sabato 2 agosto 2025

Il pasto nudo è una cianografia, un libretto di istruzioni per l’uso.

Ma per l’uso di cosa? Di un corpo che si decompone? Di una mente che si espande a forza d’ago? Di una lingua che si disgrega fino a diventare tossina? Burroughs non costruisce un mondo, lo corrode. Non si serve della narrazione per aprire finestre sulla realtà, ma per dissolvere i muri stessi che tengono insieme la rappresentazione. Il suo universo è una guerra semantica, un campo magnetico dove ogni parola è una mina e ogni frase una detonazione.

"Il pasto nudo" non è un romanzo, è un tessuto neuronale infestato, un sistema nervoso disconnesso ma vivo. La sua forma è la frattura, il suo ritmo è la convulsione. Non ci sono trame, ci sono scosse. Non c’è sviluppo, ma deriva. La scrittura si affida a un cut-up che non è solo tecnica, ma pratica politica e linguistica: tagliare, rimontare, sabotare la linearità — e con essa il controllo. Il cut-up è il montaggio deviato, la rimozione chirurgica dell’illusione. Non produce senso, ma apertura: un’apertura nella carne del linguaggio.

Burroughs è uno scienziato della catastrofe percettiva. Ci mostra la carne disorganizzata del discorso. Il suo libro è un laboratorio in cui si fabbricano tossine, virus, allucinazioni. Ogni pagina è un'iniezione. Ogni frase è un ago. Leggerlo è come essere sottoposti a un esperimento: lo scopo non è la guarigione, ma la mutazione. Ogni parola porta con sé il rischio di un collasso sintattico, un cortocircuito cognitivo.

L’Interzona non è un altrove: è l’interno corrotto della coscienza. Non è un luogo da esplorare ma una condizione da subire. Burroughs la concepisce come un campo d’esperienza dove i significati si sciolgono e le identità si contaminano. Nella Interzona, le categorie collassano: maschile e femminile, vita e morte, macchina e organismo, piacere e tortura, diventano indistinguibili. È un luogo poroso, dove ogni distinzione è una menzogna, dove l’organico e l’inorganico si ibridano, dove il reale è solo una delle tante droghe disponibili sul mercato.

E il sentimento? Che ne è dell’affetto, dell’amore, dell’intimità? Burroughs non li nega, ma li mostra svuotati, depotenziati, brutalizzati. I sentimenti sono postumi, sopravvivenze parassitarie. Amore, compassione, empatia: parole che giacciono come organi asportati, freddi, abbandonati in una vasca d’acciaio. Se il sentimento sopravvive, lo fa come sintomo, come fumo residuo dopo l’incendio neuronale. La scrittura non consola, disinfetta. Le emozioni non si raccontano, si osservano come si osserva una ferita infetta che non smette di suppurare.

Burroughs non cerca di commuoverti, cerca di sradicarti. Il lettore non è chiamato a identificarsi con un personaggio, ma a perdere i propri confini. A essere riscritto dal testo. L’io, il tu, il lui: pronome e persona si smarginano, si fondono, si disintegrano in un flusso verbale che simula la mente sotto droga, sotto tortura, sotto programmazione. La dissoluzione dell’identità è il primo passo verso la liberazione: ma è una liberazione che ha il sapore della malattia, della crisi epilettica, della cancellazione.

Le giostre di Burroughs non divertono. Sono meccanismi psicotropi, dispositivi di alterazione semantica. Assomigliano ai marchingegni di un Luna Park distopico, dove al posto dello zucchero filato c'è la carne in decomposizione, e al posto dei clown ci sono operatori del controllo mentale. Le giostre ruotano sul vuoto, si avvitano attorno a un buco nero. Sono ossessive, ripetitive, ipnotiche. Girano e rigirano, sempre più in fretta, fino a farti vomitare fuori ogni certezza. Ogni attrazione è un esperimento di deprogrammazione. Non ti divertono: ti sfiniscono.

Il Controllo non ha una sede, ma un campo di azione. Non è un dittatore, è una funzione. Una logica. Una grammatica. Penetra attraverso la lingua, si installa nel codice. Il suo obiettivo non è punire, ma plasmare. Non eliminare, ma deviare. Burroughs lo rappresenta come una forza metastorica, un virus simbolico. La sua arma è la parola. Il verbo. È nel protocollo, nella burocrazia, nel linguaggio delle istituzioni. È nell’abitudine a nominare, a categorizzare, a ridurre.

Non a caso, il Controllo si annida nel verbo essere. Lì dove si definisce, si determina, si fissa. "Essere" è la trappola suprema: cristallizzare un'identità, congelare il flusso. Burroughs sogna una lingua che non sia, ma che divenga. Una lingua che fugga dal carcere dell'essere, che scivoli, che infetti, che muti. La sua sintassi è anfibia, attraversa i confini. Ogni enunciato è un residuo, non una dichiarazione. Ogni verbo è un inganno, un veicolo per l’invasione.

Le meduse di Burroughs non fluttuano nell'acqua, ma nei sistemi. Sono archivi mobili, dispositivi traslucidi di monitoraggio. Non bruciano per autodifesa, ma per sadismo burocratico. La loro bellezza è ingannevole, la loro consistenza è vischiosa, il loro veleno è la standardizzazione. Invece di nuotare, schedano. Invece di muoversi, sorvegliano. La medusa diventa simbolo perfetto di una sorveglianza che si finge naturale. Il loro movimento è un linguaggio criptato. Ogni filamento è una fibra ottica, ogni impulso una scheda clinica. Sono la pelle liscia del dominio.

In questo paesaggio mutante, la conoscenza è una trappola. Non si raggiunge mai, si rincorre. Ogni sapere è contaminato, ogni evidenza è un’illusione di stabilità. Il linguaggio stesso è un veicolo di delirio. Il sapere si dissolve nella stessa misura in cui viene espresso. Ogni concetto si scompone in immagini, ogni immagine si frantuma in impulsi. Burroughs non cerca la verità: cerca la disintegrazione dell'illusione. Conoscere è diventare sintomo. Interpretare è essere risucchiati nel testo come in una sostanza psicotropa.

Posticcio, allora, è parola chiave. Non solo come artificio, ma come filosofia. Burroughs lavora sul simulacro, sulla protesi, sulla menzogna operativa. Il suo linguaggio è costruito male, volutamente. Per sabotare l'adesione del lettore. Per produrre inciampi, cortocircuiti. Il testo diventa una trappola semiotica, una macchina rotta che funziona solo attraverso l'errore. Non si finge realistico, si dichiara fallace. Il suo scopo non è rappresentare, ma corrompere.

Lessicalmente, siamo in un territorio inquinato. Lo slang urbano si mescola con il linguaggio medico, la pornografia con la terminologia militare. Il lessico è un campo di battaglia. Non si purifica, si sporca. Ogni parola si fa oggetto contundente, scheggia infetta. Il lettore viene trafitto, contaminato. Nessun lemma è innocente. Il dizionario è un cimitero in cui le parole tornano a vivere sotto forma di larve. È un lessico di frontiera, parlato da creature che hanno perso la specie e guadagnato la malattia.

La parola diventa atto biologico. E il gesto più elementare, l’orinare, si carica di potenza simbolica. È gesto di disprezzo, marchio di anarchia. In Burroughs, il corpo non si nobilita: espelle, contamina, reagisce. L'urina è linguaggio corporeo. Scrive sul mondo con acido. Cancella con i liquidi. È il contrario della firma calligrafica: è traccia chimica. È linguaggio di rottura. È poesia caustica. È semiotica organica.

E allora, Rilke? Perché citarlo? Perché Burroughs e Rilke stanno alle estremità di un ponte. Uno è il poeta della forma, l’altro della dissoluzione. Ma entrambi cercano l’invisibile. Solo che Rilke lo avvicina con reverenza, Burroughs con violenza. Rilke ascolta, Burroughs strappa. Rilke prega in silenzio, Burroughs urla sezionando. Entrambi mistici, ma di due mistiche incompatibili. Uno cerca l’angelo, l’altro l’allucinazione. Uno teme la trasformazione, l’altro la invoca come virus.

E le farfalle, infine? Simbolo fragile per eccellenza. In Rilke, sono trasfigurazioni della grazia. In Burroughs, diventano spie tossiche, trappole estetiche. Non conducono alla luce, ma alla mutazione. Non sono resurrezione, ma contaminazione genetica. Fragili, sì — ma fragili come vetri taglienti. Bellezze radioattive. Ala sottile, puntura mortale. Non fioriscono: infettano. Non evocano la libertà, ma l’instabilità della carne che muta.

Il pasto nudo è dunque questo: un test psicotropo, un esercizio di sabotaggio, un virus stampato su carta. Non va letto per capire, ma per essere infettati. Non va interpretato, ma assunto. Ingerito. Lasciato agire. Il lettore ideale di Burroughs non è il critico, ma il mutante. Chi ha già rinunciato alla coerenza, alla purezza, alla forma. Chi accetta di essere riscritto, smontato, messo in cortocircuito. Chi si lascia portare al limite del significato e oltre.

Non è letteratura. È biochimica semiotica. Non è un romanzo. È un dispositivo. Non si legge. Si subisce. Non si finisce. Si cronicizza.