Il sapere che non si dice. Freud, il Faust, l’inconscio e l’innominabile
«Tanto quel che sai meglio / Non puoi dirlo ai tuoi alunni».
(Margherita a Faust, Goethe)
1. Introduzione: una frattura epistemologica
Il verso di Goethe, posto in bocca a Margherita nella seconda parte del Faust, si erge come uno dei fulcri enigmatici su cui si innesta una lunga riflessione sul sapere, sul silenzio e sull’ineffabile. È, a tutti gli effetti, una battuta rivelatrice che – come osservato da diversi lettori tra cui lo stesso Freud – squarcia il velo tra il sapere codificato e l’altro sapere, quello che si sottrae alla trasmissione, che non può essere insegnato, se non attraverso i suoi sintomi, le sue fratture, i suoi fantasmi.
Sigmund Freud, che riconobbe nel Faust non solo un'opera di poesia ma una vera e propria drammaturgia dell’inconscio, colse in quel frammento una verità che si sarebbe imposta con crescente forza nei suoi scritti: esiste un sapere che non si può dire. Questo sapere è ciò che meglio si sa, e tuttavia resta fuori dalla portata dell’insegnamento, della sistemazione, della pedagogia razionale. Non è un sapere ignorato: è un sapere censurato, impronunciabile, originariamente scisso.
Nel nostro tempo, in cui la parola sembra spesso dominare l’intero campo del visibile, questo non-detto ritorna come il cuore oscuro della soggettività. Esso, come ha scritto Lacan, è “ciò che opera nel reale” pur non potendo essere integrato nell’ordine simbolico se non attraverso una perdita, una manomissione, una ferita. In questa linea, il passo goethiano si può intendere come una soglia: tra la rappresentazione e il trauma, tra l’Io e l’Altro, tra il linguaggio e l’oscuro fondo prelinguistico che lo abita.
2. L’inconscio come risposta al non trasmissibile
Per Freud, il concetto di inconscio non fu semplicemente una scoperta psichiatrica: fu un atto epistemologico e filosofico. Il sapere che non si può dire – e che tuttavia struttura l’esperienza umana – divenne per lui l’oggetto di una costruzione teorica destinata a riformulare i confini della soggettività. La psicoanalisi, in questo senso, nasce esattamente dal gesto di istituzionalizzazione di questo sapere ineffabile: ciò che Freud definì come “inconscio” è, nei suoi termini, ciò che non si dice, eppure si manifesta; ciò che non si conosce, ma agisce; ciò che non si trasmette, e tuttavia si eredita, si ripete, si incarna nei sintomi.
Il verso di Goethe, nella sua semplicità apparente, racchiude una struttura profondamente psicoanalitica: “Quel che sai meglio” è, in effetti, il sapere più intimo e insieme il più rimosso; è ciò che Freud cercò nei sogni, negli atti mancati, nei lapsus, nei tic, nella nevrosi: il sapere dell’inconscio. La risposta di Margherita – figura liminale, creatura insieme angelica e infera – è il sigillo su questa verità. Non è Faust a dirla. È Margherita a vederla, a nominarla, a tradirla in parola. È la donna – la figura femminile –, in questa accezione archetipica, a farsi soglia, oracolo del non detto.
3. La modellazione dell’inconscio: oscurità, interdizione e manomissione
Il testo da cui si muove questa analisi evoca con forza un’immagine: l’inconscio che si rimodella nell’Oscurità. È un’immagine straordinariamente potente, perché rovescia la retorica della luce della ragione e propone un’altra logica: quella del mutamento sotterraneo, della deformazione continua, della verità che si forma al buio, nei meandri della psiche.
Questo “rimodellarsi” non è un’azione volontaria: è piuttosto il prodotto di un sistema di interdizioni. La Lingua madri’lineare, le due interdizioni, le manomissioni vespertine sono figure poetiche e concettuali che alludono a una grammatica originaria del divieto. La lingua materna – o meglio: la lingua della madre, ma anche la lingua lineare che fonda il logos – è il primo grande strumento di modellamento. È attraverso di essa che il bambino apprende non solo a parlare, ma anche a tacere, a censurare, a rimuovere.
Le due interdizioni potrebbero essere intese come le due grandi proibizioni freudiane: il tabù dell’incesto e il divieto dell’omicidio del padre. Oppure, in un’accezione più filosofica, come la doppia negazione che struttura l’essere nel linguaggio (Nietzsche, Heidegger, Lacan). Le manomissioni vespertine, infine, evocano il tempo della sera, dell’ombra, della riflessione malinconica, ma anche dell’atto manipolatorio – del gesto che ritocca, che interviene su qualcosa di già esistente per nasconderlo, deformarlo, ritrasmetterlo. L’inconscio non è dunque il prodotto puro di una verità originaria: è il risultato di una serie di manomissioni, di riti oscuri, di modificazioni imposte dalla struttura simbolica.
4. Ontologia dell’assenza: essere, non essere, e l’innominabile
In uno dei passaggi più significativi del testo di partenza si legge: «Così è anche ciò che <non è>». Qui si introduce una riflessione ontologica che si affaccia sulla soglia dell’apofasi: l’essere coincide con il non-essere, o meglio: ciò che è autenticamente essente è ciò che non può venire alla luce, ciò che è costituzionalmente Senza Niente.
Questa formulazione rimanda tanto alla teologia negativa quanto alla riflessione freudiana sulla Cosa (das Ding) – quella dimensione dell’oggetto del desiderio che eccede la rappresentazione e si colloca in uno spazio “prima” del simbolico. Lacan, nelle sue letture di Freud, definisce questa Ding come “ciò che è al di là del principio di piacere”, ovvero come quell’elemento traumatico e perturbante che non può mai essere pienamente integrato nella psiche, e tuttavia ne costituisce il nucleo originario.
La fede freudiana per “qual cosa di innominabile”, come il testo afferma, è allora una fede dell’analista: una fiducia radicale in ciò che non può essere detto, ma che si manifesta sotto forme oblique. Non si tratta di un nichilismo, bensì di una teologia laica dell’assenza, in cui il centro non è il nulla, ma il vuoto strutturale che fonda ogni costruzione di senso.
5. Conclusione: tra Freud, Goethe e l’enigma del sapere taciuto
Il verso del Faust, interpretato alla luce della psicoanalisi, non è solo un elemento drammaturgico o un motto letterario: è la cifra stessa della logica dell’inconscio. Freud vi riconobbe – forse senza mai tematizzarlo apertamente – un’eco profonda della propria impresa. Il sapere che non si dice, che si conosce meglio e che tuttavia non può essere insegnato, è lo stesso sapere che anima il lavoro analitico, che parla per sintomi, che si rivela solo di lato.
Il testo qui esaminato, con la sua forza lirica e concettuale, ci restituisce un Freud visionario, gotico, prossimo al mistico. Un Freud che non costruisce soltanto modelli clinici, ma tenta una filosofia del non-essere, un’ontologia dell’oscuro, una grammatica del silenzio.
È in questo spazio che si colloca anche la questione dell’innominabile: ciò che resiste al nome, che si sottrae alla classificazione, e che tuttavia insiste, pulsa, ritorna. Non è semplicemente ciò che manca: è ciò che eccede. Il reale, per Lacan, è esattamente questo: ciò che non cessa di non iscriversi, ciò che disturba ogni ordine, ogni rappresentazione, ogni sistema.
Freud, Margherita, Faust, la Lingua madre, le interdizioni e le manomissioni: sono tutti nomi, allegorie, figure della stessa scena. Una scena notturna, disturbata, drammaticamente poetica, in cui il soggetto – come scriveva Hölderlin – “abita poeticamente la terra”, ma sempre sotto l’egida del non detto.
Il concetto di Senza Niente. Ontologia poetica del vuoto psichico
1. Premessa: nominare il vuoto
In un tempo in cui ogni cosa tende a farsi contenuto, prodotto, opinione, superficie, il concetto di Senza Niente – così come formulato nel testo originario – si impone come una soglia teorica radicale. A differenza del semplice “niente”, e anche del nichilistico “nulla”, il Senza Niente non è una negazione, ma una costituzione: è ciò che è pur non avendo nulla di proprio, ciò che insiste al di là del nome, ciò che struttura, nella sua stessa assenza, l’intero campo del visibile, del dicibile, dell’essere.
Questo concetto, nella sua enigmatica sobrietà, apre uno spazio inedito di riflessione. Il Senza Niente non è un buco nella pienezza, ma una forma del reale in quanto tale. Esso si iscrive nelle logiche del trauma, dell’inconscio, dell’ontologia negativa, ma anche della poesia come atto di insistenza dell’indicibile. Per questo, la sua definizione non può essere lineare, né esaustiva, ma deve avvicinarsi – per via di contorni, di echi, di ombre – al cuore paradossale che lo anima.
2. Il Senza Niente e il vuoto strutturale dell’inconscio
Nel campo della psicoanalisi, in particolare nella lettura lacaniana di Freud, il reale è ciò che non si lascia simbolizzare, ciò che non si lascia dire. Ma non si tratta semplicemente di un “vuoto” psicologico o affettivo: è piuttosto il punto in cui il linguaggio fallisce, il nucleo traumatico che non può essere rappresentato, la Cosa (das Ding) che attira e respinge, come una stella nera.
In questa logica, il Senza Niente si fa figura ontologica dell’inconscio. Non è l’assenza di contenuti, ma la presenza insistente di ciò che non può avere contenuto, di ciò che non si dà. L’inconscio non è solo ciò che è rimosso: è ciò che non ha mai potuto essere detto, ciò che è stato escluso sin dall’origine. È un “senza” che precede ogni “con”: un mancare primigenio che struttura tutto ciò che verrà.
Il Senza Niente è quindi un’istanza costitutiva, e non un accidente. È il reale che non può mai farsi segno, ma che ogni segno tenta, invano, di lambire. È lo spazio di ciò che non si può insegnare, che non si può confessare, che non può prendere forma narrativa – ma che tuttavia plasma ogni forma.
3. Ontologia negativa: dall’Essere al Non-Essere al Senza Niente
Nel campo della filosofia, il concetto di Senza Niente richiama la grande tradizione dell’ontologia negativa, da Plotino a Pseudo-Dionigi l’Areopagita, fino a Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Simone Weil, e Heidegger.
La teologia apofatica (o negativa) ha sempre affermato che Dio non può essere detto, definito, circoscritto. Dio è, in questo senso, il Senza Niente per eccellenza: non perché sia “vuoto”, ma perché eccede ogni determinazione. Dire Dio è già tradirlo. Lo stesso vale, in forma laica, per l’essere del soggetto nel pensiero contemporaneo.
Heidegger, nel suo Essere e tempo, smonta ogni pretesa di identificare l’essere con un contenuto, una presenza, una cosa. L’essere è sempre “nientificante” – ovvero: si dà come differenza, mai come pienezza. Ma è in Che cos’è la metafisica? che Heidegger spinge oltre: il Niente non è un “non-qualcosa”, ma ciò che consente all’essere di manifestarsi. Il Senza Niente, in questa logica, non è il nulla: è l’orizzonte originario in cui l’essere stesso può apparire.
Simone Weil, in uno dei suoi testi più radicali, La pesantezza e la grazia, afferma che “Dio si è ritirato per farci posto”. Questa teologia del ritiro – dello zimzum, nel pensiero cabalistico – può essere letta come un’anticipazione poetica del Senza Niente. Ciò che è veramente fondativo non si impone, ma si sottrae. Non occupa spazio: lo rende possibile.
4. La parola che non dice: linguaggio, interdizione e silenzio
Il linguaggio, per sua natura, si fonda sulla nominazione. Tuttavia, ogni parola comporta una perdita. Nominare qualcosa significa anche isolarla, sottrarla al suo contesto vivo, renderla rappresentabile, e quindi in un certo senso ucciderla. Come scrive Blanchot, la parola uccide la cosa.
Il Senza Niente si situa prima – o dopo – il linguaggio. È ciò che la parola non può afferrare, e che tuttavia ne costituisce il cuore. È ciò che resta taciuto in ogni enunciazione, ciò che viene escluso da ogni definizione, ciò che il linguaggio tradisce proprio mentre tenta di dire.
È qui che tornano le due interdizioni evocate nel frammento originario: non solo i divieti edipici (incesto e parricidio), ma anche le interdizioni fondamentali che fondano la civiltà: non dire tutto, non sapere tutto, non possedere tutto. Il linguaggio nasce dalla castrazione: dalla consapevolezza che non tutto può essere detto. Il Senza Niente è ciò che resta fuori, ciò che non è lingua, ciò che fa segno, ma non è segno.
E tuttavia, è proprio il linguaggio poetico che tenta di avvicinarsi a questo vuoto. La poesia, con le sue ellissi, le sue ripetizioni, le sue fratture sintattiche, non dice il Senza Niente, ma ne evoca la presenza. È una lingua senza lingua, una parola che indica il silenzio.
5. Il Senza Niente come categoria estetica
Anche in ambito estetico, il concetto di Senza Niente può aprire percorsi di interpretazione. Molte delle esperienze artistiche del Novecento e del contemporaneo si sono mosse in questa direzione: dal silenzio strutturato di John Cage al bianco di Malevič, dalla camera vuota di Bruce Nauman alla sedia vuota di Joseph Kosuth, fino al vuoto teatrale di Beckett.
In ognuno di questi casi, non si tratta di assenza di contenuto, ma di una presenza negativa, eccedente, inassimilabile. Il vuoto non è mai puro: è sempre abitato. È un Senza Niente, appunto: qualcosa che non si può riempire, ma che insiste come una forza. L’opera non mostra il nulla, ma lo spazio in cui il nulla dice qualcosa.
L’estetica del Senza Niente è un’estetica dell’intervallo, della pausa, della tensione. È ciò che permette allo spettatore di immaginare, di proiettare, di sentire il limite. In questo senso, il Senza Niente è uno spazio etico, oltre che estetico: non offre soluzioni, ma pone domande, chiama il soggetto all’ascolto.
6. Politica e metafisica del Senza Niente
Nel campo politico, il Senza Niente può essere inteso come ciò che sfugge all’ordine del discorso dominante. Ogni sistema totalizzante si fonda su un principio di saturazione: tutto deve essere visibile, noto, catalogato, schedato. Il Senza Niente è ciò che resiste a questa logica, ciò che resta fuori dal campo del controllo, ciò che non si lascia afferrare.
I corpi esclusi, i desideri censurati, le vite non rappresentate: tutto ciò che la politica non sa dire, o che rifiuta di vedere, è Senza Niente. Non perché non ci sia, ma perché non ha nome, né valore, né diritto d’esistenza.
Ma qui si apre anche una possibilità rivoluzionaria. Il Senza Niente non è solo ciò che manca: è ciò che può ancora accadere. È il luogo dell’evento, della rottura, dell’imprevisto. È ciò che sfugge all’ordine, ma proprio per questo può trasformarlo. È il luogo dell’Altro.
7. Conclusione: abitare il Senza Niente
Il Senza Niente non è un concetto da comprendere, ma da abitare. È il fondo oscuro della parola, il nocciolo inattingibile del desiderio, il vuoto che rende possibile ogni forma. Non è una perdita, ma una promessa. Non è ciò che manca, ma ciò che eccede.
Abitare il Senza Niente significa rinunciare all’illusione della pienezza, accettare la frattura, fare spazio all’altro. Significa ascoltare il silenzio, sopportare l’intervallo, lasciarsi attraversare da ciò che non si può dire.
È in questo spazio che nasce la poesia, che vive la psicoanalisi, che si accende il pensiero. È qui che Freud collocò l’inconscio, che Heidegger situò l’essere, che la mistica evocò Dio, che l’arte vide il proprio destino.
Il Senza Niente non è l’assenza di tutto: è il tutto che non può darsi. È ciò che “è, fu e sarà” – ma sempre altrove, sempre oltre, sempre prima o dopo la parola.
Postfazione. Il Senza Niente e l’oltre della filosofia
1. Il vuoto che avanza: metafisica dell’interruzione
La filosofia, fin dalle sue origini, ha cercato un fondamento. Da Talete a Hegel, da Aristotele a Spinoza, il gesto filosofico è stato quasi sempre una costruzione: dare ordine, dare principio, dare senso. E tuttavia, ogni sistema, ogni impianto ontologico, ogni architettura del pensiero porta con sé una crepa: il suo fuori, il suo prima, il suo non-pensabile. È lì che si apre il Senza Niente.
Questa postfazione non vuole concludere, né riassumere: vuole interrompere. Perché il Senza Niente non è un contenuto tra gli altri, né un concetto chiudibile. È ciò che scuote il concetto, che disturba la chiusura, che impone la sua mancanza come unica forma di verità. È la traccia dell’infondato, che nessuna metafisica riesce a eliminare.
Tutto inizia col vuoto. Non come assenza da colmare, ma come gesto originario: l’evacuazione del pieno, il silenzio che precede ogni parola, la sospensione che fonda ogni ritmo. In questo senso, il Senza Niente è il fondamento senza fondamento, la necessità del non-necessario, l’essere aperto dall’impossibile.
2. L’inconoscibile che insiste
Se la filosofia è anche il sapere dei limiti del sapere, allora il Senza Niente è ciò che firma questo limite. Ma non come una barriera invalicabile: piuttosto come una fenditura attiva, un’apertura permanente. Non è il buco nero dell’ignoranza, ma l’orizzonte dell’invisibile che interroga, sollecita, esige un altro pensare.
Cosa significa pensare ciò che non si dà, ciò che non ha nome, ciò che non si mostra? È possibile? O è proprio lì che comincia la filosofia nel suo senso più radicale?
Heidegger, nella sua meditazione sul niente, parla di un “nulla che niente affatto è un semplice niente”, bensì “l’origine dell’angoscia”. In questa angoscia esistenziale, in questo “venir meno del mondo”, l’essere stesso si disvela. Il Senza Niente non è allora la fine del pensiero, ma la sua possibilità. È ciò che non può essere pensato, ma che chiede di essere pensato. È il vuoto che esige forma, pur sapendo che ogni forma lo tradirà.
3. Il pensiero dell’assenza
Pensare l’assenza è già una forma di presenza. Ma il Senza Niente non è l’assenza di qualcosa che c’era: è l’assenza che non ha mai avuto luogo, e che tuttavia fonda ogni luogo. È la mancanza anterioriore (per usare un termine caro a Derrida), la ferita originaria che non sanguina, ma che pulsa.
Ogni oggetto è un oggetto mancante: mancante di sé, mancante dell’altro, mancante del nome che lo contiene. Ogni parola è una parola meno: meno di ciò che intendeva, meno di ciò che può dire. Il Senza Niente è allora la cifra di questa mancanza strutturale. È ciò che resta quando tutto è stato detto, ma anche prima che si cominci a dire.
La filosofia occidentale, nel suo asse logocentrico, ha tentato per secoli di ignorarlo, o di relegarlo al “non-essere”. Ma da Eraclito in poi, da Plotino a Maestro Eckhart, da Pascal a Nietzsche, questa linea nera del pensiero ha continuato a esistere: come mormorio, come frattura, come sottrazione operante. Il Senza Niente è il nome poetico di questa linea.
4. Il linguaggio e il suo residuo
Ogni linguaggio comporta una perdita. Non solo perché non può dire tutto, ma perché ogni parola è già ritardo, interpretazione, mediazione. Eppure, è nel linguaggio che si dà ogni forma di pensiero, ogni contatto con l’altro, ogni visione del mondo. Come può allora il linguaggio pensare ciò che gli sfugge?
La risposta non è nell’epistemologia, ma nella poesia. La poesia è il campo in cui il Senza Niente si lascia intuire, evocare, inseguire. Non viene detto, ma sfiorato. Ogni vero gesto poetico, da Rilke a Celan, da Dickinson a Jabès, è un tentativo di nominare ciò che non si lascia nominare. Una lingua della soglia, della sabbia, dell’intervallo.
Il Senza Niente è allora il residuo del linguaggio: ciò che resta dopo la parola, ciò che ne sopravvive come eco, o come tremore. È la nota che non si sente, ma che rende possibile la musica. È lo spazio tra due versi, il bianco della pagina, il non ancora e il non più del dire.
5. Mistica del vuoto, politica dell’assenza
Ogni pensiero che accoglie il Senza Niente è anche un pensiero del limite, e quindi della fragilità. Ma non una fragilità da compatire: una fragilità attiva, che apre all’altro, che espone al possibile, che rifiuta ogni totalizzazione.
È in questo senso che il Senza Niente può diventare anche politico. In un mondo che chiede continuamente pienezza, visibilità, presenza, dati, il Senza Niente è resistenza. È ciò che non si vede, ma che ha diritto d’esistere. È il non visibile che disturba l’ordine delle cose, che lo decentra, che lo interroga.
La politica del Senza Niente è una politica della sottrazione, dell’ospitalità, dell’ascolto. È una politica del vuoto inteso come spazio possibile, come apertura all’inatteso, come attesa non colonizzata. È la politica dei corpi in fuga, delle parole taciute, delle identità non allineate. È la mistica dell’invisibile che abita ogni gesto etico.
6. Il Senza Niente come destino del pensiero
Che cosa resta, allora, quando si pensa fino al bordo? Che cosa succede quando si rinuncia alla chiusura, alla coerenza, alla definizione? Resta il Senza Niente. Non come fallimento del pensiero, ma come suo destino ultimo.
Il pensiero che accetta di non possedere il proprio oggetto, che non pretende di comprendere tutto, che sa di essere abitato da un vuoto originario, è un pensiero più umile, più vero. Non è più il pensiero del padrone, ma quello dell’ospite: ospite dell’altro, dell’assenza, della parola che manca.
Il Senza Niente è allora il nome non di un’idea, ma di una condizione: la condizione dell’umano nel tempo del disincanto. È il nome del desiderio che non si compie, ma che resiste. È il nome della domanda che non trova risposta, ma che continua a bussare.
7. Contro ogni chiusura: un pensiero all’infinito
Non si tratta di arrendersi al non senso, né di cedere al misticismo oscurantista. Si tratta di pensare il limite come luogo, non come confine. Di abitare la soglia, non il recinto. Di accettare che la verità non si possiede, ma si custodisce.
Il Senza Niente non chiede una filosofia del nulla, ma una filosofia della frattura fertile. Non è negazione, ma traccia. Non è mancanza, ma ferita generativa. Non chiude, ma apre.
In questo senso, ogni pensiero autentico è un pensiero all’infinito: non perché aspiri alla totalità, ma perché non smette di mancare qualcosa. Il filosofo che pensa il Senza Niente è colui che sa che ogni sapere è scarsità, ogni parola ombra, ogni costruzione precaria.
Ed è proprio lì, in quella precarietà, in quell’incompiutezza, che nasce la vera forma della conoscenza: una conoscenza senza proprietà, una verità senza padrone, un sapere senza niente.
8. Epilogo: e ciò che resta, resta nel silenzio
Potremmo concludere, ma sarebbe un errore. Il Senza Niente non ha conclusioni. Si lascia, si deposita, si disperde. Resta come eco, come alone, come impronta. Nessuna sintesi è possibile, nessuna parola definitiva.
Ma forse, proprio in questa rinuncia, si apre la possibilità di un altro modo di pensare: non per possedere, ma per accompagnare; non per chiudere, ma per custodire; non per dominare, ma per abitare.
Resta solo una formula, paradossale e luminosa:
Il Senza Niente è ciò che è, fu e sarà, ma che non sarà mai qui.
È l’altrove che ci costituisce.
Il non-luogo in cui pensiamo ogni volta che osiamo non dire.