domenica 3 agosto 2025

La Bellezza ferita: Persefone, Hillman e l’estetica dell’ombra



Prefazione 

La Bellezza oltre la superficie: il pensiero di James Hillman

James Hillman, psicoanalista e filosofo della psiche, è noto per la sua capacità di unire la profondità della tradizione junghiana con una visione radicalmente originale dell’anima. La sua psicologia archetipica propone un ritorno ai miti, agli dèi e alle immagini primordiali, non come reliquie del passato ma come realtà ancora vive nell’inconscio collettivo e nelle esperienze quotidiane dell’uomo moderno. In questo contesto, la Bellezza diventa per Hillman una questione centrale, non riducibile alla mera armonia estetica o al semplice piacere visivo, ma intesa come qualità intrinseca dell’anima, una forza che trasforma, sconvolge e talvolta ferisce, perché nasce dal contatto con la verità profonda dell’esistenza.

In un mondo contemporaneo dominato dalle immagini patinate e dall’ossessione per la perfezione, la Bellezza è spesso ridotta a merce, a superficie scintillante, a promessa di felicità immediata. Hillman, al contrario, ci spinge a guardare verso un’estetica più oscura e autentica, un’estetica che non rifugge la sofferenza e l’imperfezione ma le integra. Qui il mito diventa un linguaggio essenziale. L’antica Grecia non conosceva la Bellezza come concetto puramente astratto, ma la incarnava in figure divine, ognuna con un proprio carattere, un proprio ambito e una propria ombra.

Afrodite e Persefone rappresentano due di queste dimensioni archetipiche. Afrodite, dea dell’amore e della sensualità, è la personificazione della Bellezza immediata, visibile e seduttiva. È la forza dell’attrazione, dell’estasi erotica, della grazia che cattura lo sguardo. Afrodite è la Bellezza che abita la superficie luminosa della vita, un archetipo essenziale perché richiama al desiderio e alla relazione, ma che può diventare fragile se assolutizzato: essa rischia di ridursi a immagine, a consumo, a un’idea di Bellezza che dura solo finché lo sguardo resta acceso. Persefone, al contrario, è regina degli Inferi, costretta a dividere il proprio tempo tra il mondo luminoso della madre Demetra e il regno oscuro del marito Ade. È l’archetipo della transizione, della perdita e del ritorno, del contatto con la morte e con la rinascita ciclica. Persefone incarna una Bellezza sotterranea, che si nutre di assenza e mistero, che si rivela solo quando si accetta di scendere nelle profondità della psiche, di attraversare la soglia dell’ignoto.

Hillman osserva come la nostra cultura abbia privilegiato l’archetipo di Afrodite trascurando quello di Persefone. L’una regna sulle passerelle, sui social media, sulla pubblicità; l’altra, relegata all’ombra, rappresenta invece un potenziale rivoluzionario: ci parla di un’estetica che nasce dalla vulnerabilità, dal dolore e dalla trasformazione. «La vera Bellezza», scrive Hillman, «non è mai senza il suo lato oscuro, senza la sua ombra» (Il codice dell’anima, 1996). L’ombra non è qui qualcosa da rimuovere, ma un luogo fecondo, uno spazio interiore che contiene il seme di una nuova consapevolezza.

Questa Bellezza infera si manifesta con più forza nei momenti di crisi, quando la vita sembra perdere forma e senso. È l’esperienza che si vive nella depressione, nella solitudine estrema, nelle fratture esistenziali. Hillman invita a non considerare questi stati come malattie da eliminare rapidamente, ma come esperienze di discesa – vere e proprie “katabasi”, termine con cui i Greci indicavano la discesa agli Inferi degli eroi e degli dèi. Solo scendendo nel buio della psiche possiamo incontrare il volto di Persefone e con esso una Bellezza diversa, fatta di profondità e di verità.

Il mito di Psiche ed Eros diventa qui paradigmatico. Psiche, il cui nome significa “anima”, deve affrontare prove durissime per ritrovare l’amore di Eros. Queste prove, imposte dalla gelosia di Afrodite, rappresentano simbolicamente la fatica del vivere, la necessità di affrontare sfide interiori complesse, la morte simbolica di vecchie identità. Tra le prove, la discesa nel regno di Persefone è la più emblematica: Psiche deve recarsi nell’Ade, sperimentando l’oscurità, la perdita e la paura di non ritornare. Tuttavia, proprio da questa esperienza emerge una nuova forza interiore, una Bellezza dell’anima che non è più legata alla sola apparenza, ma a un’identità trasformata. Hillman commenta: «Il cammino di Psiche è la rappresentazione archetipica di ogni anima che, attraversando il dolore, scopre la sua vera Bellezza» (Il codice dell’anima, 1996).

Questa Bellezza non è lineare, non è un dono che si riceve una volta per tutte: è un processo, un divenire. Le cicatrici che la vita lascia diventano parte integrante del nostro volto, del nostro corpo, della nostra memoria emotiva. Qui Hillman è vicino a una tradizione estetica antica e moderna che vede nel dolore e nell’imperfezione un elemento costitutivo del bello: dalla tragedia greca a Rainer Maria Rilke, dal concetto giapponese di wabi-sabi alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e Camus, la Bellezza appare come qualcosa che emerge dall’incontro con il limite e con la finitudine.

In questo percorso, l’Eros svolge un ruolo fondamentale. Non è solo la forza del desiderio sessuale, ma un’energia vitale, creativa, che spinge l’anima a uscire da sé, a incontrare l’altro, a creare legami. Tuttavia, l’Eros implica sempre un rischio: amare significa esporsi, accettare la possibilità della perdita, del tradimento, del dolore. Hillman lo esprime con chiarezza: «L’amore autentico richiede il coraggio di aprirsi al dolore e al rischio, di vivere nella tensione tra piacere e sofferenza» (La forza del carattere, 1999). L’esperienza amorosa diventa così un laboratorio dell’anima, un luogo in cui la Bellezza si manifesta non malgrado la sofferenza, ma attraverso di essa.

Questo intreccio tra amore e dolore, tra desiderio e ferita, è ciò che Hillman chiama “tortura dell’anima”: una condizione inevitabile di ogni rapporto profondo e significativo. Ma proprio questa tortura genera movimento e crescita, apre spazi di consapevolezza e di trasformazione. L’amore diventa così un atto mitico, un rito iniziatico che ci costringe a mettere in scena la nostra umanità in tutta la sua fragilità e grandezza.

La Bellezza che nasce da questo percorso è quindi un processo dinamico, un continuo divenire, mai definitivo, sempre in movimento. È una Bellezza che si nutre delle cicatrici, delle perdite, dei fallimenti, e che per questo risplende con un’intensità particolare. Hillman scrive: «Le cicatrici sono la mappa della Bellezza, il segno tangibile di un percorso vissuto con coraggio e passione» (Il codice dell’anima, 1996).

Questa visione ha implicazioni profonde non solo sul piano individuale, ma anche culturale. In un’epoca che tende a rimuovere il dolore e a mascherare la fragilità dietro l’apparenza, recuperare un’estetica della profondità significa recuperare anche un’etica della vulnerabilità. Significa riconoscere che la Bellezza autentica non è quella che nega il tempo e la morte, ma quella che li integra, trasformandoli in esperienza di senso. Significa anche riconoscere la centralità della psiche, della sua capacità di immaginare, di simbolizzare e di dare forma al dolore.

Da questo punto di vista, la riflessione di Hillman si colloca accanto a quella di altri autori che hanno esplorato il nesso tra estetica, sofferenza e trasformazione: da Nietzsche, con il suo elogio del dionisiaco e della tragedia, a Simone Weil, con la sua idea della bellezza come “trappola di Dio”, fino a Hannah Arendt, che vede nella fragilità dell’agire umano una condizione imprescindibile della libertà. Tutti questi pensatori, in modi diversi, ci ricordano che il bello non è solo armonia e piacere, ma anche tensione, conflitto, ferita.

Accogliere la Bellezza di Persefone significa dunque cambiare sguardo: non fuggire il dolore, non idealizzare la perfezione, ma abitare la complessità dell’esistenza. È un invito a scendere negli inferi dell’anima, a sostare nell’incertezza, a trovare nella vulnerabilità non una debolezza, ma una fonte di forza. In questo senso, la Bellezza diventa un atto politico e spirituale: resistere alla superficialità e al consumo, scegliere di vivere pienamente, con coraggio e autenticità, anche quando questo comporta ferite e cicatrici.


La Bellezza che discende negli Inferi: James Hillman e l’estetica dell’anima


1. Il mito: Afrodite, Persefone e Psiche – due volti della Bellezza e il viaggio dell’anima

I miti greci non sono semplici storie del passato, reliquie polverose buone per le scuole e i manuali. Sono matrici eterne di esperienza, “immagini che non muoiono mai”, come scrive Hillman (Re-Visioning Psychology, 1975), e che continuano a plasmare il modo in cui viviamo, sogniamo e soffriamo. Ogni mito, se ascoltato con attenzione, ci racconta un aspetto del nostro stesso vissuto.

Quando pensiamo alla Bellezza, inevitabilmente la mente corre ad Afrodite. La dea della sensualità e dell’armonia corporea incarna una luminosità immediata: pelle levigata, proporzioni perfette, il sorriso che seduce senza sforzo. Afrodite è il desiderio che brucia rapido, la danza leggera che invita all’ebbrezza. È la Bellezza che ritroviamo in un volto che ci lascia senza fiato, in un paesaggio al tramonto, in un gesto di grazia improvvisa. È, direbbe Hillman, la Bellezza “sulla soglia dello sguardo”, quella che ci cattura subito.

Ma se Afrodite è la superficie radiosa, Persefone è la profondità inquietante. Figlia di Demetra, rapita da Ade, costretta a vivere negli Inferi per una parte dell’anno, Persefone conosce il dolore della separazione, la lacerazione di un’esistenza divisa tra luce e buio. La sua Bellezza non è quella del desiderio immediato, ma quella dell’assenza e del ritorno, della trasformazione lenta, della memoria delle perdite. È la Bellezza che vediamo in un volto segnato, in un amore sopravvissuto alle prove, in un corpo che porta le cicatrici del tempo. È un volto che non conquista con la perfezione, ma con la profondità: «una Bellezza che ha conosciuto la morte e non ne è stata vinta», direbbe Hillman.

Il mito di Psiche intreccia queste due potenze. Psiche – l’anima – deve affrontare prove impossibili per ricongiungersi con Eros. Tra queste, la più terribile: scendere nel regno di Persefone, affrontare l’oscurità, la possibilità della fine. Hillman commenta: «La discesa è parte integrante della maturazione dell’anima: solo attraversando l’Inferno personale possiamo ritrovare Eros e la Bellezza autentica» (Il codice dell’anima, 1996).

L’immagine della discesa agli Inferi non appartiene solo al mito greco: la ritroviamo in Dante che incontra Virgilio alle porte dell’Inferno, in Orfeo che scende per amore di Euridice, in Cristo che penetra nel regno dei morti prima della resurrezione. Sono tutti racconti di trasformazione: l’eroe (o l’anima) non torna mai uguale, ma arricchito da un sapere che solo il buio può dare. Persefone diventa così la dea del coraggio e dell’accettazione del limite, colei che custodisce la Bellezza che sopravvive alle perdite, la Bellezza “profonda” che il mondo contemporaneo tende a dimenticare.


2. Psicologia: Eros, vulnerabilità e la tortura dell’anima

Per Hillman, l’anima non è una macchina da riparare. «La psiche è immaginazione», scrive, «è il tessuto stesso delle immagini che ci abitano e ci muovono» (Re-Visioning Psychology, 1975). Lavorare con l’anima significa, dunque, entrare in dialogo con le sue immagini, con le sue figure archetipiche. E fra queste, Eros è una delle più potenti.

Eros non è solo sessualità. È, come dice Platone nel Simposio, il demone che connette: desiderio di bellezza, slancio verso l’altro, energia vitale. Hillman lo descrive come «forza di relazione, di legame, di apertura» (Il pensiero del cuore, 1981). Ma aprirsi significa essere vulnerabili.

Qui nasce quella che Hillman chiama “la tortura dell’anima”: ogni amore profondo comporta dolore. Non è un difetto del sentimento, ma la sua condizione stessa: chi ama sa di poter perdere, di poter essere rifiutato, di poter fallire. L’amore ci espone, e questa esposizione è allo stesso tempo splendore e ferita.

Molti modelli psicologici hanno visto il dolore affettivo come qualcosa da “curare” e rimuovere. Hillman, invece, rovescia la prospettiva: «Il dolore non è un errore, ma un luogo dell’anima. È parte integrante del processo di fare anima» (Il codice dell’anima, 1996). Nella clinica contemporanea, dove depressione e ansia vengono spesso trattate solo con farmaci, questa visione è rivoluzionaria: il sintomo diventa messaggero, non nemico; il malessere diventa occasione di comprensione e trasformazione.

Questa idea si avvicina anche alla psicologia junghiana. Jung scrive nei suoi Ricordi, sogni, riflessioni: «Non si diventa illuminati immaginando figure di luce, ma rendendo consapevoli le tenebre». L’incontro con l’ombra, con ciò che è rimosso, è il passaggio obbligato verso la completezza. Hillman aggiunge: «Non possiamo amare davvero senza conoscere la nostra ombra, perché l’amore senza ombra diventa solo desiderio di possesso».


3. Estetica: la Bellezza come processo dinamico e la filosofia dell’imperfezione

Nella nostra cultura, la Bellezza è spesso ridotta a simmetria, giovinezza, perfezione. Basta osservare i social network: corpi scolpiti, volti filtrati, paesaggi resi più brillanti di quanto siano nella realtà. Ma questa estetica della superficie, seppure piacevole, è fragile: dura il tempo di uno sguardo, non lascia traccia nell’anima.

Hillman propone una visione diversa: la Bellezza è processo dinamico, incontro e perdita, caduta e rinascita. «La Bellezza autentica non è mai statica. È viva. E come ogni cosa viva, è soggetta a mutamento e ferita» (Re-Visioning Psychology, 1975).

In questa prospettiva, ogni cicatrice diventa un segno di vita. L’estetica giapponese del wabi-sabi lo dice chiaramente: la crepa su una tazza, riparata con la tecnica del kintsugi, diventa il suo punto di forza, la sua unicità. Così come un volto segnato dal tempo racconta una storia che un volto “perfetto” non sa dire.

La letteratura e l’arte occidentale hanno spesso espresso questa intuizione. Rilke, nelle Elegie Duinesi, scrive: «Poiché la Bellezza non è che l’inizio del terrore che ancora possiamo sopportare». Il Caravaggio, con i suoi chiaroscuri drammatici, ci mostra corpi che non sono idealizzati, ma attraversati dalla violenza, dal dubbio, dalla colpa. Michelangelo stesso, negli ultimi anni, lascia opere incompiute, figure che sembrano emergere a fatica dalla pietra, quasi a dire che la Bellezza non è mai del tutto realizzata.

Hillman condivide questa estetica del non-finito, della cicatrice: «Le cicatrici sono la mappa della Bellezza, il segno tangibile di un percorso vissuto con coraggio e passione» (Il codice dell’anima, 1996). Non la Bellezza come assenza di difetto, ma come testimonianza di vita.


4. Cultura contemporanea: dalla superficie al ritorno dell’anima

La cultura contemporanea ha creato una macchina estetica perfetta: immagini che devono piacere subito, senza spessore. Un volto si trasforma con un filtro, un corpo si modifica con un algoritmo, un panorama si raddrizza e si satura di colori fino a sembrare irreale. In questo scenario, la Bellezza diventa consumo visivo: ciò che conta non è il contenuto, ma la velocità con cui lo sguardo si sposta da un’immagine all’altra.

Hillman, invece, propone un ritorno a una Bellezza dell’anima. Non una Bellezza che si fotografa facilmente, ma che richiede tempo e profondità. Una Bellezza che troviamo in certe esperienze artistiche non immediate: le tele di Francis Bacon, che disturbano e inquietano; i versi di Emily Dickinson, che parlano di solitudine e di morte con dolcezza feroce; le composizioni di Arvo Pärt, sospese tra silenzio e trascendenza.

Questa Bellezza non è solo estetica, ma etica: comporta accettare la vulnerabilità, riconoscere che la sofferenza è parte della vita. In questo senso, Hillman è vicino a Simone Weil, per la quale la Bellezza è «una trappola di Dio», qualcosa che cattura l’attenzione e ci costringe a uscire dal nostro egoismo. È vicino anche ad Hannah Arendt, che vede nella fragilità umana la condizione della libertà: non siamo onnipotenti, ma proprio per questo siamo capaci di azione nuova, di inizio.

Oggi, in un tempo di crisi (ecologica, sociale, psicologica), la Bellezza di Persefone diventa un atto politico: accettare l’ombra, la perdita, l’incertezza come parte del nostro destino comune. Non è un’idea astratta: significa valorizzare ciò che è fragile (un ecosistema, un rapporto umano, un corpo che cambia), significa riconoscere la Bellezza nel limite.

Il messaggio di Hillman è potente e controcorrente: la Bellezza non è una fuga dalla realtà, ma un modo di abitarla pienamente, con tutte le sue ferite. Afrodite ci invita a godere del piacere della vita, ma Persefone ci ricorda che ogni amore comporta un’ombra, che ogni esistenza è attraversata dalla morte. Psiche, con il suo viaggio, ci insegna che è possibile trasformare la sofferenza in saggezza e che proprio nelle cicatrici si nasconde una luce segreta.

In un mondo ossessionato dalla superficie, Hillman ci invita a un gesto radicale: ritornare all’anima. Guardare le nostre ferite non come difetti, ma come mappe di un cammino; accogliere l’ombra non come errore, ma come luogo di trasformazione. La Bellezza, allora, non è qualcosa che si possiede, ma un processo continuo di discesa e ritorno, un atto di coraggio e di verità.


5. Arte, letteratura e musica: la Bellezza che discende negli Inferi  

Caravaggio: la luce che nasce dall’oscurità

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, rappresenta una frattura nella storia dell’arte. Non dipinge l’ideale classico, non rappresenta il divino come distante e perfetto, ma lo incarna nel corpo umano: mani callose, piedi nudi, abiti sgualciti. Quando dipinge la “Vocazione di San Matteo” (1599-1600), la scena non ha nulla di eroico. È un’osteria, un luogo buio, popolato da uomini che contano monete. Il gesto di Cristo – una mano che si tende, parallela a quella di Adamo nella Cappella Sistina – è immerso in una luce radente, improvvisa.

Quella luce è ferita nello spazio: illumina senza spiegare, rivela senza proteggere. Non è una luce astratta, come quella leonardesca o raffaellesca, ma una luce drammatica che si confronta con la morte, con l’imperfezione, con la materia. Hillman nota: «La Bellezza non è una condizione armonica e statica, ma un’esperienza di tensione. Essa ci disarma, ci ferisce, e solo così apre uno spazio nell’anima» (La politica della bellezza, Adelphi, 2019, p. 41).

La “Morte della Vergine” (1606) è forse l’esempio più radicale. La Vergine è rappresentata come una donna del popolo, il corpo gonfio, i piedi scalzi, il volto segnato dalla morte. Il quadro fu rifiutato dalla committenza, giudicato indegno. Eppure oggi è considerato un capolavoro, perché umanizza il sacro, mostra la morte come parte integrante della vita e del mistero cristiano. È un’opera che incarna quella Bellezza infera di cui parla Hillman: una Bellezza che non teme la fragilità, ma la abbraccia come via di rivelazione.


Francis Bacon: il corpo deformato e l’urlo dell’anima

Francis Bacon, tre secoli dopo Caravaggio, porta il corpo umano ancora più in profondità nell’abisso. I suoi personaggi urlano, anche quando la bocca è chiusa, e i loro corpi sembrano lacerati da una forza interna, come se la carne fosse incapace di contenere l’anima.

In opere come il “Trittico della Crocifissione” (1965), i corpi non sono solo deformati, ma disarticolati: la pittura diventa quasi un’autopsia dell’anima. Questo approccio riflette un mondo segnato dalle guerre mondiali, dalla Shoah, dalla perdita di un orizzonte metafisico.

Hillman commenta: «La Bellezza è nel volto che ha sofferto, non in quello intatto. È la ferita a dare significato al volto, a renderlo immagine dell’anima» (Il codice dell’anima, Adelphi, 1997, p. 134).
Bacon sembra dirci che il dolore non può essere escluso dall’arte, che l’arte autentica deve fare i conti con l’orrore, con la discesa negli inferi dell’esperienza umana. Qui il mito di Persefone diventa attuale: come la dea deve attraversare il regno dei morti per rinascere, così il corpo di Bacon sembra attraversare la morte simbolica per rivelare una nuova, inquietante forma di Bellezza.


Michelangelo: il “non finito” come epifania del divenire

Se Caravaggio e Bacon mostrano il corpo ferito, Michelangelo, negli ultimi anni, ci consegna un corpo in divenire. I suoi “Prigioni” sembrano emergere dalla pietra, ma non del tutto liberati: figure in tensione, sospese tra la materia inerte e la forma ideale.

Questa incompiutezza non è un fallimento, ma una dichiarazione estetica. Michelangelo sembra dire che l’essere umano è sempre “non finito”, sempre in formazione, sempre in lotta con i limiti della materia e della condizione umana. Hillman osserva: «L’anima non è mai interamente luce, né mai interamente ombra. È movimento, transizione, continua tensione verso un compimento che non arriva mai» (Il pensiero del cuore, Adelphi, 1993, p. 88).

La Bellezza, allora, non è la perfezione levigata del David, ma l’imperfezione dinamica del non finito: una Bellezza che non si dà come possesso, ma come promessa. Qui riecheggia anche Nietzsche: «Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante» (Così parlò Zarathustra, 1885). Michelangelo ci mostra questo caos creativo come parte costitutiva della Bellezza.


Rilke: la poesia come luogo del terrore e della grazia

Rainer Maria Rilke, nelle Elegie Duinesi, scrive: «Poiché la Bellezza non è che l’inizio del terribile che ancora possiamo sopportare». Questa frase riassume l’idea che la Bellezza non sia consolazione, ma sconvolgimento.

Rilke parla di angeli troppo potenti per essere sopportati, di amori che ci spingono oltre noi stessi, di un’esistenza che è sempre a un passo dal nulla. È la stessa logica di Psiche: affrontare l’oscurità per trovare una nuova dimensione di senso. Hillman la riprende: «Non possiamo parlare di Bellezza senza parlare della morte. La Bellezza è l’aspetto accettabile della morte, la sua maschera gentile» (La politica della bellezza, Adelphi, 2019, p. 73).

Rilke ci mostra che la Bellezza non è mai solo piacere: è un brivido che ci mette davanti alla nostra finitudine. È la Bellezza di Persefone, che non si concede senza un prezzo, senza una discesa agli inferi dell’anima.


Mahler: la sinfonia come elegia dell’anima

Gustav Mahler costruisce le sue sinfonie come viaggi emotivi. La “Resurrezione” (Sinfonia n. 2) alterna momenti di dolcezza quasi cameristica a esplosioni orchestrali travolgenti. La “Nona”, invece, è una lunga meditazione sulla morte, un addio al mondo che diventa un inno alla vita.

Mahler traduce in musica il movimento di Psiche: la discesa nell’oscurità emotiva e la risalita verso la luce. Hillman sottolinea: «La musica è immagine sonora dell’anima: ci mostra la sua vulnerabilità e la sua capacità di trasformazione» (Saggio su Pan, Adelphi, 1983, p. 56).

Questa vulnerabilità è centrale anche per Jung, che scrive: «Solo chi tocca il proprio dolore può trovare una vera trasformazione interiore» (Opere, vol. 9). Mahler sembra dire la stessa cosa con le note: bisogna attraversare il dolore per scoprire una Bellezza che non sia illusoria, ma reale.


Arvo Pärt: il silenzio come forma di splendore

Se Mahler rappresenta la complessità orchestrale, Arvo Pärt sceglie la sottrazione: poche note, ampi silenzi, un senso di sospensione. Il suo stile tintinnabuli si concentra sull’essenziale, evocando una Bellezza che non è saturazione, ma spazio interiore.

Hillman nota: «Il silenzio è la cornice della Bellezza: senza silenzio, la Bellezza si perde nella confusione del mondo» (Il pensiero del cuore, Adelphi, 1993, p. 104). Il silenzio di Pärt è un invito a scendere negli inferi del rumore contemporaneo per ritrovare una dimensione contemplativa, una Bellezza spoglia, ma luminosa.


Il blues: la ferita che canta

Il blues nasce come espressione di dolore collettivo: la schiavitù, la segregazione, la fatica della vita nei campi. Eppure, da questa ferita nasce un canto: un ritmo che trasforma il lamento in energia condivisa.

Hillman avrebbe visto in questo una conferma della sua visione: «L’anima è fatta per cantare la propria ferita, non per nasconderla» (Il codice dell’anima, 1997, p. 201). Il blues è l’esempio di una Bellezza che non rimuove il dolore, ma lo trasfigura, proprio come Persefone ritorna dagli inferi con un dono: il seme del melograno, simbolo di vita nuova.


Sintesi comparativa: un’unica Bellezza, molte forme

Caravaggio e Bacon rappresentano due poli di una stessa tensione: il corpo ferito come luogo di verità. Michelangelo mostra che la Bellezza è un processo mai finito; Rilke la vede come vertigine; Mahler e Pärt traducono questa esperienza in suono, uno complesso e drammatico, l’altro essenziale e silenzioso; il blues la porta nella vita quotidiana, nella memoria di un popolo.

Tutte queste esperienze artistiche convergono su un punto: la Bellezza autentica non teme l’ombra. Come dice Simone Weil: «Il bello è ciò che desideriamo senza volere possederlo» (La Pesanteur et la grâce, 1947). E come ricorda Hillman: «La Bellezza è un’esperienza dell’anima, non dell’ego. È ciò che ci tocca quando ci apriamo alla vulnerabilità» (La politica della bellezza, 2019, p. 52).


6. Bellezza e cultura contemporanea: tra body positivity, estetica digitale, trauma e resilienza  

Body positivity: il corpo imperfetto come icona di Bellezza

Il movimento body positivity nasce come reazione a decenni di modelli estetici univoci e oppressivi, imposti dall’industria della moda, dalla pubblicità e, negli ultimi due decenni, dai social media. Per lungo tempo la Bellezza è stata associata a corpi sottili, simmetrici, giovani, privi di difetti visibili. Chiunque si discostasse da questo modello – per peso, colore della pelle, disabilità, età, cicatrici – era escluso da quella che Hillman avrebbe definito «la rappresentazione pubblica dell’anima» (La politica della bellezza, Adelphi, 2019, p. 52).

Il body positivity ribalta questa logica: non solo afferma che ogni corpo è degno di rispetto, ma trasforma proprio ciò che era considerato “difetto” in elemento di forza. Le smagliature diventano “tatuaggi della vita”, le rughe “mappe del tempo”. Celebrità e influencer mostrano corpi non ritoccati, raccontano malattie croniche, mostrano disabilità senza nasconderle.

In questa rivoluzione culturale si riconosce la logica di Persefone: la Bellezza non più come splendore immobile e celeste (Afrodite), ma come luce che emerge dall’ombra dell’imperfezione. Hillman osserva: «L’anima non si cura con l’immagine di perfezione, ma con l’immagine di autenticità» (Il codice dell’anima, Adelphi, 1997, p. 212). Il corpo, allora, non è più tempio da levigare, ma paesaggio da abitare.

Tuttavia, questa nuova visione non è esente da tensioni. Una parte dell’opinione pubblica accusa il body positivity di essere diventato un’estetica a sé stante, quasi una nuova forma di “moda dell’imperfezione”, mentre un’altra lo accusa di romanticizzare condizioni di salute difficili. Eppure, al di là di queste critiche, rimane un principio potente: la Bellezza autentica non è mai solo armonia, ma riconciliazione con la fragilità.

Qui risuona anche la voce di Jung, che scrive: «Ciò che non affrontiamo nel nostro inconscio torna come destino» (Opere, vol. 9). Il body positivity tenta di affrontare quell’ombra culturale – il rifiuto del corpo imperfetto – e di trasformarla in destino consapevole, in immagine collettiva di guarigione.


Estetica digitale: filtri, avatar e la fuga dall’imperfezione

Mentre da un lato si celebra il corpo reale, dall’altro l’estetica digitale propone corpi e volti sempre più lontani dalla realtà. L’uso di filtri Instagram, app di fotoritocco e avatar personalizzati è diventato prassi quotidiana, al punto che, per alcune generazioni, la propria immagine “autentica” è quella filtrata, non quella reale.

Questa tendenza nasce da una pressione culturale: apparire perfetti in un mondo in cui tutto è visibile, condiviso, commentato. La vulnerabilità del corpo viene censurata: acne, rughe, cicatrici spariscono in un click. Nasce così un’estetica che promette una Bellezza “eterna”, ma che rischia di essere sterile, perché rifiuta l’imperfezione e la contingenza – proprio ciò che Hillman considerava indispensabile per l’esperienza estetica: «La Bellezza autentica porta con sé un tremito, una imperfezione che rivela l’anima» (La politica della bellezza, 2019, p. 68).

L’estetica digitale, in un certo senso, mira a un mondo senza Persefone: solo primavera, solo luce, solo Afrodite. Ma una Bellezza così non conosce profondità, non conosce trasformazione. Byung-Chul Han, nel suo saggio La società della trasparenza (Nottetempo, 2014), avverte: «La perfezione visibile uccide l’immaginazione». In altre parole, eliminando le ombre, perdiamo l’occasione di scendere negli inferi e tornare con qualcosa di nuovo, qualcosa che solo la fragilità può generare.

TikTok, con i suoi trend estetici (dal clean look al glow up), è l’esempio più chiaro di questa tendenza: milioni di video che insegnano a correggere difetti, mostrare “prima e dopo”, inseguire una versione di sé che sembra più prodotto che persona. È un’estetica della performance, dove la Bellezza è costantemente misurata e votata, un’Afrodite digitale priva della profondità che Persefone rappresenta.


Arte queer e rappresentazioni non normative

Accanto alla standardizzazione digitale, emerge un’altra corrente: l’arte queer e i movimenti estetici che esplorano corpi, identità e sessualità non conformi. Fotografia, moda, performance art mostrano corpi trans, non binari, corpi che sfidano le categorie tradizionali di genere e bellezza.

Questa estetica rifiuta non solo la perfezione classica, ma l’idea stessa di una bellezza unica e universale. Qui la ferita non è nascosta, ma esposta come parte dell’identità. Molti artisti queer raccontano transizioni di genere, esperienze di discriminazione e resilienza, trasformando il corpo in archivio vivente di una storia personale e politica.

Hillman fornisce una chiave di lettura: «La Bellezza è sempre legata all’Eros, e l’Eros non è mai lineare: è ambiguo, travolgente, ci spinge dove non vorremmo andare» (Il pensiero del cuore, Adelphi, 1993, p. 74). L’estetica queer è, in questo senso, un Eros che attraversa l’ombra, rifiutando norme rigide e proponendo una Bellezza plurale, frammentata, ma viva.


Trauma, memoria e resilienza

La cultura contemporanea è segnata da una crescente attenzione al trauma: individuale (abusi, malattie, lutti) e collettivo (pandemie, crisi climatiche, guerre). Questa attenzione si manifesta in nuove forme narrative: memoir di sopravvivenza, film sul disturbo post-traumatico, installazioni d’arte dedicate alla memoria (dai musei dell’Olocausto alle opere sui migranti).

La logica alla base è quella della trasformazione del dolore in linguaggio. Hillman afferma: «L’anima fiorisce non malgrado la sofferenza, ma attraverso di essa. È il dolore che scava la profondità in cui la Bellezza può mettere radici» (Il pensiero del cuore, Adelphi, 1993, p. 112).

Durante la pandemia di COVID-19, ad esempio, molti artisti hanno utilizzato mascherine, immagini di ospedali, di corpi isolati come simboli estetici, trasformando un’esperienza di paura collettiva in arte capace di generare empatia. Anche qui la logica è quella di Persefone: scendere nell’oscurità del trauma, toccare il limite della vulnerabilità umana, per poi ritornare con un dono: una nuova sensibilità, una maggiore solidarietà.


Moda “inclusive” e rappresentazioni ibride

Un altro segno del cambiamento è la moda inclusiva: marchi che presentano modelle curvy, trans, disabili, anziane, rompendo il paradigma del corpo standardizzato. Brand come Savage X Fenty, Chromat e Collina Strada hanno trasformato le passerelle in manifesti politici della diversità.

Questa scelta non è solo marketing: è un segnale che la Bellezza sta migrando da un ideale unico e statico verso un orizzonte pluralista. Jung scrive: «Il Sé è una molteplicità ordinata, non una unità uniforme» (Opere, vol. 9). Allo stesso modo, la cultura contemporanea sembra accettare che la Bellezza non è un monolite, ma una rete di storie e corpi differenti.


Verso una nuova Bellezza culturale

Siamo in una fase storica in cui coesistono due movimenti opposti:

  • uno che cerca standardizzare e filtrare, creare un’immagine “perfetta”, senza ferite né ombre;
  • un altro che vuole accogliere la ferita come parte dell’identità, che celebra la diversità e la vulnerabilità.

Hillman ci invita a scegliere: «Dove non c’è ferita non c’è immaginazione» (Il codice dell’anima, 1997, p. 198). E il mito di Persefone ci insegna che ogni vera primavera richiede un inverno, ogni vera luce richiede un’ombra.

Simone Weil, con la sua limpidezza filosofica, scrive: «La Bellezza cattura l’anima con una ferita dolce e irresistibile» (La Pesanteur et la grâce, 1947). Forse la cultura contemporanea è chiamata proprio a questo: trasformare le ferite in occasioni di comunione estetica, creare un’estetica della resilienza, dove la Bellezza non è negazione del dolore, ma il suo frutto più inatteso.


Epilogo – La Bellezza che discende e ritorna  

La Bellezza, nella sua essenza più elusiva, non è mai un punto di arrivo statico. Non è un’icona immobile a cui inginocchiarsi, né un’immagine che possiamo possedere. È un movimento, un passaggio, una trasformazione che accade ogni volta che osiamo guardare l’ombra e attraversarla. James Hillman ci invita, con una voce che vibra di un’eco antica eppure modernissima, a non accontentarci della Bellezza di Afrodite, perfetta, armoniosa, levigata, ma a cercare quella di Persefone: la Bellezza che nasce dall’oscurità, che conosce la morte e la fragilità e proprio per questo sa restituire la vita.

Il mito come chiave di accesso all’esperienza

Il mito di Persefone non è soltanto una storia antica di rapimento e di cicli stagionali: è un archetipo del nostro modo di affrontare la vita. Persefone viene strappata dal mondo della luce, precipita negli inferi, conosce la morte simbolica, ma torna ogni anno, portando con sé la promessa della primavera. Hillman lo interpreta così: «L’anima ha bisogno di muoversi tra i suoi luoghi oscuri e quelli luminosi; solo attraversando l’inferno delle emozioni e della perdita può tornare a fiorire» (Il codice dell’anima, Adelphi, 1997, p. 201).

È un’immagine potente per la nostra epoca, che tende a fuggire l’ombra: un’epoca che desidera la giovinezza eterna, la pelle senza rughe, l’esperienza senza trauma, il successo senza fallimento. Ma Persefone ci insegna che ogni autentica trasformazione richiede un passaggio attraverso l’oscurità. Senza quell’inverno, la primavera sarebbe priva di senso.

Nietzsche lo aveva colto con la sua consueta durezza: «Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante» (Così parlò Zarathustra, 1885). E ancora: «Ciò che è grande nell’uomo è che è un ponte e non una meta» (ibid.). La Bellezza non è, quindi, un modello statico, ma un ponte tra opposti: tra vita e morte, dolore e gioia, caduta e risalita.


L’arte come testimonianza dell’ombra

Abbiamo attraversato secoli di arte e musica per riconoscere come questa logica sia già inscritta nei linguaggi dell’anima. Caravaggio illumina l’oscurità con un fascio di luce improvviso, Bacon deforma il corpo per mostrare la sua verità interiore, Michelangelo lascia le sue figure incompiute come simbolo di un’umanità sempre in divenire, Rilke ci sussurra che la Bellezza è “l’inizio del terribile che ancora possiamo sopportare”.

Nella musica, Mahler costruisce sinfonie che oscillano tra il lutto e la resurrezione, mentre Arvo Pärt riduce la materia sonora fino al silenzio, perché sia lo spazio interiore a risuonare. E poi il blues, nato dalla ferita collettiva della schiavitù e della segregazione, che trasforma il dolore in canto, in un ritmo che tiene insieme disperazione e gioia. Tutti questi linguaggi ci dicono che la Bellezza autentica non è mai anestetica, non rimuove il dolore, ma lo integra e lo trasfigura.


La contemporaneità e le sue contraddizioni

Nella nostra epoca vediamo emergere due correnti opposte. Da una parte, movimenti come il body positivity e l’arte queer ci ricordano che la Bellezza può essere ferita, imperfetta, non conforme. Questi movimenti affermano che la cicatrice non è un difetto da nascondere, ma un segno di esperienza. Dall’altra parte, la cultura digitale spinge verso una Bellezza artificiale, filtrata, levigata, dove ogni imperfezione viene cancellata con un tocco di dito.

Hillman ci invita a essere vigili: «Quando la Bellezza diventa solo apparenza, perde la sua anima. E senza anima, non ci resta che un’immagine vuota» (La politica della bellezza, Adelphi, 2019, p. 45). In questa tensione tra autenticità e artificio, tra vulnerabilità e performance, si gioca il futuro della nostra esperienza estetica.

La pandemia recente ha mostrato quanto il trauma possa cambiare la percezione estetica: mascherine, ospedali, distanza sociale hanno trasformato anche il nostro rapporto con i corpi e con la prossimità. Eppure, da quel trauma sono nate nuove forme artistiche, nuove narrazioni, una maggiore sensibilità verso il dolore dell’altro. È come se, collettivamente, avessimo fatto una piccola discesa agli inferi, e ora stessimo cercando un modo per tornare alla luce senza negare ciò che abbiamo visto.


Estetica del sublime e della ferita

La Bellezza che nasce dalla ferita ha una parentela stretta con l’esperienza del sublime. Edmund Burke e Immanuel Kant avevano già colto questa differenza: mentre il bello tradizionale è armonia e proporzione, il sublime è ciò che ci travolge, ciò che ci fa sentire piccoli di fronte alla vastità o alla potenza.

Bataille va oltre: «Il bello e l’orrendo non sono opposti, ma fratelli che condividono la stessa radice nell’eccesso dell’esperienza» (L’erotismo, 1957). Questo significa che l’esperienza estetica più potente non è quella che ci rassicura, ma quella che ci scuote, ci mette di fronte alla morte, al limite, al sacro. Ed è proprio questo che Hillman coglie quando dice: «La Bellezza è l’aspetto accettabile della morte, la sua maschera gentile» (La politica della bellezza, 2019, p. 73).

La Bellezza di Persefone non consola, ma inizia: è un invito a entrare nel territorio sconosciuto della nostra anima, sapendo che da lì usciremo trasformati.


Un cammino più che un traguardo

In tutto questo, emerge una lezione fondamentale: la Bellezza non è mai possedimento, è sempre relazione e processo. Non è qualcosa che possiamo fissare una volta per tutte, come un trofeo su una mensola. È un’esperienza che ci chiede di essere partecipi, di accettare la nostra vulnerabilità, di attraversare la perdita, il dolore, la metamorfosi.

Simone Weil scriveva: «La Bellezza cattura l’anima con una ferita dolce e irresistibile» (La Pesanteur et la grâce, 1947). Questa ferita è il segno che stiamo vivendo, che stiamo lasciando che l’esperienza estetica ci tocchi davvero, senza difese.

Hillman, con il suo linguaggio visionario, riassume così: «La Bellezza è un atto politico dell’anima: ci spinge a prenderci cura di ciò che tocca il cuore, non di ciò che serve al potere o alla vanità» (La politica della bellezza, 2019, p. 39). In un mondo in cui tutto tende a essere merce, la Bellezza autentica diventa resistenza: resistenza al cinismo, alla superficialità, alla riduzione dell’esperienza umana a immagine di consumo.


Conclusione aperta

E allora forse la sfida della nostra epoca non è tanto definire un nuovo ideale di Bellezza, quanto accettare che la Bellezza non è mai una volta per tutte: è un viaggio di andata e ritorno, come quello di Persefone, che ogni anno scende e ritorna, portando vita e morte nello stesso respiro.

Forse il compito dell’arte, della cultura e della filosofia è proprio questo: ricordarci che la Bellezza autentica non esiste senza la ferita, senza l’ombra, senza il rischio di perdersi. Che non c’è luce senza la memoria dell’oscurità.

Se accettiamo questo, la Bellezza diventa compagna di strada: fragile, vulnerabile, ma capace di illuminare la vita anche nei suoi momenti più oscuri. E, soprattutto, ci insegna che la nostra umanità è inseparabile dal suo dolore: che ciò che temiamo di mostrare – la cicatrice, l’imperfezione, la caduta – è spesso ciò che più profondamente ci rende vivi.

E allora, come scriverebbe Rilke, «Forse siamo qui per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra – al massimo: colonna, torre… ma per dire, capisci, per dire così come le cose stesse mai si sono profondamente pensate» (Elegie Duinesi, 1922). Forse siamo qui per dire la Bellezza, per nominarla non come statua immobile, ma come gesto vivente, sempre in cammino tra luce e ombra.