martedì 5 agosto 2025

GENDER IS OVER ✨️⚧️di ispirazione da "Gender is Over" di Isa Borrelli


“Nomen omen”, scrivevano i latini: il nome è un presagio. Quando un bambino viene al mondo, la prima cosa che riceve non è un abbraccio, né un racconto, ma una definizione: maschio o femmina. Due parole, due caselle, due binari. Tutto sembra naturale, inevitabile, quasi scritto nel DNA. Ma è davvero così?

In realtà, quello è il primo atto di una tecnologia sociale, una mappa di percorsi obbligati. Se sei maschio, dovrai diventare uomo, virile, razionale, competitivo. Se sei femmina, dovrai diventare donna, dolce, accogliente, emotiva. Tutto è già pronto: i giocattoli, i vestiti, persino il tono con cui ti parleranno. È il binarismo: la grande divisione tra i sessi che non è solo un modo di descrivere la realtà, ma un modo di controllarla.

Judith Butler lo ha detto chiaramente: il genere è una performance ripetuta. Non è una verità naturale ma un atto reiterato, un insieme di pratiche, parole, gesti, abiti che vengono appresi e interiorizzati. Nessuno “è” uomo o donna per essenza: si “diventa” tali, secondo un copione sociale. E chi rifiuta quel copione, chi lo reinventa, mette in crisi tutto il sistema.

Paul B. Preciado, in Manifesto contrasessuale, spiega che i corpi non sono solo biologici, ma tecnopolitici: modellati da un insieme di norme, medicine, industrie, persino architetture. La divisione binaria non è un destino naturale, è un progetto culturale che garantisce gerarchie di potere. Donna Haraway, con il suo Manifesto Cyborg, ci invita a immaginare un mondo oltre l’uomo e la donna, oltre il corpo naturale, verso identità ibride, fluide, postumane.

Chi pensa che la fluidità di genere sia un’invenzione moderna dimentica che, prima del colonialismo europeo, molte culture conoscevano identità oltre il binarismo. In India, la comunità hijra esiste da secoli, con ruoli sociali e rituali riconosciuti. In molte popolazioni native americane, le persone Two-Spirit erano rispettate come figure spirituali, capaci di unire energie maschili e femminili. Persino nell’antica Roma e in Grecia esistevano ruoli che oggi definiremmo non binari: basti pensare ai sacerdoti di Cibele o alle figure dell’androgino nei miti platonici.

Il binarismo rigido è un prodotto recente, rafforzato dal cristianesimo e imposto al mondo dal colonialismo, che ha cancellato pratiche e identità locali in nome di un ordine morale universale. In altre parole, non è la fluidità di genere a essere nuova: è il binarismo che è storicamente limitato e politicamente costruito.

Ogni volta che qualcuno rifiuta le categorie imposte, il sistema reagisce. Nel giugno del 1969, un gruppo di persone queer — trans, drag, lesbiche, gay — si ribellò alla polizia nello Stonewall Inn di New York. Fu una rivolta spontanea, nata da anni di umiliazioni, arresti arbitrari e violenze. Tra le figure simbolo, Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera, donne trans nere e latine che hanno lottato in prima linea. Stonewall non fu solo una protesta contro la polizia: fu un atto di rifiuto dell’ordine di genere e sessuale imposto dalla società.

Anche in Italia, sebbene meno visibile, il movimento trans ha avuto figure fondamentali: Porpora Marcasciano, attivista e scrittrice, ha dato voce a generazioni di persone trans* invisibilizzate. Il MIT (Movimento Identità Trans) di Bologna è stato, dagli anni ’80, uno dei primi centri di supporto per la comunità trans in Europa. Queste storie ci ricordano che i corpi non conformi non sono “nuove mode”, ma soggetti politici, agenti di cambiamento sociale.

Le parole non sono mai neutre. Adrienne Rich sosteneva che “quando una donna parla con la propria voce, rompe il silenzio imposto”. Oggi, il dibattito sull’uso della schwa (ə), dell’asterisco o dei pronomi neutri è parte di questa lotta. Non si tratta di moda, ma di esistenza: senza parole, non c’è identità.

Chi si oppone dice che la lingua italiana è sacra, immutabile. Ma dimentica che la lingua è sempre cambiata: il “Lei” formale, il passaggio dal latino all’italiano, persino parole come “selfie” o “computer” un tempo non esistevano. Allora perché cambiare la lingua per includere chi è escluso dovrebbe essere un problema? Perché il linguaggio tocca il potere: chi nomina, definisce; chi definisce, controlla. Dare spazio linguistico alle persone non binarie significa riconoscerne l’esistenza.

L’Italia ha avuto una legge pionieristica nel 1982 (la cosiddetta legge 164) che consentiva il cambio di genere anagrafico, ma a condizioni mediche e giudiziarie restrittive. Quarant’anni dopo, quella legge è ormai obsoleta: richiede spesso la sterilizzazione, lunghi processi, e non contempla identità non binarie. Altri Paesi hanno scelto l’autodeterminazione: basta una dichiarazione per modificare i documenti, senza obbligo di chirurgia o diagnosi psichiatrica.

Il DDL Zan, che avrebbe introdotto tutele contro la discriminazione per identità di genere e orientamento sessuale, è stato affossato nel 2021 tra applausi in Senato. Un momento simbolico di resistenza al cambiamento. Eppure, la società civile si muove: i movimenti transfemministi, Non una di meno, le piazze per i diritti LGBTQIA+ dimostrano che una parte del Paese è pronta.

Per le persone trans* e non binarie, il corpo è il primo manifesto politico. È lì che il genere viene contestato, reinventato, liberato. Può essere un percorso con ormoni, chirurgia, abiti non convenzionali, oppure la scelta di non intervenire e di affermare che il corpo è valido così com’è.

Preciado descrive il corpo come “farmacopornografico”: costruito e controllato da tecnologie, dalla pillola anticoncezionale ai filtri Instagram. In questo contesto, modificare il corpo diventa un atto di sovversione, un modo per sottrarsi alle aspettative del binarismo e creare un sé autentico, fuori dalle logiche del controllo.

Il binarismo non influenza solo l’identità, ma anche il desiderio. Adrienne Rich parlava di “eterosessualità obbligatoria”: la presunzione che l’unico amore legittimo sia quello tra uomo e donna. Questo modello esclude tutte le altre possibilità: relazioni lesbiche, gay, bisessuali, pan, poliamorose, queer.

Liberare il genere significa liberare anche il desiderio: permettere di amare senza giustificazioni, di formare famiglie scelte, non imposte. Significa accettare che l’amore non è un’eccezione da giustificare, ma una forza creativa che prende forme infinite.

Immaginare una società de-genderizzata non è abolire le identità, ma rimuovere la loro imposizione. È costruire spazi dove tutti possano essere liberi di esplorare, senza paura di esclusione o violenza. Non è utopia: è un processo già iniziato. Ogni pronome scelto liberamente, ogni ragazzo che si trucca senza sentirsi giudicato, ogni bambina che gioca a calcio senza che nessuno le dica “non è da femmine”, sono passi concreti verso questa trasformazione.

Una piazza di una città futura. È estate, il sole illumina bancarelle di libri e panchine sotto gli alberi. Ci sono persone di ogni tipo: alcune con capelli colorati, altre in abiti eleganti, altre con vestiti da lavoro, qualcuna in carrozzina, qualcuna mano nella mano con chi ama. C’è un bambino con la gonna che corre verso un adulto con barba e vestito di pizzo, ridendo. Nessuno guarda storto, nessuno fischia, nessuno si sente minacciato.

Sul muro di una biblioteca, un grande murale: “Chiunque tu sia, va bene così”.
In quell’istante, nessuno si sente fuori posto.

Quello non è un mondo senza genere, è un mondo senza paura.
Un mondo in cui finalmente possiamo dire: Gender is over.

Questa non è una fantasia irrealizzabile. È già in corso, nel linguaggio, nelle leggi, nelle scelte individuali. Ogni persona che vive liberamente la propria identità scardina il sistema, lo indebolisce, lo prepara a una trasformazione collettiva. Perché un mondo in cui le differenze non vengono usate per farci del male è un mondo che appartiene a tutti.