giovedì 14 agosto 2025

Rochy Horror: dal palco di paillettes, i 50 anni della rivoluzione del 14 agosto



Ci sono date che la maggior parte delle persone ignora con la stessa indifferenza con cui si evita l’amico logorroico al supermercato. Ma poi ci sono quelle date che, per chi ha un certo fiuto per il meraviglioso e un debole per il kitsch di qualità, diventano veri e propri anniversari segreti, da segnare in agenda con cuoricini e glitter dorati. Una di queste è — e sarà sempre — il 14 agosto 1975. Quel giorno, nelle sale cinematografiche, fece irruzione un film che non si limitò a intrattenere: rubò la scena, la cornice, e persino la tappezzeria delle poltroncine, per poi rivestirle di paillettes e fumo di ghiaccio secco. A chiamarlo “capolavoro” ci si sente quasi avari: era un’epifania glam, un’apoteosi di eyeliner, calze a rete e smorfie che avrebbero fatto impallidire anche il più austero dei critici.

Ma attenzione: la sua genesi non iniziò fra proiettori e pellicole, bensì su un palco che, a raccontarlo oggi, sembra quasi un prologo da romanzo d’appendice. Il 16 giugno 1973, in una saletta del Royal Court Theatre — che di solito ospitava testi impegnati e drammatici silenzi — un manipolo di artisti decise di infrangere ogni convenzione. Non importava che fosse una sala più adatta alle chiacchiere da foyer che alle urla da palco: quella sera, accadde qualcosa. Il pubblico, attratto da una strana promessa di follia e libertà, cominciò ad arrivare in massa, trascinando amici, amanti, curiosi e forse persino qualche ignaro passante in cerca di un posto caldo.

In poco tempo, la situazione sfuggì di mano — ma in senso buono. Le file fuori dal teatro diventavano più lunghe dei monologhi di certi registi d’avanguardia, e qualcuno, con il tipico pragmatismo teatrale, decise che era ora di traslocare. Destinazione: il King’s Road Theatre. Qui, tra velluti più generosi e un’atmosfera da tempio pop, lo spettacolo poté respirare, urlare, danzare, e fare tutto quello che gli era stato proibito altrove.

Fu in quella cornice che, nel 1976, io stesso mi sedetti fra il pubblico, pronto sì, ma non preparato a ciò che stava per accadere. Il cast non era quello che poi il cinema avrebbe immortalato, ma l’energia… oh, l’energia! Era la stessa di una festa clandestina a cui arrivi per caso e in cui finisci a ballare con gente che non hai mai visto prima, convinto di conoscerli da una vita. C’era qualcosa di contagioso in quell’aria: un’elettricità che ti faceva ridere di più, cantare più forte e uscire con la sensazione che la vita avesse appena guadagnato qualche grado di colore in più.

Poi arrivò il 14 agosto 1975, e la magia, quella magia, trovò il modo di infilarsi su pellicola e viaggiare oltre oceani e confini. Lo schermo la amplificò, i personaggi diventarono icone, e chi non l’aveva vista a teatro poté finalmente scoprire che certe storie non hanno bisogno di permessi per esplodere: serve solo un’idea brillante, un palco o una sala buia, e il coraggio di non chiedere scusa mai. Ah, e un paio di stivali vertiginosamente alti, che non guastano mai.