L’affermazione di Gérard-Georges Lemaire secondo cui William S. Burroughs e James Joyce sarebbero tra gli autori moderni più inclini al plagio è di per sé provocatoria, e come tale deve essere letta nel contesto della teoria letteraria e della critica radicale. Lemaire non intende avanzare un’accusa legale: il plagio qui non è sinonimo di illecito, ma di pratica di riuso radicale del testo altrui, tecnica che diventa forma di creazione autonoma. Questa affermazione, in apparenza scandalosa, pone una domanda centrale sulla modernità: che valore ha l’originalità se l’opera d’arte si nutre costantemente di ciò che già esiste? E cosa significa essere autore in un contesto dove la scrittura stessa è frammentaria, stratificata o casualmente combinata?
In entrambe le poetiche, appropriarsi di materiali preesistenti significa interrogare il concetto stesso di autorialità e la struttura della scrittura. Nel caso di Joyce, il riuso è cosciente, metodico, stratificato; nel caso di Burroughs, esso è radicale, anarchico, spesso casuale. Entrambi però, attraverso approcci diversi, spingono i confini della letteratura moderna, ridefinendo il rapporto tra autore, testo e lettore. L’obiettivo di questo saggio è esplorare come Joyce e Burroughs abbiano operato questa rivoluzione, analizzando il concetto di plagio e appropriazione, l’uso creativo di testi preesistenti e il quadro interpretativo proposto da Lemaire.
Il termine “plagio” evoca oggi una violazione del diritto d’autore, una sottrazione intenzionale di opere altrui spacciandole per proprie. Nella letteratura moderna, tuttavia, l’appropriazione di materiale esistente si configura spesso come un atto creativo, un gesto di trasmutazione del testo altrui in nuovo significante. La distinzione tra plagio, citazione, intertestualità e appropriazione è fondamentale: citare significa fare esplicito riferimento a un testo, spesso per stabilire una continuità culturale o accademica; l’intertestualità implica dialogo e stratificazione, la presenza consapevole di riferimenti che si moltiplicano e si intrecciano; l’appropriazione radicale consiste nel trasformare il materiale preesistente in un’esperienza estetica nuova, in un testo che vive autonomamente pur nascendo da altri testi.
Per la letteratura moderna, questa distinzione è cruciale: la rottura con la tradizione lineare e la concezione romantica dell’originalità come creazione ex nihilo impone una ridefinizione dell’autore. L’autore moderno non è più creatore assoluto di forme, ma mediatore, alchimista, tessitore di materiali preesistenti. Joyce e Burroughs incarnano questo paradigma, seppur con modalità diverse. In entrambi, il testo non è mai chiuso, statico o definitivo: è un campo di possibilità, un organismo in continuo mutamento.
La teoria letteraria contemporanea ha spesso discusso queste pratiche con termini differenti: Harold Bloom, con la sua teoria dell’ansia dell’influenza, vede l’autore moderno come un soggetto costantemente in tensione con i predecessori; Michel Foucault, in Che cos’è un autore?, introduce la funzione-autore come elemento di organizzazione del discorso più che come creatore assoluto. Entrambi i riferimenti aiutano a comprendere come il concetto di plagio possa essere riletto in chiave estetica, non legale.
James Joyce rappresenta il massimo esempio di intertestualità radicale. In Ulysses, l’autore intreccia fonti classiche, mitologiche, letterarie e storiche, creando un tessuto inestricabile di riferimenti. Ogni episodio dialoga con testi antichi, canzoni popolari, testi religiosi, racconti mitici e opere contemporanee. Per esempio, l’episodio "Telemachus" richiama apertamente l’Odissea di Omero, non come copia, ma come struttura narrativa che Joyce trasforma in una geografia urbana di Dublino, popolata da personaggi realistici e contemporanei. La costruzione narrativa di Joyce implica una trasformazione radicale dei modelli preesistenti, in modo che la loro funzione originaria venga rielaborata in chiave moderna, psicologica e linguistica.
In Finnegans Wake, Joyce porta la pratica dell’appropriazione a un livello ancora più estremo. Il linguaggio stesso è un tessuto di citazioni e fonemi tratti da lingue diverse, rielaborati per generare significati stratificati, spesso ambigui e polisemici. L’intera opera diventa una gigantesca rete di risonanze culturali, in cui ogni parola evoca e trasforma riferimenti precedenti. Ogni neologismo, ogni gioco fonetico è al tempo stesso originale e derivativo: Joyce “ricicla” il mondo, la lingua e la storia, e lo fa diventare un organismo vivente e mutante, dove la voce narrativa è multipla, stratificata e in dialogo continuo con la tradizione.
La tecnica joyciana è dunque un esempio perfetto di appropriazione consapevole: non esiste plagio in senso legale, poiché la trasformazione operata è completa, creativa, e produce un testo che vive autonomamente rispetto alle fonti. Joyce non copia per mera ripetizione: trasforma, stratifica, crea nuovi livelli di significato. In questo senso, l’appropriazione è strumento di invenzione linguistica e di indagine psicologica: la città, la storia, la mitologia e la lingua diventano materia narrativa da plasmare.
William S. Burroughs opera in un contesto radicalmente diverso, ma con principi analoghi: il riuso del materiale esistente diventa strumento creativo e politico. Il metodo del cut-up consiste nel tagliare testi (giornali, romanzi, pubblicità, corrispondenze) e ricombinarli secondo schemi spesso casuali, creando nuove strutture narrative e percorsi linguistici inaspettati. In Naked Lunch, i testi preesistenti non sono citati: sono trasformati, frammentati, ricombinati in modo che diventino indistinguibili dalla voce dell’autore.
Burroughs non cerca coerenza narrativa tradizionale: la frammentazione diventa linguaggio, significato e percezione. Il cut-up destabilizza la linearità, mette in discussione l’autorità dell’autore e la stabilità del testo, trasformando la scrittura in esperienza fisica e mentale per il lettore. Testi pubblicitari, articoli di giornale e romanzi vengono smembrati e ricomposti in sequenze che producono un effetto di straniamento radicale: ogni frase è potenzialmente nuova, pur nascendo da materiali preesistenti.
Questa pratica si colloca in una tradizione critica e filosofica che mette in discussione il concetto di proprietà del testo e l’autorialità. Burroughs esplicita spesso nelle sue interviste e nei saggi teorici come la scrittura debba liberarsi dalle regole convenzionali: il cut-up non è solo tecnica letteraria, ma gesto politico, atto di ribellione contro la logica del controllo sociale e del potere linguistico. In questo senso, il plagio diventa provocazione estetica: appropriarsi significa trasformare, creare caos fertile, destabilizzare e reinventare il linguaggio.
Gérard-Georges Lemaire, con la sua affermazione sul plagio, non intende condannare Joyce e Burroughs, ma evidenziare la radicalità della loro pratica di riappropriazione. Nei suoi scritti, come in Le Colloque de Tanger, Lemaire analizza la scrittura di Burroughs e Joyce come fenomeni di appropriazione, dove il testo preesistente diventa materia prima da modellare e trasformare.
Lemaire insiste sul fatto che, in entrambe le poetiche, l’autore si pone non come creatore ex nihilo, ma come operatore di trasformazioni, che manipola e reinventa il materiale altrui fino a renderlo irriducibile alla fonte originaria. In questa prospettiva, il plagio diventa concetto critico: è simbolo della modernità estrema, in cui il valore del testo non risiede più nell’originalità assoluta, ma nella capacità di trasformazione, reinterpretazione e rielaborazione.
Il critico francese mette in evidenza anche la dimensione etica e politica della scrittura: appropriarsi non è copiare, ma sottolineare l’idea che il testo appartiene alla comunità culturale e che l’autore moderno è co-creatore di una memoria collettiva, attraverso il filtro della propria sensibilità estetica.
Joyce e Burroughs condividono l’ossessione per la trasformazione del materiale preesistente, ma le differenze sono marcate. Joyce accumula, stratifica e costruisce un linguaggio complesso, polifonico e ricco di rimandi; Burroughs scompone, frantuma e riorganizza con casualità, generando un effetto di straniamento e destabilizzazione radicale. Joyce cita e rielabora con controllo, Burroughs taglia e rimonta con anarchia. Joyce ordina il mondo per renderlo comprensibile attraverso la complessità; Burroughs rompe il mondo per far emergere nuove possibilità linguistiche e percettive.
Eppure entrambi interrogano il concetto di autore e il valore della singola opera: il testo non è più un oggetto chiuso, ma campo di possibilità infinita, organismo vivo e mutevole. La provocazione di Lemaire ha senso perché pone questi due autori sullo stesso piano teorico: in entrambi, la questione non è il plagio legale, ma l’appropriazione come gesto creativo e radicale, capace di riscrivere il mondo attraverso il linguaggio.
L’uso di materiali preesistenti da parte di Joyce e Burroughs porta a riflettere su questioni fondamentali della modernità: l’originalità non consiste più in creazione ex nihilo, ma in trasformazione e reinterpretazione. L’autore non è più detentore di un messaggio stabile, ma intermediario tra la memoria culturale, la lingua e l’esperienza del lettore.
L’appropriazione radicale diventa principio estetico e filosofico: destabilizza, provoca e apre nuove possibilità di lettura. Joyce lo fa attraverso la stratificazione polifonica, Burroughs attraverso la frantumazione anarchica; entrambi mettono in crisi il concetto di testo chiuso e definitivo. Dal punto di vista culturale, questa pratica ridefinisce la nozione di comunità letteraria e di memoria collettiva: il testo diventa terreno di confronto, dialogo e metamorfosi.
La provocazione di Lemaire funziona anche come stimolo per riflettere sul ruolo del critico: il lavoro di analisi non consiste solo nel giudicare la forma o la moralità dell’autore, ma nel comprendere come il testo interagisca con la storia culturale, con le fonti e con i lettori, aprendo nuove prospettive interpretative.
L’affermazione di Gérard-Georges Lemaire, per quanto provocatoria, rivela un aspetto fondamentale della letteratura moderna: l’uso radicale di materiali preesistenti come strumento di innovazione. Joyce e Burroughs non plagiano in senso legale; trasformano ciò che esiste, interrogano la funzione dell’autore e il concetto di originalità, e creano testi in continua tensione tra memoria e invenzione.
Parlare di plagio, nel loro caso, significa riconoscere la forza rivoluzionaria della scrittura: una scrittura che sfida le convenzioni, ricompone il mondo e trasforma l’esperienza del lettore. Joyce e Burroughs insegnano che ogni testo è al tempo stesso riferimento e creazione, memoria e innovazione, appropriazione e invenzione. Lemaire coglie in questa pratica la radicalità della modernità: la scrittura non è mai neutra, ma gesto creativo che riscrive il mondo attraverso la lingua, l’intertestualità e il caos.
Il plagio diventa un atto estetico, politico e filosofico: non una colpa, ma una strategia di esplorazione del linguaggio e della percezione. Joyce e Burroughs, pur con modalità diverse, incarnano la tensione estrema della modernità: il testo non appartiene più solo all’autore, ma diventa spazio di trasformazione infinita, laboratorio di linguaggio e memoria, sfida continua alla tradizione e alla linearità narrativa.