lunedì 4 agosto 2025

L’arte al tempo dell’intrattenimento soft: estetica, società dello spettacolo e l’illusione della partecipazione

Il saggio affronta in maniera critica il progressivo slittamento dell’arte contemporanea verso una forma di intrattenimento leggero, semplificato, sempre più conforme alle logiche della società dello spettacolo, dove ciò che conta non è l’atto creativo in sé, ma la sua capacità di generare consenso, emozione codificata e condivisione rapida. Prendendo spunto dall’intervento di Christian Caliandro su Artribune, il testo si interroga sulle dinamiche che hanno portato l’arte a trasformarsi in un “giochino sofisticato” – un dispositivo apparentemente colto e socialmente impegnato, ma in realtà spesso svuotato di reale potenza critica.

L’analisi si articola in più direzioni: da un lato, viene ricostruita la genealogia della spettacolarizzazione culturale, con riferimento a teorie fondamentali come quella di Guy Debord, e all’istituzionalizzazione delle pratiche artistiche in un contesto neoliberale e postmoderno. Dall’altro, viene messo in discussione il ruolo attuale di curatori, critici e operatori culturali, divenuti figure chiave nella produzione di un’estetica del consenso. A ciò si aggiunge un’esplorazione delle retoriche partecipative e dei linguaggi dell’inclusività, oggi adottati come maschera di neutralizzazione simbolica.

Il saggio propone anche una ricognizione di pratiche artistiche che, pur operando nel presente, tentano di sottrarsi al paradigma dell’arte-evento: lavori che insistono sul silenzio, sull’assenza, sull’attesa, sull’opacità del significato, come nel caso delle opere di Mark Dion, Gian Maria Tosatti, Adrian Paci o Francesco Arena. Tali esperienze delineano una possibile via alternativa, fondata non sul rifiuto spettacolare dello spettacolo, ma su una forma di resistenza discreta, capace di riattivare la funzione perturbante e non conciliata dell’arte.

In conclusione, il testo suggerisce che la sopravvivenza stessa dell’arte come pratica simbolica autonoma dipenda oggi dalla sua capacità di non cedere alle logiche della visibilità immediata e di tornare a essere un gesto in perdita, fragile, irriducibile alla logica della fruizione. Solo in questo scarto, forse, può riemergere l’urgenza dell’arte come luogo reale di esperienza, di critica e di trasformazione.


L’arte al tempo dell’intrattenimento soft: estetica, società dello spettacolo e l’illusione della partecipazione

I. Introduzione – Lo spettacolo come destino dell’arte

Il nostro tempo non ama essere disturbato. Predilige il gradevole, il fluido, il condivisibile. Preferisce essere intrattenuto piuttosto che interpellato. Anche l’arte – da sempre fucina di inquietudini, ambiguità e urgenze – sembra essersi adeguata a questa deriva, diventando una componente perfettamente integrata nell’industria del tempo libero. Il museo diventa un contenitore esperienziale; l’opera, un pretesto per selfie e hashtag; la performance, un appuntamento da calendario con aperitivo incluso. L’arte contemporanea, secondo la lettura critica proposta da Christian Caliandro su Artribune, si è piegata alle regole non scritte della “società dello spettacolo soft”, perdendo gran parte della sua forza dissonante, della sua capacità di turbare, sovvertire, produrre fratture cognitive.

Non si tratta semplicemente di una trasformazione formale. È una mutazione che riguarda il rapporto stesso tra arte e società, arte e pubblico, arte e potere. L’artista non è più figura eccentrica e liminale, ma attore socialmente integrato, spesso complice di un’estetica del consenso. La sua opera non vuole più creare attrito, ma essere compresa, apprezzata, magari perfino amata. È il trionfo dell’arte come “giochino sofisticato”, per usare la definizione icastica di Caliandro. Un gioco che simula profondità, ma in realtà si consuma nel gesto effimero della fruizione-spettacolo.

II. Spettacolarizzazione e cultura visiva: una genealogia inquieta

Per comprendere come si sia arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro e ripercorrere brevemente le tappe della spettacolarizzazione dell’arte. Il riferimento obbligato è Guy Debord e la sua Società dello spettacolo (1967), dove il filosofo situazionista descriveva una realtà in cui la vita viene progressivamente sostituita dalla sua rappresentazione. “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”, scrive Debord. L’arte, da questo punto di vista, diventa un’ulteriore forma di alienazione: non uno spazio di libertà, ma un altro ingranaggio nella macchina delle immagini.

Negli anni Ottanta e Novanta, l’avvento del neoliberalismo e della cultura postmoderna ha accentuato questo processo. L’opera d’arte è diventata oggetto di marketing culturale, veicolo per politiche urbane, strumento per generare capitale simbolico. Il sistema dell’arte ha assorbito linguaggi e strategie dell’industria dell’intrattenimento, dal format espositivo alla mediazione narrativa. Anche le estetiche “radicali” sono state inglobate e trasformate in stile. L’arte relazionale di Bourriaud, ad esempio, ha aperto la strada a un’estetica della partecipazione spesso addomesticata, dove il pubblico gioca un ruolo attivo solo in apparenza.

Il risultato è un panorama in cui la provocazione è prevista, la critica è parte dello spettacolo, il dissenso è performativo. Il museo, da tempio del silenzio e della contemplazione, si trasforma in un parco tematico dove l’interazione è coreografata. Le opere, da oggetti di riflessione, diventano eventi: post da condividere, “esperienze immersive”, occasioni per “stare bene con l’arte”. Tutto questo produce un effetto paradossale: l’arte è ovunque, ma non incide più su nulla.

III. L’arte come soft-power culturale: estetica e ideologia del consenso

Nel nuovo scenario della società post-mediale, in cui l’immagine è ormai la forma dominante del pensiero, l’arte ha assunto sempre più il ruolo di interfaccia tra cultura e consenso. Se un tempo si chiedeva all’opera d’arte di destabilizzare, oggi si chiede che accompagni le trasformazioni sociali con grazia, stile, e senza scossoni. Un’arte “al passo coi tempi”, aggiornata nei temi, ma sempre attenta a non disturbare il pubblico e a non mettere in discussione le gerarchie reali del potere simbolico. L’arte si fa quindi attualità travestita da profondità.

Si assiste a un paradosso solo apparente: quanto più l’arte sembra affrontare temi urgenti – giustizia sociale, ecologia, identità di genere, postcolonialismo – tanto più lo fa in una forma che rimuove il conflitto reale. La messa in scena del problema sostituisce la sua reale analisi. L’indignazione viene coreografata, il trauma estetizzato, la denuncia ritualizzata. Il visitatore si sente “coinvolto”, ma esce dalla mostra esattamente com’era entrato. Il gesto artistico si consuma tutto nell’esperienza estetica controllata, senza produrre conseguenze né dentro né fuori l’opera.

È in questo contesto che si può parlare di una nuova forma di arte come “soft power culturale”, una potenza simbolica che legittima le narrazioni dominanti attraverso la simulazione del dissenso. I musei diventano teatri del possibile, in cui tutto è detto, ma nulla è fatto. Le biennali, i festival, le grandi retrospettive sono macchine retoriche che mettono in scena l’inclusività e la coscienza critica, ma solo nei limiti dell’accettabilità culturale. La vera posta in gioco – il potere, la proprietà, la violenza sistemica – resta fuori campo.

IV. Il ruolo degli intermediari: curatori, critici, istituzioni

In questa macchina complessa che è il sistema dell’arte contemporanea, un ruolo fondamentale è svolto dagli intermediari del senso: curatori, critici, giornalisti culturali, direttori di musei, persino influencer e divulgatori. Sono loro a decidere quali pratiche artistiche debbano essere visibili, quali tematiche siano “calde”, quali codici comunicativi risultino compatibili con il pubblico e con il mercato.

La figura del curatore, in particolare, si è trasformata radicalmente negli ultimi vent’anni. Da intellettuale capace di articolare un pensiero critico, è diventato spesso un producer di esperienze, un manager della significazione. Il curatore contemporaneo è un organizzatore dell’affetto, un selezionatore di atmosfere, un regista dell’empatia. Non si occupa più tanto di arte, quanto di format culturali capaci di catturare l’attenzione di media e sponsor.

Questa mutazione ha profonde implicazioni politiche. Perché se l’artista perde la sua funzione disturbante, e il curatore diventa un professionista dell’intrattenimento intellettuale, allora si spezza il legame che un tempo univa arte e critica della realtà. L’opera non è più un luogo di tensione, ma di consenso. E chi si oppone a questa logica rischia di restare fuori dal sistema, invisibile, marginale, oppure bollato come “antiquato”, “non aggiornato”, “troppo ideologico”.

Il risultato è un sistema autoreferenziale, dove l’estetica del dissenso è diventata una nicchia di mercato e l’unica trasgressione ammessa è quella compatibile con la sponsorizzazione.

V. Strategie di resistenza: fratture, omissioni, fughe

Eppure, non tutto è perduto. In mezzo al frastuono dell’intrattenimento soft, alcune pratiche artistiche resistono. Resistono non gridando più forte, ma scegliendo il silenzio, la sottrazione, la marginalità. Resistono non cercando il pubblico, ma rifiutando l’idea stessa di audience come target. Sono esperienze che non cercano di rappresentare il mondo, ma di abitare le sue fratture.

Artisti come Mark Dion, Gian Maria Tosatti, Leone Contini, Adrian Paci, o i più giovani che lavorano sull’effimero, sull’archivio, sulla memoria orale, stanno tentando – spesso lontano dai riflettori – di recuperare una funzione critica e meditativa dell’arte. Non sempre ci riescono, e non sempre sfuggono alle logiche del mercato. Ma pongono una domanda scomoda: cosa può ancora fare l’arte, oggi, se non vuole diventare uno spettacolo inoffensivo?

Alcuni scelgono il ritiro, l’invisibilità. Altri costruiscono opere che non si lasciano fotografare, che si sottraggono allo scatto condiviso, che chiedono tempo, fatica, attenzione. Non sono contro il pubblico, ma rifiutano il pubblico come spettatore passivo. Vogliono creare luoghi di esperienza condivisa, non di consumo. E forse proprio qui si apre uno spiraglio, una possibilità. Perché se l’arte ha ancora un senso, oggi, lo ha solo se riesce a sfuggire alla logica della performance e tornare ad essere gesto fragile, vulnerabile, radicalmente umano.

VI. Controcanti dello spettacolo: casi di resistenza silenziosa

Nell’ambito delle pratiche artistiche contemporanee, si possono individuare alcune traiettorie che sfuggono consapevolmente alla retorica dell’esperienza e alla spettacolarizzazione soft. Non si tratta di un “movimento” nel senso tradizionale del termine, ma di un territorio disseminato di gesti controcorrente, spesso poco visibili, raramente celebrati.

Un esempio significativo è il lavoro di Mark Dion, che ha fatto della critica alla musealizzazione e alla tassonomia scientifica il suo strumento artistico. Le sue installazioni – ricostruzioni pseudo-naturalistiche, archivi fittizi, microcosmi collezionistici – non offrono un messaggio chiaro, né un’esperienza coinvolgente in senso immersivo. Piuttosto, pongono domande sul sapere, sul potere, sull’ossessione occidentale per il controllo della natura. L’interazione con l’opera non avviene sul piano emotivo o spettacolare, ma su quello critico e concettuale.

Un altro esempio è quello di Gian Maria Tosatti, artista italiano che ha scelto spesso di lavorare fuori dai circuiti dell’arte istituzionale. Le sue opere ambientali, come My Dreams, They’ll Never Surrender, sono pensate per un solo visitatore alla volta, in uno spazio isolato, per un tempo prolungato. L’opera esiste nella relazione, non nella documentazione; e proprio per questo, sfugge alla logica dell’evento, del social, dell’istantanea.

Anche pratiche più poetiche, come quelle di Francesco Arena o Leonardo Petrucci, lavorano su materiali minimi, sull’invisibile, sull’eco di qualcosa che non c’è più. Sono opere che chiedono silenzio, che interrogano il tempo e lo spazio senza promettere nulla. In un’epoca di iper-visibilità, questa scelta ha un significato politico profondo.

Questi casi non rappresentano un’alternativa al sistema, ma una tensione interna, un desiderio di rovesciare le sue logiche dall’interno. Non sono “anti-spettacolari” per principio, ma perché avvertono l’urgenza di restituire all’arte la sua funzione non utilitaristica, la sua capacità di abitare il vuoto, la mancanza, l’attesa.

VII. Conclusione – Ripensare l’arte, sottrarla al soft

In un’epoca in cui tutto è offerto come esperienza, l’arte corre il rischio di diventare il gadget mentale del capitalismo postmoderno: un simulacro del pensiero, un luogo sicuro in cui fingere di essere critici, mentre si consuma il rituale della fruizione.

Ma l’arte non è un servizio. Non è nemmeno una terapia, né un commento al presente. L’arte, nella sua forma più autentica, è un gesto eccedente, un atto che non serve a nulla se non a infrangere la superficie del già noto. E proprio per questo, è insopportabile al sistema dello spettacolo, anche quando lo spettacolo si presenta in abiti progressisti, partecipativi, empatici.

Che cosa può ancora l’arte, allora? Può ancora sottrarsi. Può ancora scegliere la marginalità, il balbettio, la lentezza, la noia. Può ancora mettere in scena il fallimento della comunicazione invece della sua fluidità. Può non cercare pubblico, ma incontrarlo accidentalmente, come si incontrano le rovine in un paesaggio.

Il compito dell’artista non è più quello di rappresentare il mondo o di denunciarne le ingiustizie, ma di mettere in crisi i dispositivi che lo rendono invisibile, di disarticolare il linguaggio, di mostrare l’ombra che resta fuori dalla narrazione. In questo, forse, risiede una nuova forma di speranza: un’arte che non consola, ma inquieta. Non spiega, ma disturba. Non celebra, ma ferisce.

E forse, solo allora, tornerà a essere necessaria.


Postfazione tematica – Dell’arte come esercizio di sparizione  

L’arte, in questa fase storica, non è tanto chiamata a dire di più, ma a tacere diversamente. L’eccesso di comunicazione che caratterizza la nostra epoca ha reso l’opacità un valore, il silenzio un gesto, l’invisibilità un atto politico. In un sistema che metabolizza ogni contenuto trasformandolo in segno, prodotto, interazione, la possibilità che l’arte sopravviva come esperienza trasformativa dipende dalla sua capacità di sottrarsi alla visibilità obbligata, alla legittimazione istantanea, alla narrabilità semplificata.

Non si tratta di eludere la realtà, né di rifugiarsi in un estetismo disincarnato, ma al contrario di coltivare un’altra forma di presenza, una presenza che accade nel margine, nell’incompiuto, nell’interruzione del discorso dominante. L’artista, oggi, ha forse il compito più ingrato e insieme più necessario: non quello di rappresentare il mondo o di offrirne una versione alternativa, ma quello di introdurre uno scarto, una fenditura, una vertigine nella superficie liscia dell’evidenza.

Ciò che viene richiesto all’arte non è più di "parlare" dei temi caldi – clima, guerra, genere, identità, capitalismo – quanto piuttosto di disinnescare le forme con cui quei temi vengono spettacolarizzati e addomesticati. L’opera autenticamente resistente non è quella che urla più forte, né quella che si mostra più aggiornata, ma quella che disattiva le coreografie del senso comune, quella che ritrae il gesto, che rifiuta l'efficacia, che ritarda la gratificazione. È un’arte che non consola né spiega, ma inquieta e disorienta. E che, proprio per questo, libera.

Nella sua più profonda vocazione, l’arte non ha mai cercato consenso, né applausi. Ha cercato – e cerca ancora – una forma altra di verità, che non si lascia dire, né vendere, né raccontare. Una verità che brucia piano, come le immagini che si formano lentamente sul fondo della coscienza. Per questo, oggi più che mai, l’arte non deve inseguire il pubblico, ma rinunciare alla centralità, per riconquistare la possibilità di essere luogo inabitabile, spazio di latenza, esercizio di sparizione.

Chi pratica questo tipo di arte non cerca “audience”, ma incontri occasionali e non garantiti. Non partecipa a un dibattito, ma incarna un gesto. Non si allea con il sistema, ma con il tempo. La lentezza, la difficoltà, la marginalità non sono ostacoli, ma forme di resistenza etica ed estetica. Perché solo dove l’opera resiste alla cattura, qualcosa può ancora accadere. L’invisibile può mostrarsi solo là dove non lo si pretende. E ciò che non serve – ciò che non è redditizio, né virale, né spiegabile – può ancora, paradossalmente, servire come apertura dell’impossibile.

L’arte contemporanea, se vuole davvero restare contemporanea, deve diventare meno “attuale”, meno allineata, meno disponibile. Deve reimparare a dire no. E nel suo no muto, ostinato, non spettacolare, custodisce ancora il germe della sua necessità.