada diversa, se avessi potuto amare davvero quella musica, quella follia, senza lasciarmi consumare dall’odio e dalla gelosia.

Ma sono troppo orgoglioso, troppo ferito per accettare questa debolezza. E così continuo a convivere con questo dualismo dentro di me: amore e odio, luce e tenebra, fede e disperazione.

Ricordo una sera in cui, dopo un concerto, mi ritrovai solo nel teatro vuoto. L’eco degli applausi svaniva lentamente, ma dentro di me rimaneva un senso di vuoto e di perdita.

Pensai a quanto fosse fragile la gloria, a quanto potesse essere effimera la fama di un artista. Mozart avrebbe potuto brillare come una stella, ma anche io, nell’ombra, avevo un ruolo.

Forse la mia vera sfida non era superarlo, ma accettare che la mia arte fosse un contrappunto, una voce diversa nella stessa sinfonia.

Un contrappunto oscuro, sì, ma non per questo meno reale, meno necessario.

E così, nella solitudine di quelle notti, cercavo una pace che non arrivava, un senso che sfuggiva, ma che non smettevo di cercare.

Perché alla fine, ciò che conta non è la luce che irradiamo, ma il modo in cui scegliamo di vivere con le nostre ombre.

Ricordo una mattina d’inverno, quando la neve cadeva fitta sui tetti di Salisburgo e il freddo sembrava penetrare ogni cosa, anche l’anima. Ero nella mia stanza, intento a studiare uno spartito antico, quando sentii arrivare la notizia che Mozart aveva compiuto un altro prodigio, un’opera nuova, fresca, vibrante come il respiro della vita stessa.

Il mio cuore si strinse, eppure non potevo lasciarmi andare a un gesto di debolezza. Al contrario, mi costrinsi a un rigore severo, a una disciplina che a volte rasentava la durezza verso me stesso e gli altri. Perché quella disciplina era la mia ancora, il mio rifugio contro il caos di emozioni che mi travolgeva.

La mia vita era scandita da orari precisi, da esercizi incessanti, da una dedizione assoluta alla musica e alla fede. Non era solo una questione di volontà, ma un modo per controllare il mio mondo, per costruire una fortezza contro l’inquietudine che mi rodeva.

Ma sotto quella maschera di rigore si nascondeva un animo fragile, un uomo che tremava davanti all’incomprensibile, che temeva di perdere il controllo, di crollare di fronte a quel talento che lo metteva in ombra.

Eppure, quella stessa fragilità alimentava la mia rabbia, trasformandola in un fuoco che bruciava lentamente, consumandomi dall’interno. La disciplina diventava allora un’arma a doppio taglio: necessaria per sopravvivere, ma anche un modo per punirmi, per tenere a bada quella gelosia che minacciava di esplodere in un urlo.

Ricordo che spesso mi isolavo, rifugiandomi nelle ore più tarde della notte per lavorare da solo, cercando nella musica una via di fuga e insieme una forma di resa. In quei momenti, la mia mente oscillava tra la venerazione per Mozart e un desiderio feroce di distruggere quella perfezione che mi schiacciava.

E così, mentre il mondo applaudiva il genio, io combattevo una guerra silenziosa, fatta di sacrifici, rimpianti e promesse infrante.

Quel giorno d’inverno, mentre la neve continuava a cadere e il freddo si faceva più intenso, capii ancora di più che la mia esistenza sarebbe stata per sempre divisa tra luce e ombra, tra fede e rivolta, tra l’uomo che volevo essere e quello che ero destinato a diventare.

La corte di Salisburgo era un teatro di luci e ombre, un luogo dove l’arte e la politica si intrecciavano con le ambizioni personali e le gelosie nascoste. Io ero al centro di quel mondo, rispettato, lodato, ma sempre in bilico tra l’essere uomo e l’essere artista, tra la mia identità e il ruolo che mi era stato assegnato.

Spesso sentivo il peso delle aspettative, non solo della nobiltà ma anche della chiesa, che vedeva in me un modello di virtù e disciplina. Dovevo essere il custode della musica sacra, l’interprete fedele della volontà divina attraverso le note.

Eppure, dentro di me, ribolliva un conflitto irrisolto. Da una parte, la devozione e la fedeltà a un ideale di perfezione e ordine; dall’altra, un desiderio insopprimibile di libertà e autenticità, che vedevo incarnato in Mozart, con la sua musica che sfidava ogni regola e ogni convenzione.

La corte era anche un palcoscenico di apparati e convenienze, dove le parole spesso nascondevano significati diversi e le amicizie potevano trasformarsi in tradimenti. Imparai presto a muovermi con cautela, a dosare sorrisi e silenzi, a celare le mie emozioni dietro un velo di compostezza.

Col passare degli anni, il mio corpo cominciò a tradirmi. Le dita che una volta scorrevano leggere sulla tastiera del clavicembalo si facevano più rigide, i riflessi più lenti. La mente, tuttavia, restava vigile, tormentata dal ricordo di un passato che non poteva essere cancellato.

La vecchiaia portava con sé un senso di solitudine profonda, un distacco dal mondo che avevo conosciuto e amato. Vedevo i giovani artisti salire alla ribalta, portando nuove idee e suoni, mentre io mi ritiravo sempre più nell’ombra, custode di un’eredità che sembrava svanire.

La morte, allora, non era più una parola lontana o una minaccia, ma una presenza costante. Pensavo spesso a come avrei voluto essere ricordato, se mai qualcuno avrebbe ascoltato davvero la mia storia, al di là del mito e della leggenda.

E in quei momenti di silenzio, tra le pieghe del tempo che scivolava via, capivo che la mia vita era stata un intreccio di luce e oscurità, di amore e odio, di fede e ribellione.

Che forse, in fondo, la vera arte non è solo quella che illumina il mondo, ma anche quella che nasce dall’ombra, che racconta il dolore e la fragilità nascosti dietro ogni nota.

Così, mentre il mio respiro si faceva più lieve e la luce del giorno si affievoliva, trovavo una strana pace in questa consapevolezza.

Non ero il genio, né il santo. Ero solo un uomo, con le sue contraddizioni, le sue passioni e i suoi limiti.

E in questa umanità fragile, forse, risiedeva la vera grandezza.

Nella quiete di questa stanza antica, avvolta dal tenue chiarore di una candela che vacilla, lascio scivolare le dita sulle corde di un violino che ha conosciuto più solitudini che applausi. Qui, dove il tempo si piega e si dissolve, il mio spirito si ferma a contemplare la trama di una vita consumata tra desideri, rimpianti e un’eterna, irrisolta lotta con il destino.

Ho cercato nella disciplina la mia salvezza, nella devozione la mia ragione, ma sono stato soprattutto l’ombra di una luce impossibile da raggiungere. Lui, il bambino prodigio, il genio indomito, ha scolpito la sua musica con la leggerezza di chi ignora il peso del mondo, mentre io combattevo contro me stesso, contro un rancore che bruciava sotto la superficie di ogni nota che scrivevo.

Eppure, non c’è odio più profondo di quello che ama, e non c’è tenebra senza desiderio di luce.

Accetto ora il mio destino con la pace che soltanto la verità può donare: che la mia vita è stata, in fondo, un contrappunto essenziale nella grande sinfonia del tempo. Non l’eroe, non il trionfatore, ma l’uomo che ha amato e odiato, che ha sofferto e resistito.

La mia voce, forse flebile e nascosta, resterà come eco di un’anima fragile ma autentica, testimone di ciò che significa vivere con le proprie ombre e trovare, infine, una propria luce.

Così mi lascio andare, con la consapevolezza che ogni esistenza è un racconto unico e irripetibile, un intreccio di ombre e luci, di cadute e riscatti.

E che, in questo mistero, risiede la vera grandezza dell’essere umano.