Il termine “telero”, che nella storia dell’arte rimanda ai grandi dipinti di destinazione pubblica o sacra, viene qui ripensato in senso laico, organico e processuale. Le opere esposte non sono dichiarazioni iconiche, ma superfici vive, attraversate da una sensibilità tellurica che richiama la tensione tra controllo e abbandono, tra gesto umano e forza naturale.
Il fulcro del lavoro di Boero è rappresentato dall’utilizzo di pigmenti naturali, ottenuti da terre, radici, erbe e tuberi, trattati con procedimenti arcaici di bollitura, macerazione e immersione. Questi materiali, una volta preparati, vengono versati o lasciati assorbire da grandi tele grezze, che diventano spugne sensibili e reattive. A differenza della pittura tradizionale, dove il colore è applicato sulla superficie, l’artista innesca un processo in cui la tela incorpora il pigmento come un organismo che si nutre, reagisce e muta.
Il gesto artistico si trasforma in un rituale alchemico, dove il colore non viene imposto ma lasciato agire. Il risultato è una superficie che non esibisce una composizione, ma manifesta una memoria di trasformazioni, una stratigrafia di passaggi chimici e biologici. La tela si fa dunque carne, pelle sensibile, luogo di metamorfosi.
Per Boero, il tempo non è semplicemente un elemento implicito nella pratica artistica, ma è materia stessa dell’opera. Il lungo processo di preparazione dei pigmenti, l’attesa dell’essiccazione, la lenta modificazione della superficie nel tempo fanno sì che ogni telero divenga un organismo vivente. Le sue opere non finiscono con l’atto creativo, ma continuano a evolversi, ossidarsi, trasformarsi.
In questo senso, la sua pittura sfida la logica della fissità dell’opera d’arte e si pone invece in dialogo con una visione biologica e aperta della forma. Ogni tela è un archivio temporale, una topografia delle mutazioni. Il ciclo naturale – vita, decomposizione, rinascita – viene incorporato nella logica stessa della pittura.
I cicli esposti a Macerata testimoniano la varietà di questa ricerca pluridecennale: opere come le "Criptiche", "Teleri" e "Cromogrammi" manifestano differenti declinazioni della stessa poetica. Le "Criptiche" esplorano il segno e la scrittura, in una sorta di calligrafia della materia, mentre i "Teleri" affermano la spazialità immersiva del colore assorbito. I "Cromogrammi" si avvicinano a una cartografia astrale, in cui il colore agisce come traccia e tracimazione.
Ogni ciclo è un laboratorio. L’artista mette a punto formule, verifica reazioni, osserva le sedimentazioni. Lo studio diviene campo di prova, e la tela diventa testimone di una pratica che unisce rigore sperimentale e abbandono poetico.
La pratica di Renata Boero attinge a una dimensione rituale arcaica, in cui l’artista diventa mediatrice tra il mondo naturale e quello umano. La preparazione dei pigmenti attraverso bolliture, decantazioni e fermentazioni rimanda a pratiche sciamaniche e alchemiche, a un sapere dimenticato che unisce donna, terra e gesto.
Non è casuale che il suo lavoro sia spesso stato letto in chiave spirituale, come una forma di dialogo con l’invisibile. Boero non rappresenta la natura, ma la lascia agire, la lascia depositare il proprio linguaggio sulla superficie della tela. Il risultato è una sorta di paesaggio interiore della materia, una meditazione visiva.
Pur senza mai assumere una retorica ideologica, il lavoro di Boero ha una valenza profondamente politica, nel senso etimologico del termine: è un atto che riguarda la comunità. In un mondo dominato dalla produzione industriale, dall’ipertecnologizzazione del fare artistico, dalla velocità, Boero sceglie la lentezza, la manualità, l’impurità dei materiali, la precarietà della forma.
In questo senso, la sua pittura è anche una dichiarazione ecologica. Non si tratta solo dell’uso di pigmenti naturali, ma di una concezione dell’arte come alleanza con il vivente, come processo in ascolto dell’ambiente. L’opera non si impone sulla natura, ma vi si lascia attraversare.
Non va dimenticato il ruolo fondamentale che Boero ha avuto come docente all’Accademia di Brera. Lontana da ogni accademismo, ha saputo trasmettere un sapere incarnato, fatto di corpo, tatto, odore, rischio. Il laboratorio, per Boero, non è un luogo chiuso ma una zona di transito.
La sua idea di insegnamento ha influenzato generazioni di artisti e artiste, promuovendo una pedagogia della materia, della lentezza e della consapevolezza sensoriale. È in questa dimensione di trasmissione che la sua ricerca ha assunto un valore ancora più radicale: non solo come opera, ma come esperienza condivisa.
La pratica di Renata Boero dialoga, spesso inconsapevolmente, con alcune delle più importanti riflessioni del pensiero contemporaneo. Dal punto di vista filosofico, il suo lavoro può essere letto alla luce delle teorie del divenire (Bergson, Deleuze), dell’onto-antropologia del non umano (Descola, Latour) e delle estetiche del processo (Ingold).
L’opera diventa allora un luogo dove soggetto e oggetto si confondono, dove la materia non è inerte ma agente, e dove l’artista non è demiurgo, ma co-autore insieme al mondo. Le tele di Boero sono, in questo senso, non rappresentazioni ma manifestazioni, epifanie della materia in atto.
La mostra curata da Vittoria Coen e Giuliana Pascucci è riuscita a restituire questa complessità, evitando ogni tentazione di monumentalità o celebrazione unilaterale. Il percorso espositivo si snoda in modo fluido, lasciando spazio alla fruizione diretta e silenziosa delle opere. La scelta di privilegiare i grandi teleri, in un dialogo calibrato con lo spazio architettonico del Palazzo Buonaccorsi, rafforza la dimensione immersiva e sensoriale dell’esperienza.
La mostra non propone un’evoluzione cronologica, ma una sorta di mappa emotiva della ricerca dell’artista. Le opere sono accostate per affinità materiche, cromatiche e gestuali, creando una rete di risonanze che permette al visitatore di entrare nel tempo della pittura, nel ritmo interno dei cicli.
Renata Boero ha saputo costruire un linguaggio pittorico assolutamente originale, capace di tenere insieme scienza, arte, spiritualità e politica. La sua tela non è superficie, ma corpo; non supporto, ma soggetto. La materia non è mezzo, ma compagna. In un momento storico in cui la pittura rischia di diventare superficie decorativa o esercizio formale, Boero riporta la pratica artistica a una dimensione primigenia e necessaria: quella dell’alleanza tra essere umano e mondo.
La mostra di Macerata, in questo senso, non celebra solo una carriera, ma restituisce una visione. E ci invita a pensare che, forse, la pittura può ancora essere una forma di conoscenza, un atto di ascolto, una soglia verso l’invisibile.