Tre novità si impongono: l’accesso ai bloccanti della pubertà e alle terapie ormonali sarà subordinato a una diagnosi certificata da un’équipe nazionale centralizzata e all’autorizzazione di un comitato etico nominato dal Ministero. Il tutto condito dalla creazione di un registro nazionale dei minori che intraprendono percorsi di affermazione di genere. Il governo parla di “ordine”, ma l’effetto reale sarà quello di un imbuto burocratico che rende difficile se non impossibile accedere a cure che la comunità scientifica considera salvavita.
Perché un registro nazionale? Non esiste per il diabete, non esiste per le terapie oncologiche, non esiste per altre patologie croniche. Solo qui, solo per gli adolescenti trans. È difficile non vedere il senso politico: non una tutela, ma un avvertimento. Una schedatura di chi osa vivere un’identità di genere non conforme. Un archivio di minori e famiglie messo in mano a un organismo di nomina politica, che oggi come domani potrebbe essere usato per restringere diritti o creare stigma istituzionalizzato.
Il tempo è la variabile più drammatica in questa vicenda. L’adolescenza è una finestra biologica brevissima e ritardare le cure significa spesso condannare i ragazzi a subire cambiamenti fisici indesiderati, con conseguenze devastanti sulla salute mentale e sull’autostima. La scienza non lascia dubbi: studi pubblicati su JAMA Pediatrics e sul Journal of Adolescent Health dimostrano che l’accesso tempestivo ai bloccanti della pubertà riduce depressione e rischio di suicidio; una ricerca di Harvard ha calcolato un calo del settanta percento dei tentativi di suicidio nei ragazzi che hanno accesso rapido alle cure.
Eppure il ddl ignora questi dati. Non cita la Società Italiana di Endocrinologia, non menziona il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica che già nel 2022 riconosceva la necessità di garantire percorsi rapidi e integrati per i giovani con disforia di genere. Ignora la realtà quotidiana di centinaia di adolescenti per i quali ogni mese di attesa può significare un taglio, un gesto disperato, un funerale in più.
L’Italia si pone così controcorrente rispetto all’Europa. Mentre Spagna, Malta e altri Paesi scelgono di semplificare i percorsi di affermazione di genere, investendo in supporto e strutture territoriali, da noi si accentra il controllo, si riduce l’autonomia delle strutture locali e dei professionisti. È la stessa logica che si vede in alcuni Stati conservatori degli Stati Uniti, dove le cure ai minori trans sono state vietate del tutto. Il messaggio è chiaro e spietato: il tuo corpo non ti appartiene, appartiene allo Stato.
Le principali società mediche internazionali – WPATH, American Academy of Pediatrics, Società Italiana di Endocrinologia – sono unanimi nel riconoscere che le cure per la disforia di genere in adolescenza sono sicure, reversibili e necessarie. Eppure il ddl sceglie un’altra strada, spostando la decisione dal rapporto fiduciario tra medico, famiglia e paziente a un comitato etico nazionale politicamente controllato. Non è una misura sanitaria, è un messaggio culturale e politico: non vi fidiamo, vi controlliamo noi.
Non si tratta di un dibattito astratto o accademico. Parliamo di adolescenti in carne e ossa, spesso già vittime di bullismo, isolamento e discriminazione. Ragazzi e ragazze che chiedono solo di poter vivere senza odiarsi, senza sentirsi prigionieri di un corpo che non riconoscono. Il ddl, con la sua facciata di tutela, manda un messaggio chiaro e crudele: la tua identità è sospetta, la tua scelta deve essere sorvegliata, i tuoi dati saranno raccolti e catalogati.
Questo disegno di legge non protegge. Punisce. Non cura. Controlla. Non ascolta. Impone. Le piazze si riempiono di voci che gridano il loro dissenso: “I nostri corpi non sono un campo di battaglia”, “La nostra adolescenza non si scheda”, “Le nostre vite contano”. Questa non è una battaglia ideologica, è una lotta concreta e radicale per il diritto a esistere senza essere schedati, per il diritto a ricevere cure senza ostacoli politici, per il diritto a crescere liberi.
Il ddl sulla disforia di genere è una condanna reale, non una metafora. Ogni giorno di attesa, ogni porta chiusa, ogni scheda in un registro significa un rischio in più di perdere una vita giovane. Non stiamo parlando di “temi etici”. Stiamo parlando di restare vivi.