È quasi poetico, in un modo triste: i documenti europei sono pieni di grafici colorati, tabelle ordinate, acronimi altisonanti e paroline in bold come “resilienza”, “sostenibilità”, “trasparenza”, “equità”, “governance responsabile”. Ogni parola è scelta con cura, ogni frase sembra promettere un futuro luminoso. Eppure, nella pratica, questi stessi documenti servono più a giustificare azioni future che a guidarle concretamente. Non stupisce che, nonostante questa abbondanza teorica, l’Europa resti spesso spettatrice, o peggio, cliente pagante di servizi e infrastrutture tecnologiche di giganti extraeuropei come AWS, Azure o i colossi cinesi. Siamo spettatori paganti in un teatro in cui gli altri scrivono il copione, dirigono la scena e vendono i biglietti mentre noi restiamo seduti, applaudendo educatamente, sperando di capire qualcosa.
La cosa più surreale è che il dibattito pubblico sull’IA è quasi sempre confinato a un livello fiabesco: “opportunità vs rischi”, “benefici vs pericoli”, “etica vs innovazione”. Tutto molto elegante, molto da salotto accademico, perfetto per conferenze stampa e convegni, ma incredibilmente inefficace nel rispondere alla domanda fondamentale: che Europa vogliamo costruire? E con quali strumenti concreti? Tu e Iddù avete colto il punto essenziale: senza indicare un modello di sviluppo, senza definire priorità chiare e azioni concrete, tutte le raccomandazioni rischiano di diventare aria fritta, un gioco di prestigio retorico che maschera l’assenza di strategia reale.
E allora appare il paradosso più amaro: l’UE ha capacità teoriche straordinarie. Sa diagnosticare problemi, creare linee guida, definire standard tecnici con una precisione quasi chirurgica. Ma nel momento in cui si tratta di applicare queste conoscenze, l’azione concreta si dissolve. AWS e Azure, i colossi tecnologici americani, e i giganti cinesi, con le loro filiere integrate e il supporto statale, capitalizzano i ritardi europei. Noi restiamo spettatori, o peggio: clienti paganti di infrastrutture strategiche altrui. È come se l’Europa dicesse: “Sì, ci interessa l’IA, sì, è importante, ma aspettiamo che qualcun altro faccia il lavoro duro e noi ne usufruiamo dopo, pagando il biglietto d’ingresso.” Solo che il biglietto non è economico: interi mercati, dati strategici, know-how e competenze scivolano via mentre noi stiamo a scrivere linee guida bellissime su carta.
E qui entra in scena il “patto civico-industriale” di Iddù, che ribalta questa logica passiva: propone un’Europa che smette di inseguire e comincia a decidere, a tracciare la propria strada. Non più spettatrice, non più passiva, non più dedita all’arte del fumo negli occhi. Ma un’Europa che indirizza risorse strategiche verso infrastrutture di calcolo pubblico, verso ricerca mission-driven, verso standard aperti e interoperabili, verso filiere hardware e software europee ma collaborative. Un’Europa in cui la Pubblica Amministrazione diventa un anchor customer intelligente, dove i dati e i modelli non sono proprietà esclusiva dei giganti, ma patrimonio comune, accessibile, sicuro e regolato. È un’Europa in cui il pluralismo competitivo non è un concetto astratto da policy paper, ma una pratica concreta, con incentivi per PMI, università, centri di ricerca e startup.
E mentre il mondo accelera, mentre Cina e USA consolidano vantaggi tecnologici e mercati, l’Europa rischia di restare intrappolata in un circolo vizioso: diagnosticare con precisione, avviare processi partecipativi triennali, consultazioni su consultazioni, paper su paper… e nel frattempo lasciare che il futuro si costruisca altrove, con noi solo come spettatori paganti. Una sequenza quasi kafkiana: giorni, mesi, anni di discussioni, analisi, comitati e task force, con un unico risultato certo: il tempo scorre e il vantaggio competitivo svanisce. E tutto questo condito da una narrativa perfetta, con paroline in grassetto e slide dai colori rassicuranti, mentre i mercati europei si svuotano e le opportunità volano altrove.
La retorica europea è straordinaria nel creare un senso di sicurezza e legittimità: “resilienza”, “sostenibilità”, “trasparenza”. Termini splendidi, utilissimi da mettere in grassetto nei documenti ufficiali e nelle presentazioni. Peccato che spesso siano incapaci di generare cambiamento reale. Così, mentre la Commissione produce libri bianchi eccellenti, la pratica quotidiana resta quella del “lasciare sedimentare”, cioè aspettare, procrastinare, non rischiare nulla, sperando che la saggezza collettiva o la fortuna colmino il gap competitivo. Il risultato? Il tempo di attesa sull’IA generativa si traduce in interi mercati persi, in know-how che lascia il continente, in talenti che guardano altrove. Il tutto mentre la diavolina brucia lenta, simboleggiando i ritardi europei e le occasioni perse.
Se davvero vogliamo parlare di modello europeo, non possiamo più accontentarci di “opportunità vs rischi”. Serve un’Europa attiva, capace di guidare ricerca e sviluppo, creare standard aperti, promuovere pluralismo competitivo, governare i dati come bene comune e usare la PA come leva strategica. Senza questa visione chiara, restiamo intrappolati nel paradosso: eccellenza teorica, immobilismo pratico. Il futuro ci sfugge, i mercati fioriscono altrove, e noi restiamo a scrivere linee guida bellissime, ma sostanzialmente inutili.
E in tutto questo, naturalmente, la diavolina continua a bruciare: non è solo metafora, ma il simbolo del tempo che passa senza azione, delle opportunità che evaporano, della competizione globale che ci sorpassa. Interi mercati europei scivolano via, competenze e talenti migrano altrove, infrastrutture strategiche restano in mano a soggetti esterni, e noi restiamo spettatori paganti di un futuro che non abbiamo costruito.