lunedì 4 agosto 2025

Hangar per un Michelangelo che non c’è

Che bello vivere in un Paese che ha avuto Michelangelo.
Non lo celebriamo costruendo, creando, rischiando: no, noi importiamo.
La parola magica è mostra internazionale: pronunciala davanti a un microfono, e l’Italia sembra già un laboratorio globale di cultura. Poi scopri che la “grande operazione” consiste nell’esporre il maestro cinese Wang Yancheng alle Gallerie dell’Accademia. Un gesto così audace che Michelangelo, se potesse, si alzerebbe dalla tomba per chiedere: “Scusate, avete finito la fantasia?”.

Eccoci qui: Firenze, centro del Rinascimento, città che letteralmente ha insegnato al mondo a scolpire la pietra e a dipingere la carne, oggi preferisce riciclarsi come showroom globale. Non più culla della civiltà, ma una specie di aeroporto culturale dove atterrano prodotti premium della scena internazionale, rigorosamente sterilizzati per non turbare nessuno. È un po’ come se, per celebrare Dante, si organizzasse un convegno di influencer della metrica giapponese.

La proposta scandalosa

Chiamate Anselm Kiefer.
Sì, proprio lui: quello che lavora con piombo, cenere e la memoria del mondo; quello che fa sembrare la Storia un’enorme ferita. Dategli un hangar. O una cattedrale sconsacrata, poco importa. Lasciategli mano libera per creare la Cappella Sistina del XXI secolo: un’opera totale, immensa, definitiva. Non un’installazione temporanea da mostra catalogabile, ma un atto di fede nella capacità dell’arte di riscrivere lo spazio e il tempo.

E non venite a dire che Kiefer l’ha già fatto al Palazzo Ducale di Venezia: quella era una parentesi, un fulmine a ciel sereno che ha scosso per qualche mese e poi è sparito, come un sogno disturbante. Io parlo di un’opera permanente, di un luogo che costringa chiunque entri a chiedersi: “Questo è ancora il mio mondo?”.
È così che si onora Michelangelo. Con il rischio, con la vertigine, con il coraggio di trasformare un luogo in un’esperienza irreversibile.

Ma no, l’Italia preferisce Wang Yancheng

Per carità, bravo artista, curriculum rispettabile, pennellata elegante. Ma davvero questo è il nostro modo di dialogare con Michelangelo? È come celebrare Maradona proiettando un tutorial di calcetto. È un’estetica neutra, pulita, già pronta per essere condivisa su Instagram senza creare imbarazzi, senza provocare crisi di coscienza, senza lanciare sassi nello stagno.

Noi italiani abbiamo inventato la prospettiva, la cupola, la figura umana come tensione divina, e ora sembriamo incapaci di concepire qualcosa di grande. Ci limitiamo a importare ciò che è già confezionato per il mercato globale. “Mostra internazionale” è la nuova cocaina: ti dà l’impressione di essere al centro del mondo mentre, in realtà, stai solo vendendo biglietti a turisti annoiati.

L’arte come duty free

Ecco l’arte italiana del presente: un duty free culturale. Entri, guardi, compri un gadget e te ne vai. Nessun rischio, nessun trauma, nessun progetto folle che ti costringa a ripensare chi sei. Michelangelo aveva il coraggio di farsi odiare e venerare nello stesso giorno; oggi noi abbiamo paura perfino di far storcere il naso a un addetto stampa.

Conclusione: ridateci la vertigine

Non voglio Wang Yancheng come simbolo del dialogo con Michelangelo.
Voglio un’opera che faccia tremare le fondamenta, che ti faccia uscire stordito e cambiato, un atto di potenza poetica che solo un artista come Kiefer può dare. Un hangar, una cattedrale, uno spazio immenso e grezzo da riempire di piombo e memoria.

Finché non faremo questo, potremo pure vantare “mostre internazionali” e “grandi eventi”, ma sarà tutta scena: un Rinascimento da cartolina, una celebrazione in cui Michelangelo non è un faro, ma un marchio da sfruttare.

La verità?
Michelangelo non si onora con un prestito cinese.
Michelangelo si onora costruendo un nuovo trauma estetico.
E quello, scusate, non lo si fa con una mostra patinata.