mercoledì 13 agosto 2025

Rosemary's Baby" e l'anatomia del Male: Faust, maternità, borghesia e nichilismo in Polanski


Premessa

Nel 1969, Roman Polanski mette in scena con "Rosemary's Baby" un'opera che si impone ben oltre i limiti del genere horror. Si tratta di una lente d'ingrandimento, incandescente e lucida, sulle strutture invisibili del potere sociale e simbolico nella società americana di fine anni Sessanta. Basandosi sull'omonimo romanzo di Ira Levin (1967), Polanski costruisce una sinfonia dell'angoscia che mescola elementi del mito faustiano, suggestioni nietzschiane, critica della borghesia americana e un cupo affondo sulla figura della maternità. Il film è un'analisi del Male, e del suo habitat: la domesticità borghese, la rispettabilità, la quieta e corrotta civiltà dei consumi. Un'opera che, travalicando i generi, assume i contorni di un'allegoria sociale, una parabola sulla spiritualità soppressa e la crisi dell'individualità nella modernità.

I. Il mito di Faust e la sua mutazione borghese

Il patto con il diavolo è antico quanto la letteratura occidentale moderna. Goethe ha reso Faust un emblema della modernità inquieta, mentre Thomas Mann, in "Doktor Faustus", ne ha fatto l’allegoria del nazismo e della decadenza dell’Occidente. Ma cosa accade in Polanski? Qui Faust non è più l’intellettuale tragico, bensì un mediocre attore teatrale, Guy Woodhouse, che accetta un compromesso abietto non per la conoscenza o per l'arte, ma per ottenere un ruolo in uno spettacolo. Invece dell’anima, offre il corpo della moglie.

Il gesto di Guy è infinitamente più triviale, e proprio per questo più spaventoso. Non è la grandezza dell'ambizione a motivarlo, ma la piccolezza del desiderio: essere visto, essere ammirato. Il Male si insinua dove l’orizzonte spirituale è stato livellato. Polanski ci dice che la borghesia moderna non sogna più Prometeo: sogna la pubblicità, la notorietà, il riconoscimento pubblico. In cambio è disposta a svendere ciò che resta di sacro.

La leggenda faustiana viene quindi contaminata dalla quotidianità banale del capitalismo americano, dove il desiderio di emergere diventa un motivo sufficiente per una rinuncia definitiva, totale. Non ci sono più sabba nei boschi o caverne dell’occulto, ma contratti silenziosi stipulati nei salotti bene, davanti a una fetta di torta e a un consiglio medico.

Il diavolo non appare: è una comunità. È un condominio. È una generazione. Non si presenta con artigli e zolfo, ma con lo zucchero a velo e l’intonaco color crema. Polanski ribalta il paradigma del Male cinematografico: niente demoni, ma una serie di personaggi ordinari, che sorridono e si interessano con apparente bontà alla vita altrui. Questo rende il film infinitamente più angosciante: il Male si nasconde nel bene, lo mima, lo replica con perfezione mostruosa.

Il sacrificio di Rosemary, dunque, non è il frutto di una violenza aperta, ma il risultato di una congiura silenziosa, di uno scivolamento lento nella trappola. Faust, in questo caso, non firma nulla: acconsente con leggerezza, con un'alzata di spalle. Il Male entra dalla porta di servizio, grazie all’indifferenza morale e alla banalità del desiderio.

II. L’invasione del quotidiano: la trappola domestica

L’appartamento newyorchese in cui si trasferiscono i coniugi Woodhouse è, a tutti gli effetti, un personaggio del film. Labirintico, sonoro, invadente, è lo spazio in cui la protagonista, Rosemary, si consuma lentamente, preda di una comunità apparentemente gentile, in realtà sinistramente coesa. L’edificio è popolato da figure grottesche, una borghesia anziana che si muove con gentilezza untuosa, curiosità invadente, ed è sempre presente, sempre attenta, sempre silenziosamente in controllo.

Qui Polanski compie un rovesciamento radicale del linguaggio horror: non c’è il castello gotico, ma l’arredamento elegante; non il cimitero, ma la cucina. Il Male è cortese, prende il tè, consiglia dottori, aiuta con le spese. In questo senso, "Rosemary's Baby" è un film sul tradimento: il tradimento della comunità, della famiglia, del marito. Ogni figura che dovrebbe proteggere Rosemary si rivela complice dell’inganno. La borghesia diventa, qui, la maschera del satanismo: è essa stessa la setta.

Lo spazio domestico si rivela una trappola, un labirinto di apparente sicurezza in cui la protagonista viene progressivamente espropriata del suo corpo e della sua volontà. La messa in scena è perfetta: ogni dettaglio dell’arredamento, ogni quadro, ogni rumore nel muro contribuisce a creare un clima di sospetto costante. La familiarità diventa inquietudine. Il bagno, la camera da letto, la cucina: ogni luogo abituale diventa sinistro. L’intimità è violata.

C’è una pedagogia sottile nella rappresentazione di questo condominio: non è semplicemente infestato, è complice. La logica dell’edificio, con i suoi corridoi segreti e le pareti sottili, ricalca la struttura di una prigione. Rosemary è osservata, spiata, costantemente interpretata dagli altri. Ogni sua azione viene contestualizzata e risignificata da una rete di relazioni invisibili. Non ha più padronanza del proprio spazio. Non ha più rifugi.

Il vicino non è più una garanzia di aiuto, ma una minaccia mascherata. La fiducia, la solidarietà, i rapporti umani si rovesciano nel loro opposto. Il condominio di "Rosemary’s Baby" è la caricatura perfetta del sogno borghese americano: una comunità compatta, rispettabile, benestante... e satanica. L’orrore emerge non dalla periferia, ma dal cuore della società.

III. Maternità e allucinazione: il corpo come campo di battaglia

Il corpo di Rosemary è al centro della narrazione, non solo come spazio fisico, ma come territorio di contesa. È un corpo sorvegliato, medicalizzato, alterato, reso estraneo a se stesso. Polanski riesce a mostrare in modo disturbante come la maternità, nella cultura borghese, sia un fenomeno controllato, espropriato, manipolato. Rosemary non sa cosa le accade. Il dolore è negato, la sua voce delegittimata, i suoi dubbi ridicolizzati. È il paradigma della donna moderna nella gabbia dorata del patriarcato benevolente: tutto è fatto "per il suo bene", e tutto, di fatto, è un abuso.

Il sogno in cui viene posseduta da Satana – una delle sequenze più famose del film – non è solo il racconto di uno stupro rituale. È anche il momento in cui la coscienza individuale viene violata. L’orrore non è solo nella bestialità dell’atto, ma nella sua accettazione sociale: i vicini, il marito, il medico, sono tutti lì, silenziosi, a legittimarlo. Il rito non è segreto, ma pubblico. Non si compie in una cripta, ma nel letto matrimoniale.

La gravidanza si svolge in uno stato di allucinazione continua: Rosemary è sedata, nutrita con beveroni consigliati da Minnie, isolata da chi potrebbe aiutarla, manipolata da ogni figura maschile. La medicina si fa strumento dell’occulto. Il medico diventa sacerdote, ma di un culto capovolto. Ogni sintomo viene negato, ogni lamento è visto come isteria. Il corpo di Rosemary è colonizzato dalla logica di un potere che si spaccia per cura, che trasforma l'abuso in routine.

Il paradosso della maternità in "Rosemary's Baby" è che essa si presenta come il luogo massimo dell’amore e dell’innocenza, ma viene declinata come strumento del Male. La madre non è colei che genera la salvezza, ma colei che nutre la rovina. Non per sua colpa, ma perché ogni scelta le è stata negata. Il corpo femminile viene reso macchina riproduttiva al servizio di un progetto oscuro.

Il figlio di Rosemary non è solo un bambino: è il prodotto di un sistema, la risultante di un’intera società che ha sottomesso la donna, manipolato la medicina, occultato la religione, e infine trasformato la maternità in una forma di servitù biologica. Rosemary partorisce nel buio, ignara, tradita. Il dolore fisico e psichico che attraversa è reso, da Polanski, con una delicatezza agghiacciante. Non c’è enfasi: c’è solo il lento disfacimento della volontà.

IV. Il simbolismo religioso e la morte di Dio: la sacralità rovesciata

Uno degli snodi fondamentali di "Rosemary’s Baby" è la sua relazione implicita e allo stesso tempo frontale con il linguaggio religioso. Il film è costellato di simboli cristiani, parodicamente riutilizzati e travolti in una deriva blasfema e ironicamente ritualistica. Le icone del sacro, che nella cultura americana del secondo dopoguerra rappresentano ancora la dimensione della sicurezza e della giustizia, vengono pervertite in uno scenario che ha tutta l’aria della liturgia invertita. Non c’è un altare, ma c’è una culla nera; non c’è una messa, ma un rito satanico celebrato nel cuore della famiglia borghese.

Il momento in cui, verso il finale, uno degli adepti della setta esclama: “Dio è morto!”, non è solo una citazione colta della filosofia di Nietzsche. È una dichiarazione di poetica del film. Ma attenzione: Polanski non assume una posizione atea o anticristiana in senso ideologico. Piuttosto, ci mostra un mondo in cui il vuoto lasciato dalla divinità è stato immediatamente occupato da altri culti, più banali e più spietati. La borghesia di "Rosemary’s Baby" è una chiesa rovesciata, dove l’unico comandamento è il mantenimento dello status quo, e l’unico rito è il consumo.

La religione è qui il cadavere illustre della civiltà. La sua assenza si sente, non per nostalgia, ma per la glaciale precisione con cui la sua funzione è stata soppressa e redistribuita in altri linguaggi: quello medico, quello mediatico, quello della cura domestica. Il ginecologo diventa confessore, la dieta consigliata si sostituisce alla penitenza, la culla nera prende il posto del presepe. È un rovesciamento sistematico e coerente, che trasforma ogni aspetto della liturgia in procedura, ogni gesto spirituale in rituale borghese.

Il gesto nichilista per eccellenza – la proclamazione della morte di Dio – non si traduce in libertà, ma in schiavitù. Satana non è un’entità romantica, ribelle, ma l’emanazione sistemica di un potere privo di coscienza. Non c’è traccia del diavolo dantesco, tragico o seduttivo: qui Satana è un’entità burocratica, una potenza muta, incarnata dal vicinato, dal ginecologo, dall’intera struttura del quotidiano. La religione, sradicata dalla coscienza collettiva, non lascia dietro di sé un’utopia dell’uomo nuovo, ma un’architettura di dominazione invisibile, pervasiva, ottusa.

In questa struttura, il tempo stesso assume un aspetto liturgico. I gesti si reiterano, i discorsi si ripetono con piccole variazioni. La medicina somministrata ogni giorno, la visita mensile, la cena con i vicini: tutto avviene con una cadenza quasi sacramentale. L’orrore emerge da questa meccanizzazione del vivere. L’assenza di Dio non ha generato caos, ma un ordine alternativo, freddo, impersonale, inviolabile. L’inferno, come scrisse Sartre, sono gli altri – ma in questo caso sono anche la legge, la normalità, la dolcezza dei modi. Il Male non è violento, ma educato. Non urla: bisbiglia. Non impone: consiglia.

Il film è disseminato di croci, ma esse non sono strumenti di protezione. Sono reliquie decorative, residui svuotati di forza. Rosemary indossa una croce, la perde, la ritrova, come se non avesse più alcun significato stabile. I nomi dei personaggi stessi suggeriscono ambiguità sacre: Rosemary, Maria delle rose, evoca immediatamente la Madonna. Ma qui è la Madonna di un nuovo Messia, figlio non del Verbo, ma del Silenzio. Il Silenzio dell’universo. Il Silenzio di Dio.

Rosemary stessa, cresciuta probabilmente in un ambiente cattolico, si aggrappa a immagini religiose nel corso del film. Invoca Dio, sogna la comunione, ricorda l’educazione ricevuta. Ma le sue preghiere non ottengono risposta. Il cielo resta muto. Ogni gesto di speranza si infrange contro la rete del controllo sociale. Questo silenzio divino è il punto cruciale: Rosemary non viene punita, né salvata. È semplicemente ignorata. E questo è il tratto più radicale del nichilismo in scena: non l’assenza di significato, ma la sua rimozione definitiva dal registro del possibile.

Nel mondo rappresentato da Polanski, il sacro non è stato desacralizzato. È stato rovesciato. È diventato il suo contrario. Non si tratta di un mondo ateo, ma di un mondo posseduto. L’assenza di Dio è una presenza costante, un vuoto che si espande e prende forma nei corpi, negli oggetti, nelle parole. La borghesia non è anticristiana: è post-cristiana. Ha incorporato ogni segno della fede, ne ha fatto una maschera.

Eppure, nella figura della madre che decide infine di allattare il figlio dell’Anticristo, vi è forse il solo gesto spirituale rimasto: un amore che non chiede spiegazioni, che resiste persino alla verità. È una Madonna tragica, senza aureola né grazia, che continua a cullare anche ciò che annuncia la fine del mondo. Una maternità al di là del bene e del male, che riapre – forse – una via alla compassione. Ma anche questo è ambiguo. La religione non è tornata: è mutata in affetto primario, in istinto. Il sacro è diventato corporeo, immanente, animale. In questo, il film segna un punto di non ritorno nella rappresentazione della fede.

La croce è caduta, ma qualcosa resta. Resta il gesto della cura. Resta la pietà. Resta un amore che forse è cieco, forse è condannato, ma che resiste. La madre, ultimo baluardo del sacro, è anche l’ultima prigioniera del Male. Rosemary non fugge, non uccide, non denuncia. Allatta. E questo atto, che potrebbe essere l’ennesima sottomissione, è anche un’icona dissonante: un gesto che il Male non può controllare del tutto.

V. Dopo Dio: il dominio del Consumo e la secolarizzazione della paura

Se in “Rosemary’s Baby” la frase “Dio è morto” rappresenta il perno filosofico della narrazione, ciò che segue questa morte non è il caos, né la rivolta, ma l’avvento di un ordine alternativo fondato sul consumo, sull’apparenza e sull’omologazione. In questa nuova economia spirituale, il Male non si presenta più come l’eccezione o la trasgressione, ma come la norma: è perfettamente integrato, addomesticato, reso compatibile con i desideri socialmente accettabili. Satana, in Polanski, è il volto quieto della rispettabilità.

L’intero film può essere letto come un’apologia capovolta della civiltà dei consumi. La casa acquistata dai coniugi Woodhouse è un bene di prestigio, e l’intero edificio è descritto fin dall’inizio come desiderabile, appetibile, oggetto di una competizione borghese. La maternità stessa è presentata non come un evento naturale o esistenziale, ma come un progetto domestico, pianificato e desiderato secondo una logica performativa: avere un bambino, come avere una carriera, un marito, un salotto accogliente. In questo senso, la possessione del corpo di Rosemary da parte delle forze demoniache è la metafora perfetta della reificazione del soggetto nella società capitalista: la donna è un contenitore, uno spazio in cui si investe, si produce, si alleva.

Il desiderio di successo del marito Guy – modesto attore che stringe un patto col Male per ottenere notorietà – è il corollario perfetto di questo meccanismo: il talento, l’arte, l’impegno non bastano. Occorre inserirsi nel mercato. E il prezzo d’ingresso è la cessione di ogni residuo etico. In questo senso, "Rosemary’s Baby" è un film eminentemente politico: mette in scena la logica del capitalismo avanzato nella sua versione più seducente e perversa, in cui la merce non è più solo l’oggetto, ma il corpo stesso della donna, la sua funzione riproduttiva, la sua possibilità di diventare madre.

Ma Polanski non si limita alla denuncia sociale: costruisce una liturgia laica del consumo. Ogni elemento scenico – dai mobili al cibo, dai vestiti ai cosmetici – è un’esposizione continua di oggetti feticcio, tutti incorniciati nella luce calda dell’eleganza borghese. Il Male non vive nei sotterranei: è in vetrina. È nell’estetica dell’appartamento, nella compostezza delle cene tra vicini, nella cortesia ipocrita delle conversazioni. Il consumismo, qui, si è trasformato in codice morale: ciò che è bello, ordinato, curato, deve essere anche buono. Ma è proprio questa equazione a venire capovolta dal film: il Male è tanto più efficace quanto più è ben arredato.

Ogni dettaglio dell'ambiente domestico parla il linguaggio del comfort e del benessere, ma cela una dimensione profondamente sacrilega. La cucina ordinata, il bagno impeccabile, la camera da letto arredata con gusto: questi spazi non sono neutri. Sono spazi investiti da un'economia affettiva e simbolica che veicola la rassicurazione come ideologia. È attraverso l'estetica del benessere che il Male si insinua: non con lo spavento, ma con la promessa di stabilità. La borghesia è qui ritratta non come classe sociale, ma come una cultura del dominio soft, dove ogni gesto è codificato, ogni parola addomesticata, ogni pensiero già incanalato in uno script di rispettabilità.

La secolarizzazione della paura in “Rosemary’s Baby” passa proprio per questa estetizzazione dell’orrore. Non ci sono apparizioni, mostri, spargimenti di sangue. L’angoscia nasce dallo shopping, dalle visite mediche, dai biscotti offerti dai vicini. È una paura depotenziata e dunque più insinuante, perché non ha bisogno di travestimenti: è parte dell’arredamento. La borghesia non è più una classe sociale, ma una struttura rituale, un sistema di pratiche e di oggetti attraverso i quali si esercita il potere.

Un potere che è capillare, silenzioso, perfettamente interiorizzato. Rosemary non è perseguitata da un mostro esterno, ma da una rete di attenzioni, cure, sguardi premurosi che gradualmente la svuotano della propria soggettività. Ogni preoccupazione per la sua salute è in realtà un controllo. Ogni gesto di gentilezza, un'espropriazione. In questo senso, la struttura narrativa del film rispecchia la struttura della società dei consumi: non ti opprime, ti seduce. Non ti impone, ti convince. Non ti comanda, ti protegge. Il capitalismo in "Rosemary’s Baby" ha raggiunto la sua forma più perfetta: ha fatto scomparire il conflitto.

Il bambino figlio del demonio è dunque il prodotto più perfetto di questa economia: è il futuro dell’umanità secondo i canoni della riproduzione capitalistica. Nato in una casa borghese, allevato da una comunità coesa, accudito da una madre che alla fine – pur consapevole – decide comunque di prendersene cura. È l’icona di un’epoca che ha sostituito il Dio Trascendente con il Dio del Mercato: impersonale, onnipresente, concreto. La sua culla nera è il nuovo tabernacolo: contiene la promessa di una nuova religione fatta di bisogni indotti, sicurezza illusoria e pace apparente.

Persino l’iconografia che circonda il bambino – la culla, il vestito, la stanza – è curata nei minimi dettagli. È un altare rovesciato, dove l’innocenza è strumentalizzata. In questo mondo senza Dio, Satana non è il caos: è l’ordine. Un ordine senza trascendenza, senza misericordia, senza destino. L'unica salvezza possibile è la resa estetica, l'inclusione nel sistema. Rosemary, che in un'altra narrazione avrebbe potuto essere la martire, la ribelle o la santa, qui è la madre: colei che, alla fine, accetta.

E così il film si chiude su una nota stridente e irrisolta. Non con una condanna esplicita, ma con un’inquietudine che resta sospesa. La maternità, piegata al sistema, diventa l'ultimo dispositivo della nuova religione del consumo. Non si tratta più di scegliere tra bene e male, ma tra appartenenza e solitudine. Rosemary sceglie – o forse non ha scelta – di restare. Di accudire. Di partecipare.

Polanski chiude il film senza redenzione, ma con un ultimo gesto di ambiguità: il sorriso di Rosemary, mentre guarda il bambino. È l'accettazione? È la rassegnazione? È la resurrezione dell'amore materno che resiste al Male? Non c'è risposta. Ma ciò che resta chiaro è che la fine della trascendenza ha lasciato il campo a una nuova, pervasiva forma di religione – una religione che non chiede fede, ma adesione quotidiana, desiderio, identità costruite sull’apparenza. E in questa religione, come in ogni culto ben progettato, non esiste eresia: solo consumo.

VI. L’estetica dell’ambiguità e la regia di Polanski: la forma come dispositivo di disorientamento morale

Uno dei tratti più inquietanti e sottili di “Rosemary’s Baby” è il suo persistente rifiuto della certezza. Il film non è un manifesto né un pamphlet satanista, non è un horror nel senso tradizionale, e non è nemmeno un’opera di denuncia sociale a tesi. È piuttosto un dispositivo narrativo ambiguo, costruito da Polanski con una precisione formale tale da mimetizzare il terrore dentro una quotidianità apparentemente neutra. Il regista lavora con l’ossessione della plausibilità: ogni evento potrebbe avere una spiegazione razionale, ogni sospetto potrebbe essere paranoia, ogni certezza potrebbe dissolversi.

Questa strategia di ambiguità è fondamentale per comprendere la potenza del film. L’orrore non si manifesta mai in modo inequivocabile. Le sequenze più disturbanti, come il sogno/stupro rituale di Rosemary, sono girate in modo da lasciare aperta la possibilità che si tratti davvero di un sogno, di un delirio da gravidanza. Gli indizi si accumulano, ma nessuno è definitivo. Lo spettatore, come Rosemary, è lasciato in uno stato di sospensione. Questo non è solo un espediente narrativo, ma una precisa dichiarazione estetica e filosofica: il Male non è riconoscibile con certezza. Non ha corna, né zoccoli, né risate fragorose. Ha il volto dei vicini di casa.

Polanski costruisce questa ambiguità attraverso una regia che predilige la distanza, la fissità, l’inquadratura composita. La macchina da presa raramente si avvicina troppo: osserva, registra, non giudica. I corridoi dell’appartamento sono lunghi, le porte spesso socchiuse, gli ambienti condivisi con troppa gente. L’inquadratura si fa spazio mentale: lo spettatore si sente invaso, disturbato, ma non può mai afferrare una verità ultima. Le soggettive di Rosemary sono ambigue: mostrano, ma non spiegano. L’allucinazione si mescola al reale con una naturalezza spiazzante.

Anche la recitazione partecipa a questa strategia. Mia Farrow interpreta Rosemary con una fragilità che è a un passo dall’isteria, ma mai ridotta a caricatura. La sua vulnerabilità è reale, ma anche strategica: ci induce a credere nella sua versione dei fatti, ma non ce la garantisce. John Cassavetes, nel ruolo del marito Guy, è perfetto nel tratteggiare un personaggio doppio, apparentemente amorevole e contemporaneamente sfuggente, ambiguo, sempre sul crinale del sospetto. Ruth Gordon, che vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista, è Minnie, la vicina invadente e sinistra, ma sempre nel registro del quotidiano, del possibile, del quasi comico.

L’estetica visiva del film è sobria, quasi televisiva in certi passaggi, ma proprio per questo efficace. I colori sono pastello, la luce è uniforme, le ombre poche. Il male si annida nella superficie levigata del reale. Non c’è bisogno di buio o di effetti speciali: la banalità dell’ambiente è la vera cornice dell’orrore. E questa scelta formale è rivoluzionaria: Polanski abbandona l’apparato gotico dell’horror classico per un realismo ansiogeno, dove la tensione è interiore, relazionale, psicologica.

Infine, l’uso del sonoro è calibrato con una maestria quasi invisibile. La colonna sonora, firmata da Krzysztof Komeda, è rarefatta, usata con parsimonia. Il tema principale, un motivo cantilenante affidato alla voce della stessa Farrow, accompagna i momenti più inquietanti con una dolcezza ambigua. Il suono, come l’immagine, non sottolinea, non spiega. Amplifica il dubbio.

E tuttavia l’ambiguità è ben più che un espediente di regia: è una filosofia della visione, una poetica dell’inquietudine. L’intera costruzione del film si fonda su ciò che resta fuori campo. Ogni scena sembra trattenere qualcosa. I dialoghi sono sempre lievemente sfalsati, i comportamenti mai completamente leggibili. L’effetto è una tensione continua che non esplode mai, ma che si addensa scena dopo scena, fino a trasformarsi in una forma di claustrofobia esistenziale. Non è tanto la paura di ciò che succede, quanto l’angoscia di non sapere con certezza se ciò che succede è reale.

Anche la messa in scena degli spazi contribuisce a questa poetica. L'appartamento dei Woodhouse è, visivamente, una prigione dolce: ampio, ben arredato, ma chiuso. La finestra dà su un cortile interno: nessuna fuga, nessuna via di salvezza. Le pareti sembrano stringersi man mano che il film avanza. I movimenti di macchina non guidano mai lo sguardo verso soluzioni o rivelazioni. Al contrario, la cinepresa si muove come se cercasse sempre qualcosa che sfugge. Questo spaesamento visivo è il corrispettivo filmico dello stato mentale di Rosemary: una ricerca che non approda mai a una verità chiara, una coscienza che si frantuma nel sospetto.

La regia di Polanski eccelle nel suggerire e nel sottrarre. Nei momenti chiave, la macchina da presa sceglie di restare fuori dalla stanza, di lasciare lo spettatore dietro una porta, in fondo a un corridoio, a origliare, a intuire. Questo dispositivo narrativo è profondamente moderno: disattende le aspettative di rivelazione tipiche del genere horror, scegliendo invece di approfondire la zona grigia della percezione. In questa scelta stilistica risiede tutta la violenza del film: lo spettatore viene privato non solo della catarsi, ma anche della consolazione del sapere.

Persino nel finale, quando la verità sembrerebbe rivelarsi – il bambino è figlio del demonio, il marito è complice, i vicini sono una setta – la regia mantiene un tono sospeso. Non ci sono effetti di svelamento. Non c’è un climax sonoro o visivo. Tutto accade con una compostezza spiazzante, come fosse l’epilogo naturale di una normale vicenda familiare. E questo è forse il colpo di genio più profondo di Polanski: farci sentire che l’orrore è del tutto compatibile con la vita quotidiana.

In questo senso, l’ambiguità non è una forma di evasione o di relativismo. È l’unico modo possibile per raccontare una verità che non si lascia ridurre a una morale semplice. Il Male non è qui una scelta consapevole o una pulsione irrazionale: è il risultato di un sistema, di una rete, di un mondo. La regia non giudica, non redime, non condanna: mostra. E nel mostrare, mette a nudo la nostra impotenza.

“Rosemary’s Baby” è dunque un film che usa la forma come contenuto. L’ambiguità estetica è un’espressione coerente dell’ambiguità morale del mondo che descrive. La regia di Polanski, nel suo rifiuto di fornire risposte, ci costringe a convivere con le domande. Ci lascia in una zona liminare, dove ogni gesto è doppio, ogni parola reversibile, ogni certezza destinata a crollare. E in questa zona, dove il sacro è stato svuotato, il consumo è diventato religione e l’amore è diventato rituale, il cinema si fa coscienza inquieta del nostro tempo.

VII. Dal romanzo al film: le varianti filmiche rispetto a Ira Levin e la filosofia dell’adattamento

L’opera cinematografica di Roman Polanski, pur rimanendo fedele nella struttura narrativa generale e in gran parte dei dialoghi al romanzo originale di Ira Levin pubblicato nel 1967, si differenzia radicalmente dal testo letterario per la profondità filosofica e simbolica che riesce a esprimere grazie alle scelte stilistiche e registiche. Il confronto tra le due opere non è quindi solo un esercizio di comparazione, ma un viaggio nelle diverse modalità con cui un racconto può trasformarsi e amplificarsi in ambito cinematografico, passando da un thriller satanico a una riflessione profonda sull’alienazione, sul corpo, sul potere e sulla modernità.

Nel romanzo di Levin, la narrazione segue i canoni del giallo psicologico e dell’horror moderno, con un’atmosfera tesa, costruita sul progressivo isolamento della protagonista e sull’accumulo di dettagli inquietanti che minano la percezione della realtà. Levin è un maestro nel costruire la suspense, alternando momenti di apparente normalità a rivelazioni inquietanti che mettono in crisi la fiducia del lettore. La linea tra spiegazione razionale e soprannaturale resta sempre sottile e mai completamente definita, ma la narrazione mantiene un ritmo serrato, teso al climax e alla rivelazione finale. La tensione si costruisce attraverso il sospetto, il dubbio, il confronto tra ciò che è reale e ciò che potrebbe essere frutto dell’immaginazione o della paranoia.

Polanski, al contrario, fa dell’ambiguità ontologica il cuore del suo film. La pellicola non si limita a raccontare una storia, ma si trasforma in un’indagine sul senso stesso della realtà e sulla natura del Male. Il regista non offre risposte nette, né consolatorie, ma lascia che lo spettatore si perda nella sospensione tra ciò che è vero e ciò che è immaginato. La scena chiave dello stupro rituale, ad esempio, viene trasfigurata da Polanski in un’esperienza visiva e sensoriale che mescola elementi onirici, simbolici e realistici, creando un effetto di straniamento e di disorientamento che supera di gran lunga la descrizione letteraria, più descrittiva e meno immersiva. Il corpo nudo di Rosemary su un materasso galleggiante, la sovrapposizione delle voci – dal papa ai vicini di casa –, e la figura demoniaca, tutto si fonde in una sequenza che è allo stesso tempo un incubo e un rito sociale, una discesa negli abissi dell’inconscio e delle dinamiche di potere occulto.

Questa trasformazione è possibile grazie all’uso sapiente degli strumenti cinematografici: la fotografia, il montaggio, la colonna sonora, la recitazione e la scenografia si combinano per creare una dimensione emotiva e simbolica che il testo scritto non può eguagliare. Polanski lavora con la luce e il colore in modo sottile: la scelta di toni pastello e la luce diffusa rendono l’ambiente domestico un luogo allo stesso tempo rassicurante e inquietante, la banalità del quotidiano diventa lo scenario perfetto per un orrore nascosto e sussurrato. Questo contrasto tra forma e contenuto amplifica l’efficacia del racconto e fa del film un’opera di tensione permanente.

Dal punto di vista dei personaggi, Polanski apporta modifiche importanti, che contribuiscono a spostare il senso del racconto. Il Guy Woodhouse interpretato da John Cassavetes è molto più ambiguo e complesso rispetto alla versione letteraria. Meno caricaturale, meno esplicitamente negativo, Guy diventa l’incarnazione dell’opportunismo borghese, dell’indifferenza morale e della fredda logica del profitto che maschera la complicità col Male dietro la facciata di un marito amorevole e un uomo di successo. Il suo patto col demonio è meno una scelta drammatica e più una forma di esistenza dentro il sistema capitalistico, in cui ogni etica viene piegata al desiderio di affermazione personale.

Rosemary, dal canto suo, perde parte della sua ingenuità romanzesca per acquistare una forza tragica e ambigua. La sua fragilità diventa la cifra del conflitto tra l’istinto materno e la consapevolezza dell’orrore. Non è più solo vittima, ma simbolo di una maternità piegata alla logica del potere e della manipolazione. Polanski mette in scena il suo dolore e la sua lotta interiore in modo sottile, attraverso gesti, sguardi e movimenti che costruiscono una psicologia complessa e sfaccettata, lontana dai cliché del genere.

Lo stile narrativo di Levin, asciutto e preciso, con un’ironia sottile che alleggerisce la tensione, viene trasformato nel film in un minimalismo visivo e sonoro che privilegia la sottrazione rispetto all’enfasi. Il cinema di Polanski rifiuta gli effetti speciali vistosi, le musiche invadenti, le recitazioni sopra le righe. Il risultato è un realismo ansiogeno, dove l’orrore si nasconde nella superficie levigata della vita quotidiana e dove il silenzio e la sospensione diventano strumenti di terrore psicologico. Questa scelta stilistica rende il film più potente e duraturo, facendo della narrazione un’esperienza sensoriale e filosofica.

La scena finale, uno dei momenti più emblematici della differenza tra romanzo e film, è carica di ambivalenza e di tensione emotiva. Nel libro di Levin, il riconoscimento della verità da parte di Rosemary è accompagnato da una reazione contenuta, quasi borghesemente composta, che lascia spazio a una catarsi narrativa. Nel film, invece, la scena si carica di un’intensità inquietante: la culla nera, il pianto del bambino e l’espressione di Rosemary oscillano tra tenerezza e orrore, lasciando lo spettatore in uno stato di sospensione morale ed emotiva. Polanski sottrae ogni possibilità di redenzione o di consolazione, consegnando una visione del Male che non si risolve ma si perpetua.

In definitiva, il film di Polanski si presenta non come una mera trasposizione, ma come un’opera radicalmente nuova che traduce e trasforma il romanzo in una riflessione contemporanea sulla fede, sul potere, sulla maternità e sull’assenza di Dio in un mondo dominato dal nichilismo e dal consumismo. La pellicola amplifica i temi di Levin e li fa dialogare con le inquietudini filosofiche e sociali del suo tempo, costruendo un racconto che parla non solo di stregoneria e complotti, ma di un male diffuso e ordinario che si annida dentro la società stessa.

VIII. Il corpo femminile come campo di battaglia simbolico e materno

In “Rosemary’s Baby” il corpo femminile si configura come uno dei luoghi più complessi e pregnanti di conflitto, tensione e simbolismo. Non si tratta di una semplice rappresentazione biologica o di un mero spazio privato della protagonista, ma di un vero e proprio campo di battaglia dove si confrontano forze contrapposte: natura e cultura, dominio e libertà, sacro e profano, vita e distruzione. Questo corpo diventa l’arena in cui si manifesta, in modo emblematico, la contraddizione profonda dell’esperienza femminile nella modernità, ma anche la dialettica tra potere occulto e soggettività individuale.

Il corpo di Rosemary Woodhouse è anzitutto il teatro di un’invasione radicale, di una perdita di controllo totale che non è solo fisica ma anche simbolica ed esistenziale. La gravidanza, tradizionalmente portatrice di vita, di continuità e di speranza, si trasforma qui in un meccanismo di oppressione, violenza e manipolazione. Il corpo materno, che dovrebbe essere il sacro tempio della generazione e della cura, diventa una prigione, una camera oscura in cui si coltiva un progetto di dominio e distruzione. Questa inversione di senso rappresenta uno dei cardini tematici del film e fa emergere una visione profondamente ambigua della maternità, in cui amore e terrore, creazione e annientamento si intrecciano in maniera inscindibile.

La gravidanza di Rosemary è mediata da un patto oscuro, che trascende il piano individuale per inserirsi in una logica collettiva e sistemica, incarnata dalla setta di vicini borghesi che impersonano il Male occulto. Il corpo femminile, dunque, diventa terreno di scontro tra la soggettività della donna e le forze di potere che pretendono di dominarlo, plasmarlo e strumentalizzarlo per i propri fini. In questo senso, il film anticipa e dialoga con le riflessioni femministe e teoriche sul corpo come dispositivo politico e spazio di controllo, che sarà ampiamente esplorato negli anni successivi dalla teoria queer, dagli studi di genere e dalle analisi critiche sul patriarcato e sul capitalismo.

La dimensione corporea di Rosemary è rappresentata da Polanski in modo straordinariamente realistico e materico. La recitazione di Mia Farrow, che con delicatezza e intensità trasmette il conflitto interiore della protagonista, traduce in movimenti, sguardi e silenzi la complessità di una donna che è insieme vittima e soggetto agente. La fragilità di Rosemary non è sinonimo di debolezza, ma piuttosto di una resistenza silenziosa, di un’esistenza che cerca di ritrovare autonomia dentro un sistema di forze che la sovrastano. Il corpo è quindi la soglia della sua identità, ma anche il confine su cui si gioca la sua autodeterminazione.

Il rapporto tra Rosemary e il proprio corpo si carica di una tensione ambivalente. Da un lato, il corpo è fonte di vita e di amore materno, ma dall’altro è il luogo di una violenza simbolica e reale, di una maternità forzata che diventa prigionia. Questa ambiguità si manifesta in modo emblematico nella scena finale dell’allattamento, scelta da Polanski di grande forza simbolica. Allattare il bambino demoniaco significa per Rosemary compiere un gesto d’amore supremo, che supera ogni orrore e ambivalenza, ma anche siglare una complicità inevitabile con il Male che vorrebbe rifiutare. È un atto di somma dolcezza e terribile resa, in cui la madre diventa custode e complice di un destino oscuro. Il corpo materno si fa allora simbolo della condizione femminile sotto il patriarcato e il capitalismo: luogo di cura e di dominio, di resistenza e di sottomissione.

Questa ambivalenza viene ulteriormente rafforzata dalla relazione tra natura e cultura che si gioca attraverso il corpo di Rosemary. La gravidanza e la maternità sono da sempre simboli della natura, della creazione e del mistero della vita. Tuttavia, in “Rosemary’s Baby” la natura non è più un luogo incontaminato e sacro, ma diventa terreno di manipolazione e dominio culturale. Il corpo femminile, la sua fertilità e la sua capacità riproduttiva vengono strumentalizzati da una società borghese mefistotelica che ha sostituito la religione tradizionale con un nuovo culto: quello del potere, del consumo e del controllo. La maternità diventa così un dispositivo di potere, un nodo in cui si intrecciano oppressione sociale e soprannaturale. La donna è al tempo stesso simbolo della vita e vittima di un meccanismo che ne disconosce la soggettività.

Il film si inserisce così in un dibattito culturale e filosofico molto più ampio, che riguarda la rappresentazione del corpo femminile nella cultura di massa e la ridefinizione della maternità nel XX secolo. Polanski rompe con gli stereotipi dell’eroina passiva o della madre idealizzata, per restituire un’immagine complessa, problematica e ambigua. Rosemary non è una santa, né una vittima innocente: è una donna che lotta, che ama, che teme, che soffre e che resiste dentro un sistema di potere che la utilizza e la tradisce. Il suo corpo diventa il luogo di questa lotta, un campo di battaglia in cui si riflettono le contraddizioni del nostro tempo.

La materialità del corpo di Rosemary è resa con grande attenzione visiva e simbolica. Polanski si sofferma sui dettagli: le mani tremanti, il volto segnato dalla stanchezza, i movimenti cauti e lenti sono tutti elementi che parlano un linguaggio silenzioso e potente. Questi dettagli costruiscono una drammaturgia che va oltre la parola, investendo la dimensione fisica come memoria e trauma visibile. Il corpo si fa narrazione, documento del dolore e della lotta. Non è un corpo astratto o idealizzato, ma un corpo concreto, fragile e vulnerabile, che però resiste.

In questa complessità risiede la forza e la modernità di “Rosemary’s Baby”. Il film non solo racconta un horror soprannaturale, ma restituisce una rappresentazione intensa e profonda della condizione femminile e del corpo come luogo di contraddizione e resistenza. In un’epoca in cui la maternità era ancora vista attraverso lenti tradizionali e spesso idealizzate, Polanski offre uno sguardo critico e contemporaneo, anticipando molte delle riflessioni che diventeranno centrali nel dibattito femminista e culturale.

Il corpo di Rosemary, dunque, non è solo uno spazio fisico, ma un simbolo potente e polisemico. È luogo di vita e di morte, di amore e di terrore, di libertà e di oppressione. È il teatro in cui si svolge una tragedia moderna, quella della donna che cerca di affermare la propria identità e soggettività dentro un mondo che la vuole piegata e controllata. In questa rappresentazione, il film diventa una metafora universale della condizione femminile, un’opera che parla con forza e urgenza del corpo come campo di battaglia politico e simbolico.

In definitiva, “Rosemary’s Baby” si impone non solo come un capolavoro del cinema horror e del thriller psicologico, ma anche come un testo fondamentale per la riflessione sul corpo, la maternità e la condizione femminile nella cultura contemporanea. La complessità e la profondità con cui Polanski tratta questi temi ne fanno un’opera ancora oggi straordinariamente attuale e capace di stimolare interrogativi profondi sulla natura del potere, della soggettività e del corpo come luogo di lotta e di resistenza.

IX. La borghesia mefistotelica: classe sociale e simbolo del potere occulto

In Rosemary’s Baby si cela un ritratto inquietante e sottilmente corrosivo della borghesia americana degli anni Sessanta, trasfigurata da Roman Polanski in una figura quasi mitologica: la “borghesia mefistotelica”. Questa non è una semplice classe sociale, ma un’entità collettiva che incarna un Male moderno, occulto, insidioso e pervasivo, capace di esercitare un potere che travalica il piano materiale per spingersi nel dominio simbolico, culturale e persino esoterico.

La borghesia, come la vediamo nel film, non è un aggregato di individui separati, ma un organismo sociale con una sua coesione e una volontà collettiva, capace di manipolare la realtà e di orchestrare un dominio invisibile e stratificato. Gli abitanti del condominio nel cuore di Manhattan sono anziani, conservatori, ipocriti: incarnano un ordine sociale che appare impeccabile nella sua facciata esteriore, ma che si rivela portatore di una corruzione morale e spirituale profonda. Il loro mondo è fatto di convenzioni rigide, di rituali invisibili, di una rete di complicità che mantiene in vita un patto con il Male.

Le figure di Minnie e Roman Castevet, i vicini di Rosemary, sono emblematiche di questo potere occulto. Minnie, con la sua invadenza fastidiosa e il sorriso mellifluo, e Roman, con le sue battute oscure e il ruolo di capostipite della setta, non sono solo personaggi di contorno, ma rappresentano l’ideologia e la prassi di un sistema che sacrifica la singola esistenza all’interesse collettivo della potenza e della sopravvivenza di classe. Essi sono i custodi di un sapere arcano, gli esecutori di un rituale che si ripete da decenni e che ha come fine ultimo il mantenimento di un potere che si fonda sulla manipolazione e sull’annientamento.

Questa borghesia non esercita il suo potere solo attraverso il denaro e lo status sociale, ma soprattutto mediante una forma di controllo simbolico che si manifesta nelle relazioni sociali, nei codici comportamentali e nelle dinamiche di gruppo. Il condominio diventa così un microcosmo che riflette e amplifica le tensioni di una società dominata da gerarchie rigide, che trasforma gli individui in pedine inconsapevoli di un disegno più grande. I vicini, con i loro sguardi silenziosi, le loro conversazioni ambigue e i loro gesti calibrati, costruiscono una barriera invisibile che isola Rosemary, la ingabbia in una realtà deformata e minacciosa.

Il potere della borghesia mefistotelica si manifesta anche nella sua ambivalenza rispetto alla religione. Polanski mostra come questa classe sociale abbia di fatto “ucciso” Dio, o meglio lo abbia relegato a un ruolo formale e vuoto, svuotandolo di significato e trasformandolo in un mero rituale estetico. Al posto della fede tradizionale emerge un culto del Male laico e pragmatico, che si esprime nel satanismo simbolico e nei rituali occulti della setta. La morte di Dio, evocata da Nietzsche e ripresa nel film, non significa soltanto l’assenza del divino, ma l’affermazione di un nuovo ordine in cui il Male è divenuto la divinità terrena, incarnata dal figlio di Rosemary destinato a regnare sul mondo.

Questa dialettica tra religione e potere si intreccia strettamente con una critica più ampia al capitalismo e al consumismo, visti come forme di dominio che si basano sulla manipolazione delle coscienze e sulla mercificazione della vita stessa. La borghesia mefistotelica è l’archetipo del potere occulto moderno, una classe che mantiene la propria egemonia non solo con la ricchezza materiale, ma soprattutto con la capacità di plasmare la cultura, i valori e le identità individuali. La sua forza sta nell’invisibilità, nella capacità di nascondersi dietro un’apparenza rispettabile e ordinaria, dietro una quotidianità fatta di cerimonie sociali, feste, incontri apparentemente innocui.

Il patto faustiano di cui la setta è portatrice assume quindi una duplice valenza: da un lato è un antico accordo con il Demonio che assicura ai suoi aderenti giovinezza, successo e potere; dall’altro è una potente metafora del compromesso morale e sociale che caratterizza la borghesia capitalistica, disposta a “vendere la propria anima” per mantenere e accrescere la propria posizione. Guy Woodhouse, il marito di Rosemary, incarna questa figura di uomo-mediatore, disposto a sacrificare l’integrità personale per l’ambizione e l’ascesa sociale. La sua trasformazione da uomo comune a complice consapevole del Male riflette l’adesione alla logica del dominio borghese, che sacrifica ogni valore etico in nome del successo.

Polanski disegna con precisione questa borghesia come un organismo complesso, fatto di rituali, relazioni di potere e convenzioni che producono isolamento e alienazione. La struttura sociale rappresentata è caratterizzata da un controllo diffuso, esercitato anche attraverso le micro-relazioni: i piccoli gesti di invadenza, i sorrisi forzati, le parole ambigue diventano strumenti di oppressione e di sottomissione. L’appartamento stesso, con i suoi spazi claustrofobici e le pareti sottili che consentono l’ascolto furtivo, diventa simbolo di questo dominio invisibile, di una sorveglianza costante che annienta la libertà individuale.

In particolare, Minnie Castevet assume il ruolo di figura simbolica della pressione sociale e culturale esercitata dalla borghesia sulle vite individuali, in particolare sulle donne. La sua presenza insistente e spesso molesta diventa la metafora del patriarcato borghese che impone ruoli, modelli e comportamenti conformi, soffocando la libertà e l’autonomia personale. Minnie non è solo la vicina invadente, ma la personificazione di un sistema che controlla e disciplina, che usa il potere della norma per annichilire il dissenso.

La borghesia mefistotelica si configura così come il vero antagonista del film, un’entità collettiva che agisce dietro le quinte ma che incarna il potere concreto, quotidiano, implacabile. Essa ha trasformato la società eliminando la spiritualità e sostituendola con un culto del consumo e del potere che si esprime attraverso la manipolazione e il controllo totale, fino alla sfera più intima e personale della vita: il corpo, la maternità, l’identità.

In questo quadro, “Rosemary’s Baby” diventa una profonda riflessione sulle dinamiche di potere della società moderna e sul ruolo della borghesia come classe dominante, capace di occultare la propria violenza dietro una patina di rispettabilità e normalità. La borghesia mefistotelica, infatti, non è solo un gruppo sociale, ma un simbolo potente del Male moderno: un Male che non si manifesta con segni evidenti o con atti clamorosi, ma che opera nell’ombra, attraverso la conformità, il silenzio, la complicità.

La dimensione simbolica di questo potere è rafforzata dalla messa in scena stessa del film, che utilizza gli spazi chiusi del condominio, la luce artificiale, i dettagli della scenografia e i silenzi come strumenti di una narrazione che parla di oppressione e di dominio. La quotidianità borghese diventa così una prigione dorata, un teatro in cui si recita una parte obbligata, e ogni gesto nasconde un significato più profondo.

Il film offre infine una riflessione inquietante sul destino dell’umanità sotto il segno di questo potere occulto. Il figlio di Rosemary, concepito nel contesto di questo patto mefistotelico, non è solo una creatura demoniaca, ma la metafora del dominio globale, della trasformazione del mondo secondo la logica del consumo, della manipolazione e del controllo totale. Questo bambino, futuro “signore del mondo”, rappresenta la vittoria definitiva di un ordine che ha ucciso Dio, ha eliminato la spiritualità e ha instaurato un regno di Male laico e sistemico.

In definitiva, Rosemary’s Baby usa la figura della borghesia mefistotelica per denunciare le contraddizioni e le ambiguità del potere contemporaneo, offrendo un ritratto complesso e multidimensionale di una classe che, pur apparendo rispettabile e ordinaria, cela un nucleo oscuro e minaccioso. Questo ritratto, carico di simboli e di tensioni, rende il film un’opera di straordinaria attualità e profondità, capace di interrogare lo spettatore sul significato stesso di potere, di dominio e di Male nel mondo moderno.

X. Psicosi, paranoia e la crisi della percezione della realtà

Uno degli elementi fondamentali che rendono Rosemary’s Baby un’opera così potente e complessa è la rappresentazione meticolosa della crisi soggettiva della protagonista, che si sviluppa in un percorso di progressiva psicosi e paranoia. Questa dinamica non è mai semplicemente uno stratagemma narrativo finalizzato a suscitare paura, ma si configura come un’indagine profonda e multidimensionale sul fragile confine tra realtà e illusione, tra percezione soggettiva e realtà oggettiva, tra salute mentale e follia. Polanski riesce a creare un’esperienza immersiva che mette lo spettatore nella condizione di vivere la disgregazione mentale di Rosemary, facendo di lei non solo la vittima di un complotto sovrannaturale, ma anche di una drammatica alienazione interiore.

Fin dalle prime scene, la percezione di Rosemary è segnata da sensazioni di inquietudine e di sospetto che si insinuano sottilmente nella quotidianità apparentemente tranquilla della giovane coppia. I sogni disturbanti, gli incubi nei quali viene posseduta da creature bestiali durante riti satanici, anticipano una realtà ambigua in cui ciò che appare reale è continuamente messo in discussione. La presenza costante di questi sogni simbolici evidenzia l’erosione graduale della barriera tra coscienza e inconscio, una dissoluzione della certezza percettiva che si riverbera in una crescente incapacità di Rosemary di distinguere tra verità e inganno.

Questa crisi della percezione non si manifesta solo nella dimensione onirica ma anche nella quotidianità: piccoli dettagli, comportamenti altrui, sguardi furtivi e silenzi pesanti si caricano di significato minaccioso, diventano indizi di un complotto che sembra sempre più reale. Polanski manipola magistralmente questa ambiguità, alternando momenti di apparente normalità a sequenze di crescente tensione, che rendono la narrazione una sorta di giallo psicologico in cui la verità rimane sfuggente fino al culmine finale.

La psicosi e la paranoia di Rosemary possono essere interpretate su diversi livelli. Sul piano narrativo, esse riflettono l’isolamento crescente della protagonista, che vede traditi i propri confini intimi e la propria sicurezza affettiva. L’allontanamento del marito, sempre più sfuggente e distante, accentua la sensazione di solitudine e di impotenza. Questo isolamento è reso in modo potente anche dal contesto sociale: Rosemary è circondata da persone che sembrano ostili o compiacenti, ma nessuno le offre un appoggio reale, nessuno crede alle sue paure. Questa solitudine contribuisce ad alimentare il senso di smarrimento e confusione, portandola verso uno stato di paranoia sempre più profondo.

Sul piano simbolico, la paranoia diventa la manifestazione concreta di un potere occulto e insidioso che agisce dietro le quinte, invisibile ma onnipresente. La mente di Rosemary, ormai assediata da dubbi e timori, diventa il luogo in cui si scontrano forze che la travalicano, dove il conflitto tra Bene e Male si traduce in una lotta per il controllo della realtà stessa. La sua incapacità di distinguere tra realtà e illusione è l’emblema della crisi dell’individuo moderno, che si sente impotente di fronte a meccanismi sociali, politici e culturali che lo dominano senza essere pienamente compresi.

Polanski, con grande maestria, utilizza molteplici strumenti cinematografici per immergere lo spettatore in questa esperienza soggettiva. La colonna sonora, spesso dissonante e angosciante, accompagna le sequenze oniriche e i momenti di crisi emotiva. La fotografia gioca con luci e ombre per sottolineare lo smarrimento e l’ambiguità, mentre il montaggio alterna scene di calma apparente a picchi di tensione psicologica. I primi piani sul volto di Rosemary, la sua espressione di crescente inquietudine, i gesti nervosi e i sussurri contribuiscono a creare un’atmosfera claustrofobica che rende palpabile la sua discesa nella follia.

Il progressivo deterioramento della realtà vissuta da Rosemary culmina in un punto di non ritorno, quando la scoperta della natura del bambino che porta in grembo e della setta che la circonda la costringe a confrontarsi con un orrore che trascende ogni logica razionale. Questa rivelazione non porta a un momento catartico di liberazione, ma a una resa dolorosa e ambigua. La protagonista si ritrova a dover accettare una verità che distrugge ogni certezza e ogni speranza, trasformandosi in custode di un Male che non può sconfiggere.

Questa conclusione tragica è simbolo della condizione dell’individuo contemporaneo, spesso vittima di sistemi di potere invisibili e di realtà che sfuggono alla comprensione. La paranoia di Rosemary è dunque un riflesso di una realtà sociale in cui il controllo e la manipolazione agiscono in modo sottile ma efficace, destabilizzando la percezione e l’esperienza soggettiva. Il film si configura così come una meditazione sulla fragilità della mente umana e sull’ambiguità della realtà, mettendo in luce i rischi di una perdita del senso e della fiducia nel mondo esterno.

Inoltre, il percorso di Rosemary può essere letto come una critica al ruolo delle donne nella società patriarcale e borghese. La sua esperienza di isolamento, di mancanza di controllo sul proprio corpo e sulla propria vita riflette le dinamiche di oppressione e di silenzio che caratterizzano molte donne, costrette a subire decisioni e poteri esterni. La paranoia diventa quindi anche una metafora del tentativo di ritrovare un’autonomia perduta in un mondo che le nega agenzia e voce.

La narrazione di Rosemary’s Baby si situa quindi in una zona liminale tra horror soprannaturale e dramma psicologico, tra realtà oggettiva e visione soggettiva, trasformando la crisi mentale della protagonista in uno specchio delle tensioni e delle paure collettive. La disgregazione della realtà di Rosemary diventa così una metafora universale della condizione umana, del senso di alienazione e dell’insicurezza che caratterizzano l’epoca contemporanea.

In conclusione, la psicosi e la paranoia in Rosemary’s Baby non sono semplici elementi di genere, ma costituiscono la chiave di lettura per comprendere la complessità del film come riflessione profonda sulla natura della realtà, della percezione e del potere. Polanski ci invita a immergerci nella mente di Rosemary per sperimentare la fragilità della coscienza e la lotta incessante tra verità e illusione, mostrando come questa crisi individuale sia anche uno specchio delle dinamiche sociali e culturali che plasmano il nostro mondo.

XI. Maternità e natura: la forza ambivalente della genitorialità in Rosemary’s Baby

La maternità si configura nel film Rosemary’s Baby come un tema cruciale e portante, attraversato da una complessità simbolica e psicologica che Polanski esplora con grande intensità e finezza. Più che una semplice esperienza biologica o un evento narrativo, la gravidanza di Rosemary Woodhouse diventa un vero e proprio campo di battaglia simbolico, nel quale si confrontano forze opposte, ambivalenti e profondamente radicate nell’immaginario collettivo: la vita e la morte, la creazione e la distruzione, il sacro e il profano. Questa ambivalenza contribuisce a costruire un’atmosfera di profondo disagio e inquietudine che permea l’intera pellicola.

Dall’inizio del racconto, Rosemary desidera con fervore un figlio, immaginandolo come il completamento del proprio essere e del proprio rapporto con il marito Guy. Tuttavia, la gioia e la speranza materna si mescolano presto a timori indicibili, a dubbi che si insinuano lentamente ma inesorabilmente nella sua coscienza. Questa duplice esperienza materna – la speranza e la paura, la creazione e la distruzione – riflette la complessità ontologica e simbolica della maternità stessa, che nella cultura occidentale si lega a una serie di archetipi contraddittori: la madre generatrice e protettrice, ma anche la madre sacrificatrice e vittima di un destino crudele.

Polanski non idealizza la natura come un’energia puramente benefica o rigeneratrice, ma la presenta invece come una forza ambivalente, potenzialmente generatrice ma anche capace di corruzione e devastazione. La gravidanza di Rosemary, lungi dall’essere un evento naturale sereno, è attraversata da fenomeni inspiegabili, da sensazioni di estraneità al proprio corpo e da un progressivo senso di perdita di controllo. Questo rende evidente la tensione tra il potere della natura come origine della vita e il potere della cultura – qui rappresentato dalla setta satanica borghese – che cerca di dominarla, manipolarla e piegarla a scopi sinistri.

Il bambino che Rosemary porta in grembo è il punto culminante di questa ambivalenza: una creatura che, pur essendo figlia della natura e portatrice di vita, è anche l’incarnazione del Male assoluto, destinata a governare un mondo in cui Dio è stato “ucciso” e sostituito da una divinità laica e maligna. Questo ribaltamento dell’immagine del neonato – da simbolo universale di innocenza e speranza a emblema del terrore e della corruzione – scuote profondamente i presupposti culturali e religiosi della maternità, mettendo in discussione la stessa natura del legame madre-figlio.

L’esperienza di Rosemary si configura dunque come un dramma esistenziale e spirituale: lei è chiamata a confrontarsi con un dilemma tragico e apparentemente irrisolvibile, che la vede madre di un essere ostile, un nemico della umanità, e allo stesso tempo custode e protettrice di quel bambino. L’amore materno, presentato nel film con delicatezza e profondità, si manifesta come una forza potente e inestinguibile, capace di superare la paura e la consapevolezza del male. Rosemary accetta il proprio ruolo con una rassegnazione dolorosa e dignitosa, trasformandosi in simbolo della resilienza della vita, ma anche della sua fragilità.

Un momento simbolicamente fondamentale è l’allattamento, cui Rosemary si sottopone su esplicita richiesta della setta. Questo gesto rappresenta la suprema accettazione del legame materno e il miracolo della natura che si afferma nonostante tutto, persino nel contesto del Male incarnato. L’atto di nutrire il bambino diventa così un atto di ribellione e di forza, una manifestazione della forza vitale che resiste alle forze distruttive. Polanski mostra la maternità non solo come condizione biologica, ma come scelta esistenziale che implica amore, sacrificio e responsabilità.

Sul piano simbolico, la maternità in Rosemary’s Baby si inserisce in una complessa dialettica tra natura e cultura, tra istinto e dominio sociale. Il corpo di Rosemary è il luogo di un conflitto profondo: da una parte la natura, con i suoi cicli, le sue forze ancestrali e primordiali; dall’altra la cultura, incarnata dalla setta borghese e patriarcale che cerca di appropriarsi di quel corpo per i propri scopi oscuri. Questo scontro evidenzia le tensioni profonde che attraversano il ruolo della donna nella società contemporanea, tra autonomia, controllo e sottomissione.

Polanski non si limita a mostrare il corpo femminile come vittima passiva, ma ne fa un luogo di resistenza e di potere, per quanto ambiguo e tragico. Rosemary, pur vessata e manipolata, conserva una forza interiore che si manifesta soprattutto nel suo legame con il figlio. La maternità diventa allora uno spazio di ambivalenze e contraddizioni, un simbolo della complessità dell’identità femminile, che oscilla tra generazione e distruzione, tra dono e perdita.

Questa rappresentazione si inscrive in una tradizione culturale e cinematografica che ha spesso utilizzato la maternità come metafora della condizione umana e della lotta per il potere e la sopravvivenza. Rosemary’s Baby si distingue per la profondità e la sofisticatezza con cui affronta il tema, evitando stereotipi o riduzioni semplicistiche, e presentando invece un ritratto stratificato, ricco di sfumature e di tensioni emotive e simboliche.

Inoltre, la maternità nel film assume una valenza politica, in quanto denuncia e mette in discussione le dinamiche di controllo che la società patriarcale e capitalistica esercita sul corpo delle donne e sulla loro capacità riproduttiva. Il corpo di Rosemary è infatti luogo di una violenza simbolica e materiale, in cui si manifesta la tensione tra libertà individuale e dominio sociale. La gravidanza, lungi dall’essere una scelta libera, è imposta e manipolata da forze esterne che ne fanno uno strumento di potere e di controllo.

La natura, così, non è idealizzata come un rifugio o un principio di purezza, ma appare come un campo complesso di contraddizioni, in cui convivono elementi di creazione e distruzione, di resistenza e di soggiogamento. Polanski suggerisce che la maternità, come manifestazione ultima della natura, contiene in sé queste ambiguità e che solo accettandole si può comprendere la sua vera portata.

In ultima analisi, la maternità e la natura in Rosemary’s Baby si configurano come temi centrali per la comprensione del film, non solo come racconto horror, ma come riflessione profonda sulle dinamiche di genere, sul potere, sulla spiritualità e sulla condizione umana. Polanski mostra come la gravidanza di Rosemary sia non solo il fulcro della trama, ma anche un simbolo universale delle sfide, delle paure e delle speranze che accompagnano la creazione e la protezione della vita.

Il film ci invita a guardare oltre l’orrore immediato e a riflettere sulle implicazioni più ampie di questa esperienza, sulla natura complessa e ambivalente della maternità, sul ruolo della donna come custode della vita in un mondo segnato da forze oscure e contraddittorie. La maternità, dunque, emerge come una dimensione carica di significato, capace di raccontare la fragile bellezza e la dolorosa complessità dell’esistenza stessa.

XII. Il finale di Rosemary’s Baby: rivelazione, accettazione e destino

Il finale di Rosemary’s Baby rappresenta il culmine non solo della narrazione ma anche del complesso intreccio di simbolismi, tematiche filosofiche e tensioni psicologiche che Polanski ha costruito con maestria lungo tutto il film. Questa sequenza conclusiva non si limita a risolvere il conflitto narrativo, ma apre uno spazio di riflessione profonda e inquietante, sfidando lo spettatore a confrontarsi con domande esistenziali e morali di grande portata. La rivelazione finale, l’accettazione dolorosa e ambivalente della protagonista e il destino che si dispiega segnano un punto di non ritorno che trasforma la storia individuale in un’allegoria universale.

Nel momento in cui Rosemary scopre la verità sul bambino che ha partorito – non un innocente neonato, bensì l’incarnazione di una forza oscura e sovrannaturale destinata a dominare il mondo – il film raggiunge un’intensità emotiva e simbolica che travalica i confini del genere horror per farsi meditazione sul potere, sul Male e sul senso della vita stessa. La scena finale, in cui Rosemary entra nella stanza confinante e si avvicina alla culla nera, ascoltando il pianto inquietante del bambino, è carica di una tensione palpabile, resa ancora più intensa dalla regia sobria ma incisiva di Polanski.

In quel momento cruciale, l’orrore e la ribellione, che avevano accompagnato tutto il percorso della protagonista, cedono il passo a un’accettazione dolorosa ma inevitabile. Rosemary non fugge, non si ribella più apertamente: con uno sguardo che mescola paura, dolore e una strana forma di rassegnazione, abbraccia la sua nuova realtà, riconoscendo il legame indissolubile che la unisce al figlio. Questo passaggio, di portata simbolica enorme, segna una trasformazione radicale, un rito di passaggio attraverso cui Rosemary diventa non più solo vittima di una trama oscura, ma custode di un potere che va oltre la comprensione umana.

È importante sottolineare che questa accettazione non deve essere interpretata come una resa passiva o una sconfitta morale. Al contrario, si tratta di un atto complesso, carico di contraddizioni, che riflette la profondità del legame materno e la complessità della condizione umana. Rosemary, pur consapevole del Male che il bambino rappresenta, non può rinunciare all’amore che prova per lui, a quel legame di sangue e di affetto che è più forte di ogni paura o orrore. Il film, così, mette in luce una delle dinamiche più ambigue e potenti della maternità: la capacità di amare e proteggere anche ciò che è oscuro e pericoloso.

Questa ambivalenza si intreccia con un discorso più ampio sul potere e sul destino. Il bambino non è soltanto una creatura malvagia, ma l’erede di un ordine nuovo, un’entità che simboleggia la vittoria di un Male che ha sostituito Dio, come esplicitamente affermato nella scena della congrega con il grido “Dio è morto”. Questa frase, che riecheggia l’aforisma di Nietzsche, sintetizza la crisi spirituale e culturale della modernità, in cui le certezze religiose tradizionali sono state soppiantate da nuove forme di potere laico, spesso oscure e totalitarie.

Il film suggerisce così che il Male non sia solo un’entità soprannaturale, ma anche un simbolo di un ordine sociale e culturale che domina attraverso la manipolazione, il consumo e la sopraffazione. Il figlio di Rosemary incarna questa nuova divinità, un potere che ha vinto la battaglia contro la fede e la morale tradizionale, imponendosi come forza incontrastata nel mondo moderno. L’accettazione di Rosemary è, in questo senso, anche una metafora della complicità o della resa dell’individuo di fronte a questi meccanismi.

Dal punto di vista cinematografico, Polanski costruisce la scena finale con grande maestria, utilizzando un linguaggio visivo che enfatizza l’intimità e la soggettività. L’illuminazione soffusa, il silenzio carico di tensione, i primi piani sul volto di Rosemary – segnato dalla sofferenza e dalla rassegnazione – coinvolgono lo spettatore in un’esperienza emotiva intensa e partecipata. L’assenza di effetti spettacolari o di un climax urlato rende la conclusione ancora più potente, facendo leva sulla forza evocativa delle immagini e del silenzio.

Questa scelta stilistica sottolinea l’ambiguità della situazione e lascia aperto il senso ultimo dell’opera, che non offre risposte semplici o consolatorie, ma invita a una riflessione aperta e sfaccettata sul destino umano. Il finale di Rosemary’s Baby non è dunque una chiusura definitiva, ma un punto di partenza per interrogarsi sulle dinamiche profonde che governano la vita, la morte, il potere e la moralità.

Inoltre, questa conclusione riflette la complessità dei rapporti familiari e sociali, mostrando come l’amore materno possa essere insieme fonte di salvezza e di condanna, di forza e di debolezza. Rosemary, pur accogliendo il figlio del Diavolo, mantiene una dignità e una consapevolezza che la rendono figura tragica e ambigua, capace di rappresentare le contraddizioni più profonde dell’esistenza.

Il finale si presta anche a una lettura in chiave politica e culturale, ponendo l’accento sul ruolo della donna e della maternità in una società dominata da poteri occultati e da dinamiche di controllo. Il corpo di Rosemary, sede del parto e della custodia del figlio, diventa simbolo di un campo di battaglia in cui si decidono le sorti non solo personali ma anche collettive, tra autonomia e dominio, libertà e sottomissione.

In conclusione, il finale di Rosemary’s Baby costituisce una sintesi potentissima di tutti i temi esplorati nel film: la crisi della fede, il potere del Male, la complessità della maternità, la fragilità della mente umana e la resistenza dell’individuo di fronte a forze oscure e travolgenti. Polanski, con una regia sottile e raffinata, ci consegna un’opera che non solo inquieta e spaventa, ma invita a una riflessione profonda e duratura sulla natura umana e sul destino della civiltà contemporanea.

XIII. Realtà e finzione: la costruzione della suspense e l’ambiguità percettiva in Rosemary’s Baby

Uno degli elementi di maggiore forza e originalità di Rosemary’s Baby è senza dubbio la straordinaria capacità di Roman Polanski di tessere una trama in cui i confini tra realtà e finzione risultano volutamente sfumati e incerti, generando una suspense che non si basa su colpi di scena spettacolari o su shock visivi, ma su un raffinato gioco di ambiguità percettive che coinvolge profondamente sia la protagonista che lo spettatore. Il film diventa così una sorta di indagine psicologica e filosofica sul modo in cui la percezione e la realtà si intrecciano, si confondono e si trasformano, in un progressivo scivolamento verso l’ignoto e l’inquietante.

Il nucleo di questa ambiguità risiede nel fatto che tutto ciò che lo spettatore vede passa attraverso il filtro soggettivo di Rosemary, la quale, a mano a mano che la narrazione procede, perde sempre più la fiducia nel proprio senso della realtà. La sua percezione diventa così il terreno di una battaglia tra certezze e dubbi, tra evidenze tangibili e sospetti che si insinuano come ombre silenziose. La regia di Polanski enfatizza questo meccanismo attraverso l’uso sapiente della camera a mano, dei primi piani ravvicinati e di un montaggio che privilegia i dettagli apparentemente innocui – uno sguardo, un sorriso ambiguo, un gesto appena percettibile – carichi però di significati nascosti.

In questo contesto, il gioco tra realtà e finzione non si limita a essere un mero espediente narrativo, ma assume un valore simbolico e filosofico di vasta portata. Il film, infatti, mette in discussione la possibilità stessa di una realtà oggettiva e stabile, suggerendo che ciò che percepiamo è sempre mediato da filtri culturali, psicologici e sociali, e che l’esperienza umana è intrinsecamente soggetta a distorsioni, fraintendimenti e illusioni. Rosemary diventa così l’archetipo dell’individuo moderno, alle prese con un mondo complesso e spesso incomprensibile, in cui la verità è difficile da afferrare e il confine tra ciò che è reale e ciò che è immaginato è labile e mobile.

La costruzione della suspense nel film è un modello di equilibrio narrativo e di controllo emotivo. Polanski evita i consueti trucchi del cinema horror, come salti improvvisi o colpi di scena eccessivi, e preferisce una tensione sottile e crescente, costruita attraverso la ripetizione di elementi ambigui, la sospensione dell’azione e la dilatazione dei tempi. Questo approccio rende la suspense più intensa e duratura, capace di penetrare nella psiche dello spettatore e di generare una partecipazione emotiva profonda e prolungata.

Il ritmo lento e calibrato del film contribuisce a creare un’atmosfera in cui ogni dettaglio diventa importante e ogni silenzio carico di minaccia. La scena si fa quasi ipnotica, e lo spettatore si trova a condividere la crescente ansia e il senso di straniamento di Rosemary, vivendo con lei l’esperienza di una realtà che si sgretola sotto i suoi occhi. Questa dimensione psicologica della suspense è ciò che rende Rosemary’s Baby un’opera di grande sofisticatezza e originalità, capace di trascendere il genere per diventare una meditazione sulla percezione e sull’identità.

Il punto di vista soggettivo è uno degli strumenti più potenti con cui Polanski costruisce questa ambiguità. Attraverso la focalizzazione su Rosemary, il film ci costringe a guardare il mondo attraverso i suoi occhi, a vivere le sue paure e i suoi dubbi, a dubitare con lei di ogni realtà presentata. Questo crea una complicità emotiva con la protagonista, ma anche una forma di straniamento, perché la realtà che vediamo è sempre filtrata e potenzialmente ingannevole. Lo spettatore, come Rosemary, si trova immerso in un labirinto di percezioni incerte e di interpretazioni ambigue.

Questo meccanismo narrativo genera anche un effetto di straniamento nei confronti degli altri personaggi. Le figure che circondano Rosemary – il marito Guy, la vicina Minnie, i membri della setta – appaiono spesso ambigue, ambivalenti, difficili da decifrare. I loro comportamenti oscillano tra apparente normalità e sinistrità sottile, tra cortesia borghese e minaccia nascosta. Questa ambiguità nei rapporti interpersonali contribuisce a rafforzare il clima di sospetto e di tensione, e alimenta l’idea che la realtà stessa sia un campo di battaglia tra verità nascoste e finzioni costruite.

Il gioco tra realtà e finzione in Rosemary’s Baby assume anche una dimensione metacinematografica. Polanski sembra suggerire che il cinema stesso, con il suo potere di manipolare la percezione e di costruire mondi immaginari, è uno strumento ambivalente, capace di creare sia verità sia illusioni. Lo spettatore, immerso in questo gioco, è invitato a riflettere sul proprio ruolo, sulla propria capacità critica e sulla fragilità della propria percezione.

Inoltre, l’ambiguità percettiva si intreccia con un discorso più ampio sulla natura del potere e della manipolazione sociale. La realtà distorta che Rosemary vive è il risultato non solo di un complotto soprannaturale, ma anche di dinamiche di controllo che si manifestano a livello culturale e sociale. La borghesia benestante che circonda la protagonista rappresenta un potere occulto, che agisce attraverso la menzogna, la pressione psicologica e la negazione della verità. Questa dimensione politica e sociale si intreccia strettamente con l’ambiguità narrativa, amplificando il senso di claustrofobia e di impotenza.

L’isolamento crescente di Rosemary è un elemento centrale nella costruzione della suspense e nell’intensificazione dell’ambiguità. La protagonista si sente sempre più sola e incomprensibile, vittima di un mondo che la rifiuta e la manipola. Questa condizione di alienazione rafforza la percezione di una realtà incerta e pericolosa, in cui ogni certezza è messa in discussione e ogni tentativo di verità è ostacolato. Il progressivo distacco dai rapporti umani e dalla sicurezza emotiva accentua il senso di vulnerabilità e di minaccia.

Polanski dimostra così una straordinaria capacità nel gestire la suspense come un elemento non solo emozionale ma anche intellettuale e simbolico. La tensione non nasce solo dal timore del sovrannaturale, ma dalla messa in discussione delle certezze cognitive e percettive dello spettatore. La paura diventa allora un’esperienza complessa, che coinvolge mente e corpo, e che si radica in un confronto profondo con l’incertezza e il dubbio.

In conclusione, la dialettica tra realtà e finzione in Rosemary’s Baby è il motore narrativo e simbolico che sostiene tutta l’opera, rendendola un classico di rara profondità e complessità. Polanski ci invita a mettere in discussione le nostre certezze, a vivere il disagio dell’ambiguità e a riconoscere la fragilità della nostra percezione. Questo approccio rende il film non solo un thriller coinvolgente, ma una meditazione potente sulla condizione umana, sul potere della mente e sull’enigma della realtà.

XIV. La maternità come esperienza ambivalente e simbolo di potere in Rosemary’s Baby

La maternità, intesa come esperienza esistenziale, psicologica e simbolica, è uno dei cardini fondamentali su cui si regge l’intera narrazione di Rosemary’s Baby. Roman Polanski, attraverso una regia straordinariamente attenta ai dettagli e un ritmo narrativo che coniuga realismo e tensione sovrannaturale, ci consegna un ritratto della maternità lontano dalle idealizzazioni consuete, rappresentandola invece come un’esperienza profondamente ambivalente, intrisa di conflitti interni, contraddizioni e dinamiche di potere che travalicano la sfera personale per farsi metafora di un più ampio discorso culturale e sociale.

Fin dall’inizio, la gravidanza di Rosemary viene presentata non come un semplice evento fisiologico o familiare, ma come un rito oscuro, un percorso iniziatico nel quale il corpo della donna diventa il teatro di una battaglia tra forze opposte. La gestazione del figlio del Diavolo, infatti, simboleggia la coesistenza di creazione e corruzione, di vita e morte, di amore e distruzione. Il corpo di Rosemary si trasforma in un campo di invasione e dominio, dove il potere maschile e borghese si manifesta in forme sottili ma opprimenti, negando alla donna l’autonomia e la libertà di scegliere sul proprio destino.

La rappresentazione del corpo materno nel film è carica di simbolismi e contrasti. La luce soffusa e irreale con cui sono girate molte scene relative alla gravidanza suggerisce una sospensione del tempo e dello spazio, un’immersione in un mondo sospeso tra realtà e incubo. I sogni di Rosemary, in cui si vede posseduta da una creatura mostruosa, incarnano la sua percezione di un corpo che non le appartiene più del tutto, un corpo violentato e usato come strumento per un disegno oscuro. Questa percezione si accompagna a sensazioni di isolamento, paura e impotenza che riflettono la condizione di molte donne che si trovano a vivere la maternità come esperienza ambivalente e ambigua.

La maternità in Rosemary’s Baby si pone quindi come metafora della condizione femminile in una società patriarcale e borghese che controlla e manipola il corpo delle donne, trasformandolo in veicolo di potere e sottomissione. Rosemary, giovane moglie ingenua e desiderosa di maternità, si scontra con un mondo fatto di segreti, menzogne e violenze psicologiche che minano la sua libertà e la sua integrità. La gravidanza diventa così un’esperienza di alienazione, in cui il desiderio di generare vita si intreccia con la consapevolezza di essere strumento di un complotto più grande e spaventoso.

Questa dimensione politica e culturale del tema materno è ulteriormente sottolineata dal contrasto tra Rosemary e gli altri personaggi del film, soprattutto i membri della setta e il marito Guy. Essi rappresentano le forze di controllo e dominio che sfruttano la maternità per i propri scopi, riducendo la donna a semplice incubatrice e cancellando la sua soggettività. La tensione tra autonomia e dominio è quindi centrale nel racconto, e si manifesta in tutta la sua crudezza nelle scene in cui Rosemary cerca di resistere, di mantenere la propria lucidità e volontà.

Allo stesso tempo, il film riconosce la straordinaria forza e complessità dell’esperienza materna, che va ben oltre la sottomissione e il dolore. L’amore materno, pur attraversato da paure e dubbi, emerge come un legame potentissimo e ineludibile, capace di superare anche la consapevolezza del Male e della mostruosità del figlio. La scena finale, in cui Rosemary allatta il bambino demoniaco, è una delle immagini più potenti e ambivalenti dell’intero film. Essa sintetizza la complessità del rapporto madre-figlio, un legame che è insieme fonte di vita e di corruzione, di affetto e di condanna.

Il gesto di allattare, simbolo universale di cura e nutrimento, diventa in questo contesto un atto di accettazione e di partecipazione a un destino oscuro e ineluttabile. Rosemary non solo si prende cura del figlio, ma diventa partecipe del potere che esso rappresenta, incarnando la contraddizione tra la tenerezza materna e l’orrore dell’evento. Questa ambivalenza riflette una visione complessa e realistica della maternità, che non esclude il dolore e la paura, ma li integra nella totalità dell’esperienza umana.

Polanski, con un linguaggio cinematografico che privilegia il realismo psicologico e l’intimità emotiva, ci mostra il corpo di Rosemary in tutta la sua vulnerabilità e forza. Le inquadrature strette, gli spazi chiusi e soffocanti, la luce che gioca tra ombra e penombra, creano un’atmosfera claustrofobica e al tempo stesso sacra, che rende palpabile la tensione tra oppressione e liberazione, tra dolore e amore. Il corpo della donna diventa così un simbolo potente e polisemico, attraversato da conflitti interiori e sociali.

Un altro aspetto cruciale è il modo in cui il film esplora il tema del sacrificio materno, inteso non solo come rinuncia o sofferenza, ma come atto etico e politico di responsabilità. Rosemary, pur consapevole della natura malvagia del figlio, sceglie di accudirlo, di assumersi il peso di una sorte che trascende il personale per abbracciare il destino dell’umanità. Questo sacrificio è al tempo stesso tragico e eroico, e rappresenta una forma di resistenza e di umanità in un mondo dominato da forze disumanizzanti e oscure.

La maternità, dunque, emerge in Rosemary’s Baby come una metafora complessa e stratificata, capace di racchiudere molte delle tensioni e delle contraddizioni della società contemporanea. Essa è esperienza di potere ma anche di vulnerabilità, di creazione ma anche di distruzione, di amore ma anche di paura. Questa visione ambivalente rompe con le rappresentazioni tradizionali e stereotipate della maternità, offrendo uno sguardo nuovo e profondo sulle dinamiche che attraversano il corpo e la psiche delle donne.

In definitiva, Rosemary’s Baby ci consegna una riflessione potente e provocatoria sulla maternità, che si pone al crocevia tra dimensione personale e collettiva, tra biologia e cultura, tra amore e terrore. La gravidanza di Rosemary diventa così un simbolo universale, una finestra aperta sulle profondità dell’animo umano e sulle forze oscure che lo attraversano. Attraverso questa esperienza, il film ci invita a ripensare il ruolo della donna, la natura del potere e la complessità della vita stessa, con tutte le sue luci e le sue ombre.

XV. Il contesto storico e culturale di Rosemary’s Baby: paure collettive e rappresentazione del male

Per comprendere appieno la profondità e l’impatto di Rosemary’s Baby, è fondamentale inserire il film nel contesto storico e culturale che ne ha plasmato la genesi e la ricezione. Roman Polanski ha realizzato quest’opera alla fine degli anni Sessanta, un decennio che, più di ogni altro nella storia contemporanea occidentale, ha vissuto un terremoto sociale e culturale. Questa epoca, caratterizzata da grandi fermenti e trasformazioni, si riflette in modo pregnante nella rappresentazione del male e della paura nel film, che diviene così uno specchio inquietante delle ansie collettive di quel periodo.

Gli anni Sessanta furono un decennio di radicali mutamenti politici, sociali e culturali. La Guerra del Vietnam, che si prolungava e si intensificava, alimentava una sensazione diffusa di angoscia e di insicurezza rispetto al futuro. Movimenti di protesta giovanili, come il ’68, scuotevano le fondamenta delle istituzioni tradizionali, mettendo in discussione valori consolidati e aprendo la strada a una nuova consapevolezza politica e sociale. Il femminismo iniziava a emergere con forza, interrogandosi sul ruolo delle donne nella società e reclamando autonomia e libertà. Le rivoluzioni sessuali mettevano in crisi i tabù e le convenzioni, mentre le lotte per i diritti civili negli Stati Uniti sfidavano apertamente le strutture di potere consolidate.

In questo clima di rottura e di crisi, la società occidentale viveva un senso di disorientamento e di vulnerabilità. Le certezze fino a quel momento date per scontate, tra cui la fiducia nelle istituzioni, nella religione e nel progresso, cominciavano a vacillare. La diffusione di teorie complottiste, l’aumento della sfiducia nei confronti dei governi e delle élite, e la crescente consapevolezza delle disuguaglianze sociali contribuirono a generare un’atmosfera di sospetto e inquietudine diffusa.

Rosemary’s Baby è figlio di questo contesto, ne è allo stesso tempo espressione e riflesso. La borghesia newyorkese rappresentata nel film non è soltanto un gruppo sociale, ma diventa il simbolo di un potere occulto e manipolatore, capace di controllare le vite degli individui dietro una facciata di rispettabilità e normalità. I personaggi che popolano il palazzo in cui Rosemary e Guy abitano incarnano questa doppiezza: sono al tempo stesso vicini di casa apparentemente amichevoli e membri di una setta satanica che manipola la realtà e trama contro la protagonista.

Questa rappresentazione della borghesia come forza oppressiva e corrotta è una delle chiavi di lettura fondamentali del film. Essa riflette la diffusa percezione degli anni Sessanta di un mondo in cui le strutture di potere tradizionali – la famiglia patriarcale, la Chiesa, lo Stato – non sono più garanzie di sicurezza e ordine, ma diventano fonti di inganno e dominio. Il male, quindi, non è qualcosa di esterno o metafisico, ma si manifesta all’interno della società stessa, nei luoghi più familiari e apparentemente innocui.

La setta satanica che controlla il palazzo rappresenta una minaccia che è insieme sovrannaturale e terribilmente concreta. Essa incarna l’idea che esistano poteri nascosti e invincibili, capaci di influenzare il destino delle persone senza che esse se ne accorgano. Questa idea risuona con le paure diffuse in quegli anni di complotti governativi, di manipolazioni mediatiche e di controllo sociale invisibile. Il film coglie così lo spirito di un’epoca in cui la realtà appariva sempre più ambigua e difficile da decifrare.

Allo stesso tempo, la figura di Rosemary diventa un archetipo dell’individuo moderno, che si trova a dover navigare in un mondo incerto e ostile, in cui le certezze si dissolvono e la fiducia nelle relazioni umane è tradita. Il suo percorso di perdita di innocenza e di acquisizione di una consapevolezza dolorosa e solitaria riflette la condizione di molti individui in quegli anni, che si trovarono a dover fare i conti con una realtà più complessa e problematica di quanto avessero immaginato.

Il film, inoltre, si inserisce in un contesto di crisi religiosa e spirituale che caratterizza profondamente la cultura occidentale degli anni Sessanta. La celebre frase “Dio è morto”, di matrice nietzschiana, riecheggia in tutta l’opera come un ammonimento sulla perdita di valori e di punti di riferimento spirituali. In una società sempre più dominata dal consumismo e dalla razionalità scientifica, la religione tradizionale perde il suo ruolo centrale e viene relegata a mera formalità, incapace di rispondere alle inquietudini profonde dell’uomo contemporaneo.

Questa crisi religiosa contribuisce a ridefinire la rappresentazione del male nel film. Il demonio non è più una figura esterna e netta, ma un’entità insidiosa, che si insinua nelle pieghe della quotidianità e delle relazioni sociali. Il male diventa così un elemento borghese, familiare, che si cela dietro la rispettabilità e la normalità, trasformando la casa e la famiglia, luoghi simbolici di protezione, in spazi di minaccia e di violenza psicologica.

La condizione femminile, infine, è uno degli aspetti più significativi su cui il film getta luce. Il femminismo emergente degli anni Sessanta e Settanta denunciava le strutture patriarcali e il controllo sociale sul corpo e sulla vita delle donne. Rosemary’s Baby coglie e amplifica queste tematiche, presentando la gravidanza e la maternità non solo come esperienza personale ma come terreno di oppressione e controllo. Rosemary è vittima di una società che decide per lei, che sfrutta il suo corpo e ne nega la soggettività, rendendola prigioniera di un destino che non ha scelto.

In questo senso, il film non è semplicemente un horror soprannaturale, ma un ritratto acuto e critico delle dinamiche sociali, culturali e politiche che hanno caratterizzato un’epoca di profonde trasformazioni. La paura e il male in Rosemary’s Baby non sono entità astratte o metafisiche, ma si incarnano in forme reali e tangibili di dominio, manipolazione e alienazione.

Infine, l’eredità culturale del film è straordinaria. Rosemary’s Baby ha influenzato profondamente la rappresentazione del male e della paura nel cinema e nella cultura popolare, aprendo la strada a un modo nuovo di raccontare il terrore come fenomeno psicologico e sociale. Il film ha saputo tradurre in immagini e narrazione le inquietudini di un’epoca, e continua a parlare ancora oggi con la stessa forza e intensità, confermandosi un’opera di straordinaria modernità e rilevanza.

XVI. Paranoia e controllo sociale in Rosemary’s Baby: la morsa invisibile del potere

Uno dei temi più pregnanti e inquietanti di Rosemary’s Baby è senza dubbio la paranoia che permea l’intera narrazione, accompagnando la protagonista in un percorso sempre più tortuoso, solitario e angosciante verso la consapevolezza del complotto di cui è vittima. Questa sensazione di sospetto crescente non è un semplice espediente narrativo tipico del thriller o dell’horror, ma assume una valenza simbolica molto più ampia, rappresentando la condizione esistenziale e psicologica dell’individuo moderno in una società dominata da meccanismi di controllo, manipolazione e dominio invisibili ma onnipervasivi.

La paranoia di Rosemary è costruita con un’incredibile maestria narrativa da Roman Polanski: non si manifestano mai sussulti bruschi o colpi di scena plateali, ma piuttosto un accumulo lento e inesorabile di indizi sottili, comportamenti ambigui, silenzi inquietanti e situazioni ambivalenti che mettono in crisi il senso di realtà e di fiducia della protagonista e dello spettatore. Il sospetto cresce insieme alla gravidanza, trasformando il corpo femminile in un territorio non solo biologicamente esposto e vulnerabile, ma anche psicologicamente e socialmente sotto assedio.

Questa dinamica riflette profondamente la sensazione di insicurezza che caratterizzava la società americana – e occidentale in generale – degli anni Sessanta, un’epoca segnata da tensioni politiche esasperate, conflitti sociali irrisolti e la percezione di una molteplicità di minacce sia interne sia esterne. La paura del controllo occulto, dei complotti governativi, delle forze oscure e di poteri invisibili che agiscono nell’ombra e condizionano le vite di tutti è un sentimento diffuso che trova in Rosemary’s Baby una rappresentazione concreta, tangibile e insieme profondamente disturbante.

Il palazzo in cui Rosemary e Guy si trasferiscono diventa il microcosmo perfetto di questa società chiusa, autoreferenziale e ipocrita, in cui le apparenze di civiltà, normalità e rispettabilità nascondono una realtà oppressiva, manipolatoria e violenta. I vicini, con la loro gentilezza formale ma inquietante, sono al tempo stesso amici apparenti e carcerieri silenziosi, complici di un disegno sinistro che espropria Rosemary della sua libertà e della sua integrità fisica e mentale.

In particolare, la figura di Minnie Castevet si staglia come emblema di questa ambivalenza. La sua presenza invadente e apparentemente casuale, le intromissioni sospette, la familiarità sgradevole sono il volto di un potere che si insinua nella vita privata e violenta i confini dell’intimità. Minnie non è solo un personaggio negativo, ma rappresenta simbolicamente la dimensione collettiva della sorveglianza, del conformismo e del controllo sociale che stringono la morsa attorno a Rosemary, facendone una vittima destinata a soccombere.

Il marito Guy, figura ambigua e ambivalente, incarna invece il tradimento e la complicità interna al nucleo familiare, rendendo l’esperienza di isolamento e abbandono di Rosemary ancora più profonda e dolorosa. Guy, che accetta di vendere il corpo e l’anima della moglie per ottenere successo personale, è la rappresentazione di un potere patriarcale che mercifica il corpo femminile e lo strumentalizza per fini economici e sociali. La sua complicità attiva mostra come il dominio non sia solo esercitato dall’esterno, ma anche interiorizzato e perpetuato dall’interno delle relazioni più intime.

La paranoia che si dipana lungo tutto il film diventa dunque una metafora della condizione esistenziale dell’individuo in una società complessa e spesso ostile. L’uomo moderno, rappresentato da Rosemary, è gettato in un mondo che non riesce più a comprendere, governato da forze invisibili e imperscrutabili, dove la fiducia viene tradita e la libertà si rivela spesso un’illusione. La paura del controllo totale, della perdita di autonomia, si traduce in un terrore primordiale che scava nelle radici più profonde della psiche umana, radicato nel bisogno fondamentale di sicurezza, appartenenza e controllo della propria vita.

Dal punto di vista estetico e narrativo, Polanski costruisce questa atmosfera di crescente paranoia con una sapienza tecnica e stilistica fuori dal comune. Le inquadrature strette e claustrofobiche isolano la protagonista, trasformando ambienti domestici e abituali in spazi angoscianti e minacciosi. I dettagli apparentemente innocui – un sorriso troppo lungo, un gesto improvviso, un silenzio sospetto – acquistano peso e significato, aumentando la tensione e l’ansia dello spettatore. Il montaggio lento, la cura del suono e l’uso sapiente dei rumori ambientali contribuiscono a creare un’atmosfera di oppressione quasi palpabile, una sensazione costante di minaccia invisibile che si fa sempre più pressante e inevitabile.

Parallelamente, la progressiva alienazione di Rosemary è resa evidente anche attraverso il distacco dalle figure di riferimento che in teoria dovrebbero proteggerla: il medico che minimizza le sue paure e non crede ai suoi sospetti; il marito che tradisce la sua fiducia e la esclude dalla verità; i vicini che si nascondono dietro sorrisi falsi e gentilezze ipocrite. Questo isolamento non è solo fisico ma soprattutto psicologico ed emotivo, portando la protagonista a vivere una solitudine totale e una crisi identitaria che amplificano la sua fragilità e il suo senso di impotenza.

La paranoia, in Rosemary’s Baby, diventa così il simbolo di un rapporto più ampio e complesso tra individuo e potere nella società contemporanea. Essa denuncia come il controllo non si eserciti solamente attraverso la violenza esplicita o la coercizione fisica, ma anche tramite la manipolazione psicologica, la complicità tacita e il conformismo sociale. La morsa invisibile del potere si fa allora ancora più pervasiva e difficile da riconoscere, perché agisce dentro le relazioni più intime e nei luoghi più familiari.

Questa rappresentazione del controllo e della paranoia è oggi più attuale che mai. In un’epoca segnata dalla sorveglianza digitale, dalla manipolazione dell’informazione e dalla crescente diffusione di meccanismi di controllo sociale sempre più sofisticati e invisibili, Rosemary’s Baby si conferma come un’opera profetica, capace di anticipare e descrivere con straordinaria lucidità dinamiche che oggi sono parte della nostra realtà quotidiana.

Il film offre dunque non solo un’esperienza di terrore e suspense, ma anche una riflessione profonda e critica sul prezzo della libertà e sulla fragilità dell’identità personale in un mondo dominato da forze spesso occulte e inafferrabili. La paranoia di Rosemary diventa un monito universale e senza tempo, un invito a vigilare contro ogni forma di oppressione, anche quella più subdola e nascosta, e a riconoscere il valore insostituibile della consapevolezza, della resistenza e della solidarietà.

In conclusione, Rosemary’s Baby ci consegna un ritratto straordinariamente complesso e potente della paranoia e del controllo sociale, che va oltre la narrazione horror per interrogare le radici più profonde delle nostre paure, della nostra identità e del nostro rapporto con il potere. È un’opera che rimane inquietante, attuale e fondamentale per chiunque voglia comprendere non solo il cinema, ma la condizione umana nella modernità.

XVII. La dimensione psicologica e la soggettività di Rosemary: un viaggio nell’angoscia, nell’identità e nella perdita del controllo

E ancora in Rosemary’s Baby pulsa una delle esplorazioni più intense e complesse della psiche umana nel cinema di genere, incarnata magistralmente dalla protagonista Rosemary Woodhouse. Roman Polanski, attraverso la sua regia precisa e profonda, ci conduce non solo lungo una trama di suspense e terrore, ma soprattutto dentro il labirinto interiore di una donna il cui viaggio psicologico si trasforma in un viaggio simbolico nell’angoscia esistenziale, nella crisi dell’identità e nella perdita progressiva del controllo sul proprio corpo e sulla propria vita.

Fin dalle prime sequenze del film, Rosemary si presenta come una giovane donna piena di speranze, innocente, innamorata, desiderosa di maternità e di costruire un futuro felice insieme al marito Guy. Questa immagine iniziale di purezza e fiducia è costruita attraverso un linguaggio visivo e narrativo che sottolinea la sua vulnerabilità e la sua apertura al mondo: il modo in cui si muove, la luce che la illumina, lo sguardo fiducioso e dolce, la sua voce pacata ma vivace. Rosemary incarna una soggettività ingenua, non ancora contaminata dalle ombre che si addenseranno intorno a lei.

Tuttavia, questa fiducia viene messa rapidamente alla prova dal susseguirsi degli eventi che la spingono in una spirale di dubbio, confusione e angoscia sempre più profonda. Il film è costruito con una sapienza narrativa che immerge lo spettatore nella soggettività di Rosemary, facendogli sperimentare attraverso la sua percezione la crescente alienazione e il progressivo smarrimento. I sogni inquietanti e le visioni oniriche che la protagonista ha sono rappresentazioni potenti e simboliche del suo stato mentale: veri e propri segnali premonitori che si manifestano come frammenti di un inconscio turbato, dove realtà e incubo si confondono in un magma indistinto.

Questa dimensione psicologica profonda è fondamentale per comprendere la natura della paranoia che avvolge Rosemary. I segnali ambigui provenienti dall’ambiente – i comportamenti sospetti dei vicini, i silenzi complici del marito, i gesti e le parole sfuggenti – non sono immediatamente decifrabili e lasciano la protagonista sospesa in un limbo di incertezza. Questo limbo psicologico, fatto di attese e di angosce senza risposte, riflette una condizione universale di vulnerabilità umana, in cui la realtà stessa diventa un terreno instabile e insicuro.

Il conflitto interno di Rosemary si fa allora sempre più acuto: da un lato, il desiderio profondo e naturale di maternità e di amore per il bambino che porta in grembo, dall’altro, la crescente consapevolezza – sebbene parziale e frammentaria – che quel figlio potrebbe essere portatore di un male assoluto e incomprensibile. Questo dilemma non è solo una questione narrativa, ma una profonda dissonanza emotiva e simbolica, che attraversa tutto il film e rende la protagonista una figura tragica, vulnerabile e allo stesso tempo eroica nella sua lotta per mantenere la propria integrità.

Il film si spinge a rappresentare anche la tensione tra la soggettività individuale e le forze sociali e culturali che ne determinano il destino. Rosemary è inserita in una società borghese che le impone ruoli e aspettative precise, ma che contemporaneamente la relega a una posizione di invisibilità e impotenza. La sua voce viene spesso ignorata, le sue paure sminuite o liquidate come frutto di un’immaginazione malata. Il suo corpo diventa un campo di battaglia dove si scontrano volontà e poteri antagonisti: da un lato la maternità come esperienza sacra e naturale, dall’altro la mercificazione e il controllo sociale esercitato su di lei.

Questa situazione è resa con grande efficacia da Polanski attraverso scelte registiche di forte impatto emotivo. Le inquadrature ravvicinate sul volto di Rosemary ci mostrano ogni minima sfumatura di angoscia, ogni tremito, ogni esitazione; la luce modulata sottolinea i mutamenti del suo stato d’animo; il montaggio calibrato ci fa sentire la sua crescente alienazione. L’uso del sonoro, con i silenzi tesi e i rumori ambientali amplificati, contribuisce a creare una dimensione sensoriale che coinvolge lo spettatore a un livello profondo e immediato.

Il progressivo smarrimento di Rosemary culmina in una vera e propria crisi identitaria, che si manifesta nella perdita di controllo su sé stessa e sul proprio corpo. Questo è uno degli aspetti più tragici e simbolici del film: la protagonista non è più padrona del proprio destino, ma vittima di forze esterne che la privano della sua autonomia e della sua umanità. La frammentazione della sua soggettività, divisa tra realtà e incubo, tra desiderio e paura, riflette la crisi più ampia dell’individuo moderno, smarrito in un mondo dominato da poteri incomprensibili e da leggi opache.

In questo senso, Rosemary’s Baby si eleva al di là del semplice racconto horror per diventare un’opera di grande profondità psicologica e simbolica. Il viaggio interiore di Rosemary diventa emblematico del conflitto tra il sé autentico e le imposizioni della realtà esterna, tra la volontà di libertà e le strutture di controllo che la limitano. Il suo percorso è doloroso, ma anche necessario: un invito a riconoscere la fragilità dell’identità umana e la complessità delle dinamiche psicologiche che la plasmano.

Il film ci offre così uno spazio di empatia e identificazione con la protagonista, che non è solo vittima di eventi soprannaturali, ma simbolo universale delle nostre paure più intime e delle nostre incertezze esistenziali. La psiche di Rosemary diventa uno specchio in cui possiamo riflettere la nostra stessa condizione umana, il nostro desiderio di comprendere, resistere e sopravvivere di fronte all’ignoto e al male.

Inoltre, la soggettività di Rosemary mette in luce anche questioni più ampie legate alla condizione femminile, alla maternità e al ruolo della donna nella società. Il film, pur senza essere un manifesto femminista esplicito, denuncia con forza le forme di oppressione e di controllo esercitate sul corpo e sulla vita delle donne, rappresentando la gravidanza come un’esperienza ambivalente, segnata da gioia e terrore, da amore e sfruttamento.

Questa dimensione psicologica complessa e stratificata rende Rosemary’s Baby un’opera che parla a più livelli e offre molteplici chiavi di lettura. Il viaggio di Rosemary nell’angoscia e nell’identità è al tempo stesso personale e collettivo, simbolico e reale, intimamente umano e universalmente significativo. È un viaggio che tocca le corde più profonde dell’animo, che ci invita a riflettere sulla nostra vulnerabilità, sulla nostra forza e sul significato della libertà.

In definitiva, l’analisi della soggettività di Rosemary in Rosemary’s Baby ci conduce a una comprensione più ricca e sfaccettata del film, che emerge non solo come un capolavoro del cinema horror, ma anche come una meditazione profonda sulla psiche umana, sull’identità e sulle dinamiche di potere che ne determinano il destino. Un’opera che continua a parlare con straordinaria forza e attualità, confermandosi una pietra miliare della cinematografia mondiale.

XVIII. Il ruolo del sonoro e della colonna musicale: creare tensione, soggettività e invisibilità nel racconto

Tra gli elementi che conferiscono a Rosemary’s Baby la sua atmosfera inquietante e profondamente coinvolgente, un posto di rilievo spetta senza dubbio al sapiente uso del sonoro e della colonna musicale, progettati con grande cura e intelligenza da Roman Polanski insieme al compositore Krzysztof Komeda. Questo aspetto, spesso sottovalutato o relegato a mera funzione di accompagnamento, si rivela invece essere un elemento strutturale fondamentale, indispensabile per costruire la tensione psicologica, modellare la narrazione e immergere lo spettatore nella soggettività di Rosemary, il personaggio centrale.

La colonna sonora di Komeda si caratterizza per una complessità che va oltre la semplice musica di sottofondo: essa è composta da motivi ricorrenti, temi ossessivi e una tessitura sonora che alterna melodie dolci e ipnotiche a suoni disturbanti e inquietanti. Questo gioco di contrasti crea un effetto ipnotico, quasi rituale, che avvolge il film in un’aura di inevitabilità e mistero. I temi musicali, spesso ripetuti con variazioni sottili e progressive, funzionano come un incantesimo che lega la narrazione a un senso di circolarità e di destino ineluttabile, facendo sentire allo spettatore la stessa sensazione di prigionia e angoscia che attraversa Rosemary.

Komeda utilizza con grande maestria anche i silenzi e i vuoti sonori, sfruttando lo spazio acustico come un elemento narrativo vero e proprio. Questi momenti di sospensione non sono vuoti ma carichi di significati, di tensione e di attesa: creano un senso di solitudine e isolamento che rispecchia lo stato d’animo della protagonista e aumentano la suspense senza ricorrere a effetti spettacolari o eccessivamente rumorosi. Il silenzio diventa una presenza minacciosa, un vuoto inquietante in cui può manifestarsi il male.

Il lavoro sul sonoro si estende anche all’uso dei rumori ambientali e dei suoni diegetici – quei suoni che provengono dall’interno della scena e fanno parte del mondo narrativo –, come il fruscio di una porta che si apre o si chiude, il ticchettio di un orologio, i passi soffocati sul pavimento, il suono di una voce sussurrata o di un respiro affannoso. Questi dettagli acustici, apparentemente innocui, vengono ingigantiti, amplificati o resi ambigui per aumentare il senso di inquietudine e mettere in crisi la percezione della realtà sia della protagonista sia dello spettatore.

Il sonoro, quindi, non è mai un semplice accompagnamento o un sottofondo, ma diventa parte integrante e attiva della narrazione. Esso contribuisce a costruire la prospettiva soggettiva di Rosemary, mettendo in primo piano la sua esperienza sensoriale e emotiva. I suoni che lei percepisce si fanno veicolo delle sue paure, dei suoi dubbi e delle sue ansie, trasformando la colonna sonora in un tramite diretto tra la mente della protagonista e lo spettatore.

In questo senso, la colonna sonora funziona come un vero e proprio filtro sensoriale: il pubblico non sente solo la musica o i rumori, ma sente ciò che Rosemary sente, vive la sua angoscia, la sua tensione, la sua crescente paranoia. L’effetto è quello di una partecipazione emotiva profonda, che supera la semplice osservazione e conduce a un’immersione totale nell’universo psicologico del film.

Un elemento particolarmente rilevante è l’uso del leitmotiv, una tecnica musicale che consiste nell’associare a un personaggio, un’idea o un’emozione un tema musicale ricorrente. In Rosemary’s Baby, il leitmotiv ritorna in diverse forme e variazioni, sottolineando l’ossessività del tormento interiore della protagonista e la ciclicità del suo incubo. Ogni ritorno di questo tema musicale contribuisce a intensificare la tensione e a richiamare alla mente il pericolo imminente, creando una struttura narrativa che si articola anche attraverso la musica.

Il silenzio, d’altro canto, viene utilizzato da Polanski come uno strumento di suspence e di straniamento. Nei momenti in cui la musica si ferma o è assente, il silenzio non è mai una semplice pausa ma una presenza carica di significati. Esso sottolinea l’isolamento di Rosemary, la sua vulnerabilità e la solitudine che la circonda, e allo stesso tempo suggerisce la presenza di un potere occulto e minaccioso che agisce nell’ombra, pronto a colpire.

In alcune sequenze chiave, come quelle in cui Rosemary sperimenta sogni o visioni, o si avvicina alla verità nascosta, il sonoro diventa quasi un sussurro, un filo sottile che si insinua nella mente dello spettatore e accompagna la discesa nell’incubo. La musica e i suoni si fanno eterei, stranianti, e contribuiscono a dissolvere i confini tra realtà e illusione, tra conscio e inconscio, creando uno spazio in cui il senso del reale si fa incerto e perturbante.

Parallelamente, il paesaggio sonoro contribuisce a costruire l’ambientazione in cui si svolge la vicenda. Il palazzo degli Castevet non è solo uno spazio fisico ma un luogo psichico e simbolico, un labirinto sonoro e visivo in cui Rosemary si trova imprigionata. Ogni rumore, ogni eco, ogni suono nascosto amplifica la sensazione di sorveglianza, di controllo e di oppressione, rendendo palpabile la presenza costante di una minaccia che non si può vedere ma si percepisce incessantemente.

Dal punto di vista tecnico, la colonna sonora di Komeda si distacca dai cliché tipici della musica horror degli anni Sessanta. Non vi sono urla o effetti sonori esagerati, ma piuttosto una raffinata composizione che unisce elementi jazz, melodie inquietanti e atmosfere oniriche. Questa modernità compositiva contribuisce a fare di Rosemary’s Baby un modello di equilibrio tra narrazione visiva e sonora, in cui la musica non si limita a sottolineare l’azione, ma diventa parte essenziale dell’esperienza emotiva e simbolica.

Il lavoro sul sonoro e sulla musica ha anche una funzione simbolica: i suoni e la musica sono mezzi per rendere percepibile un ordine oscuro e nascosto, per suggerire la presenza di forze occulte che agiscono al di là della realtà visibile. In questo modo, il sonoro diventa un linguaggio che parla di ciò che non può essere detto esplicitamente, che racconta il mistero e il terrore nascosto sotto la superficie della vita quotidiana.

Infine, va sottolineato come la colonna sonora contribuisca anche a fissare nella memoria dello spettatore l’impronta emotiva del film. I temi musicali di Komeda, con la loro ricorrenza e la loro forza evocativa, rimangono impressi a lungo, continuando a evocare la tensione, la paura e la bellezza ambigua di Rosemary’s Baby molto tempo dopo la visione.

In conclusione, l’uso del sonoro e della musica in Rosemary’s Baby non è solo un raffinato esercizio artistico, ma un elemento essenziale per la costruzione della narrazione, della soggettività e dell’atmosfera del film. Polanski e Komeda creano insieme un tessuto sonoro che avvolge e penetra lo spettatore, trasformando il cinema in un’esperienza multisensoriale che parla non solo agli occhi ma anche all’anima, rendendo palpabile l’invisibile e costruendo una tensione duratura e profonda. Questo lavoro dimostra quanto il suono possa essere protagonista al pari dell’immagine, ampliando la complessità e la potenza di un’opera che si conferma un classico imprescindibile del cinema mondiale.

XIX. La maternità come tema centrale: ambivalenza, sacralità, terrore e dimensioni socio-culturali

La maternità emerge in Rosemary’s Baby come uno dei temi più profondi, complessi e stratificati, attorno al quale si costruisce gran parte della potenza emotiva e simbolica del film. Roman Polanski affronta la gravidanza non solo come un evento biologico o personale, ma come una esperienza esistenziale e culturale che intreccia desideri, paure, potere e oppressione, creando un campo di tensione dove si scontrano forze contrapposte e dove la donna diventa il fulcro di una drammatica battaglia simbolica.

In principio, la maternità appare sotto una luce quasi idilliaca, incarnata dalla figura di Rosemary Woodhouse, giovane donna piena di innocenza, speranze e sogni. Polanski costruisce questa immagine con una delicatezza tale da trasmettere il senso di meraviglia, tenerezza e attesa che accompagna l’esperienza della gravidanza. La giovane moglie è ritratta con uno sguardo dolce e fiducioso verso il futuro, desiderosa di donare e ricevere amore, di creare un legame indissolubile con il bambino che porta in grembo. In questa fase iniziale, la maternità è un atto sacro e naturale, simbolo di vita, continuità e trasformazione.

Tuttavia, questa visione viene progressivamente messa in crisi e oscurata dal sopraggiungere di un male oscuro, sotterraneo e inesorabile. La gravidanza di Rosemary si trasforma in un’esperienza ambivalente, segnata da angosce profonde e da sospetti che si fanno sempre più inquietanti. La protagonista vive una trasformazione che coinvolge corpo, mente e spirito: il suo corpo diventa il teatro di una violenza profonda, la sua mente si riempie di dubbi e paure che si sovrappongono alla realtà e la mettono in discussione.

In questo senso, Rosemary’s Baby trasforma la maternità in una metafora potente della condizione femminile in una società patriarcale e borghese. Il corpo di Rosemary è oggetto di controllo, manipolazione e sfruttamento da parte di forze che la esautorano della propria autonomia e volontà. La gravidanza, che dovrebbe essere un’esperienza di scelta e di potere, diventa invece un campo di oppressione e di sottomissione, un momento in cui il diritto della donna sul proprio corpo è negato e violato.

Polanski mette in scena questo tema con una straordinaria sensibilità, ma anche con una lucidità cruda e disarmante. La maternità, lungi dall’essere solo un momento di gioia e speranza, è mostrata anche nella sua dimensione più oscura e ambigua, in cui amore e terrore si intrecciano e si sovrappongono. Rosemary vive un’esperienza di disorientamento profondo, in cui la sua identità di donna e madre è messa in crisi da una realtà che la travolge e la sovrasta.

Questa ambivalenza si riflette nella rappresentazione del figlio che Rosemary porta in grembo, un bambino che non è solo una creatura innocente e amata, ma anche l’incarnazione del male assoluto. Il figlio di Satana, destinato a regnare sul mondo, diventa simbolo di una contaminazione radicale della sacralità materna: il tema del bene e del male si incrocia con quello della vita e della morte, dell’amore e della paura, dando vita a un racconto che sovverte le aspettative e le rassicurazioni tradizionali.

Attraverso questa sovrapposizione simbolica, Polanski compie una critica profonda e inquietante alle strutture sociali e culturali che condizionano la vita delle donne. La gravidanza non è più solo un fatto privato, ma diventa uno spazio pubblico e politico, un luogo in cui si manifestano dinamiche di potere, controllo e violenza. Rosemary è rappresentata come una figura eroica, che lotta per affermare la propria soggettività, per proteggere se stessa e il bambino in un contesto ostile e minaccioso.

Un momento emblematico di questa ambivalenza si concentra nella scena finale, dove, nonostante la consapevolezza della natura demoniaca del figlio, Rosemary sceglie di allattarlo e di prendersene cura. Questo gesto, carico di tensione emotiva e di dolore, simboleggia la forza e la complessità della maternità come esperienza. L’amore materno, pur nella sua dimensione ambigua e drammatica, si rivela un atto di resistenza, un’ultima scintilla di umanità in un mondo altrimenti dominato dall’oscurità.

La maternità diventa così un tema universale e al tempo stesso profondamente personale, capace di parlare alle paure e alle speranze più intime di ogni spettatore. Il film, pur non essendo esplicitamente un manifesto femminista, anticipa molte delle riflessioni successive sulla rappresentazione del corpo femminile, sull’autonomia riproduttiva e sulle forme di violenza strutturale che le donne subiscono nella società contemporanea.

Inoltre, il tema della maternità si intreccia con altre tematiche fondamentali del film, quali la religione, il satanismo, il potere e la borghesia. La gravidanza di Rosemary è al centro di un rituale oscuro che coinvolge forze occulte e una comunità di potere, suggerendo come la maternità possa essere anche un momento di espropriazione e sacrificio al servizio di ideologie e poteri che trascendono la sfera individuale.

Da un punto di vista simbolico, il corpo materno diventa quindi un luogo di conflitto tra forze opposte: da un lato la natura, la vita, il miracolo della nascita; dall’altro il male, la corruzione, la manipolazione e il controllo. Questo dualismo riflette una tensione più ampia, che riguarda non solo la condizione femminile, ma anche la relazione dell’uomo con il sacro, con il potere e con la propria umanità.

La forza narrativa e simbolica del film risiede proprio in questa capacità di rappresentare la maternità nelle sue molteplici sfaccettature, senza semplificazioni o riduzioni. Rosemary non è solo una vittima, ma anche un soggetto attivo che affronta, con tutte le sue fragilità e contraddizioni, un destino terribile e un’esperienza che cambia per sempre la sua vita.

Infine, la rappresentazione della maternità in Rosemary’s Baby si inserisce in un dibattito culturale e sociale che continua a essere attuale, in cui il corpo delle donne e il loro ruolo nella società restano oggetto di tensioni, conflitti e rivendicazioni. Il film, con la sua ambiguità e la sua profondità, invita a riflettere non solo sul terrore e sul soprannaturale, ma anche sulle dinamiche di potere e sulle lotte che attraversano la vita reale di molte donne.

In conclusione, la maternità in Rosemary’s Baby è il cuore pulsante di un’opera che parla di amore e terrore, di potere e vulnerabilità, di vita e morte. È un tema che Polanski affronta con una sensibilità straordinaria, rendendo il film non solo un capolavoro del cinema horror, ma anche un’opera di grande profondità psicologica e simbolica, capace di parlare con forza e attualità alle inquietudini dell’umanità.

XX. Il palazzo Bramford: spazio simbolico, psicologico e luogo di prigionia tra controllo e alienazione

Nel cuore pulsante di Rosemary’s Baby, al di là della vicenda personale della protagonista, si erge un luogo che diventa essa stessa protagonista, un personaggio vivo e inquietante che plasma l’esperienza di Rosemary e condiziona l’intera narrazione: il palazzo Bramford. Questo edificio storico di New York, con la sua imponente struttura, il suo aspetto antico e la sua aura ambigua, non è semplicemente un’ambientazione scenografica funzionale, ma un elemento chiave per la comprensione della complessità tematica e psicologica del film. Roman Polanski lo trasforma in uno spazio carico di simboli, ambiguo e poliedrico, in cui si intrecciano paure, misteri e poteri occulti.

Il Bramford, fin dall’inizio, si presenta come un microcosmo sociale che riflette le dinamiche della borghesia newyorchese, ma soprattutto le sue inquietudini e le sue contraddizioni. I residenti dell’edificio, personaggi eccentrici e misteriosi, rappresentano una comunità chiusa, un sistema sociale stratificato e autoreferenziale, dove il vecchio potere si manifesta sotto sembianze di rispettabilità e controllo. L’apparente cordialità dei vicini nasconde infatti un tessuto di cospirazioni, invadenze e violenze sotterranee, di cui Rosemary diventa vittima inconsapevole.

In questo senso, il palazzo Bramford si configura come un simbolo del potere borghese e capitalistico, un sistema che ingloba e neutralizza gli individui, specialmente i più vulnerabili come Rosemary, piegandoli alle proprie leggi non scritte. Esso incarna un ordine sociale chiuso, che rigetta e soffoca ogni forma di autonomia o differenza, e che si riproduce attraverso meccanismi di esclusione e controllo discreto ma inflessibile.

Dal punto di vista architettonico e visivo, Polanski costruisce il Bramford con un’attenta cura dei dettagli che contribuiscono a creare un’atmosfera claustrofobica, opprimente e surreale. Le stanze anguste, i corridoi lunghi e tortuosi, le scale che si perdono nel buio, i passaggi segreti e le finestre che si affacciano su cortili chiusi e ombrosi configurano uno spazio che sembra al tempo stesso familiare e alienante, rassicurante e minaccioso. Questa architettura non è mai neutra, ma riflette lo stato psicologico della protagonista e la progressiva trasformazione del palazzo in una prigione invisibile.

Il Bramford è un luogo in cui la dimensione pubblica e quella privata si sovrappongono e si contaminano, in cui la vita domestica di Rosemary viene progressivamente invasa e compromessa da forze esterne e occulte. La casa, che dovrebbe essere un rifugio sicuro e protettivo, si fa invece teatro di sorveglianza, manipolazione e violenza. Le pareti, le porte, le finestre diventano barriere, confini mobili e ambigui tra protezione e prigionia, tra visibile e invisibile, tra libertà e oppressione.

Questa duplicità si manifesta anche nel contrasto tra la facciata esterna del palazzo, elegante e rispettabile, e ciò che si cela al suo interno: una realtà sotterranea fatta di rituali satanici, di segreti di famiglia, di tradimenti e di sacrifici. Il Bramford, in questo senso, è il simbolo perfetto del doppio volto della borghesia: una superficie di ordine e civiltà che nasconde un nucleo di violenza, ipocrisia e corruzione.

Dal punto di vista simbolico, il palazzo assume anche il significato di un corpo femminile, un luogo psichico dove si riflettono le contraddizioni e le angosce interiori di Rosemary. Le stanze chiuse, le scale nascoste, i passaggi segreti sono metafore della complessità della mente e del corpo della protagonista, luoghi in cui si nascondono paure, desideri, memorie e minacce. L’architettura del Bramford rispecchia la frammentazione e l’alienazione che Rosemary sperimenta, diventando un’estensione spaziale della sua condizione di prigionia psicologica e fisica.

La progressiva trasformazione del palazzo da luogo di accoglienza a prigione si riflette nel percorso narrativo e psicologico di Rosemary. All’inizio, la protagonista vede il Bramford come una nuova casa, un inizio promettente per la sua vita matrimoniale e materna. Con il procedere della storia, però, lo spazio diventa sempre più angusto, minaccioso, un labirinto di inganni e pericoli da cui Rosemary deve cercare una via di fuga. Questo cambiamento spaziale simboleggia la perdita di controllo e la progressiva emarginazione della protagonista nel sistema che la circonda.

La dimensione sonora contribuisce a rendere ancora più viva e opprimente la presenza del palazzo. I rumori ovattati, i passi indistinti, le voci bisbigliate, i richiami inquietanti creano un ambiente sonoro che rafforza l’idea di un luogo sotto costante sorveglianza e controllo, dove ogni gesto e ogni parola possono essere intercettati o manipolati. Il Bramford si trasforma così in un organismo vivente che avvolge e ingloba Rosemary, imprigionandola in una rete invisibile di potere e terrore.

L’influenza del Bramford si estende anche alla percezione dello spettatore, che è chiamato a condividere l’esperienza di straniamento e alienazione della protagonista. Lo spazio architettonico, con le sue luci filtrate, le ombre profonde e gli angoli nascosti, crea una tensione costante che si trasmette al pubblico, aumentando il senso di inquietudine e di sospensione.

Infine, il palazzo Bramford si inscrive in una lunga tradizione del gotico americano e del cinema horror, in cui la casa o l’edificio diventano luoghi di mistero, paura e conflitto interiore. Polanski però reinterpreta questi codici in chiave moderna, usando l’architettura non solo come elemento estetico ma come strumento narrativo e simbolico, capace di raccontare la storia dal punto di vista emotivo e psicologico.

In definitiva, il Bramford è molto più di un semplice scenario: è il luogo in cui si svolge la battaglia tra Rosemary e le forze oscure che la minacciano, è la prigione invisibile che limita la sua libertà, è il simbolo del potere borghese che domina e controlla. La sua presenza opprimente e ambigua permea ogni scena, contribuendo a creare l’atmosfera unica e disturbante di Rosemary’s Baby e a farne un capolavoro del cinema che parla tanto della società quanto della psiche umana.

XXI. La paura e l’angoscia come elementi strutturali: la costruzione del terrore psicologico e sociale

Rosemary’s Baby si distingue nel panorama del cinema horror e thriller per l’approccio profondamente psicologico con cui Roman Polanski costruisce la paura e l’angoscia, rendendole non solo momenti episodici ma la linfa vitale dell’intero racconto. La paura nel film non si manifesta come un semplice effetto di shock o come una reazione immediata a eventi spaventosi e sovrannaturali, ma si insinua lentamente, in modo subdolo e persistente, penetrando ogni scena, ogni dettaglio, ogni relazione.

Questa costruzione della paura è sottile e stratificata, sviluppata come un tessuto nervoso che si estende dal quotidiano fino al più profondo incubo esistenziale. La paura è, innanzitutto, una paura dell’ignoto, di ciò che sfugge alla comprensione e al controllo, un terrore ancestrale e contemporaneo al tempo stesso. Rosemary è vittima di un incubo che si svolge nel mondo reale, nel contesto di una vita apparentemente normale, e questa contaminazione tra realtà e sovrannaturale è ciò che rende l’angoscia così potente e universale.

Il film racconta la disgregazione progressiva della certezza e della fiducia nella realtà: Rosemary perde gradualmente il senso di ciò che è vero e ciò che è illusorio, la fiducia negli altri e in se stessa. Questa perdita di punti di riferimento è alla radice di un terrore profondo, non episodico, ma pervasivo, che contamina la sua vita e, per estensione, quella dello spettatore. La paura diventa così un’esperienza esistenziale, che trascende il genere e il tempo, diventando simbolo di una condizione umana fondamentale: la vulnerabilità davanti all’ignoto e all’alterità.

Polanski utilizza una molteplicità di strategie cinematografiche per evocare e mantenere questa tensione costante. Il linguaggio filmico si fa veicolo di un terrore psicologico che si esprime attraverso l’uso sapiente della luce e delle ombre: i contrasti tra luce soffusa e buio profondo suggeriscono la presenza di forze nascoste, di pericoli invisibili, di verità celate. Le ombre non sono semplici elementi estetici, ma simboli della minaccia che si annida ovunque, anche nei luoghi più familiari.

La regia si sofferma su dettagli apparentemente insignificanti, come un gesto, uno sguardo, un suono, che assumono improvvisamente una valenza inquietante. Polanski indugia su questi particolari, lasciandoli affiorare lentamente alla coscienza dello spettatore, fino a farli diventare segnali premonitori di un disegno oscuro. Questa tecnica crea una suspense diffusa, in cui la paura non esplode mai in modo violento ma si insinua in modo sottile e invasivo.

L’esperienza di Rosemary diventa così un viaggio nell’angoscia e nella solitudine, una spirale che porta all’isolamento e alla perdita di controllo. La protagonista si ritrova sempre più priva di appoggi, tradita dalle persone a lei vicine, e questa progressiva esclusione rafforza il senso di terrore e impotenza. La paura è amplificata dalla consapevolezza che non esistono vie di fuga sicure, né aiuti esterni efficaci: Rosemary è sola contro un mondo che la inghiotte.

Questa dimensione psicologica della paura è ulteriormente arricchita dalla sua riflessione sociale e culturale. La paura in Rosemary’s Baby non è solo individuale, ma riflette ansie collettive, paure legate al controllo sociale, alla violenza nascosta dietro le facciate rispettabili, all’alienazione dell’individuo nelle strutture moderne. Il film è una potente metafora di un mondo in cui il potere si esercita in modo occulto e discreto, dove la minaccia è silenziosa ma pervasiva.

La gravidanza stessa, fulcro della narrazione, diventa una fonte di angoscia profonda. Il corpo di Rosemary si trasforma in un luogo di terrore: ogni mutamento, ogni dolore, ogni sensazione diventa segnale di una presenza estranea e minacciosa. Il corpo materno, simbolo di vita e di continuità, si fa campo di battaglia in cui la paura prende forma concreta, diventando viscerale e inevitabile. Questa trasformazione del corpo da luogo di gioia a teatro di orrore è resa con una potenza emotiva straordinaria.

La colonna sonora, calibrata con sobrietà ma grande efficacia, contribuisce in modo decisivo alla costruzione dell’atmosfera. I suoni ambientali, i rumori indistinti, le pause silenziose, creano un clima di attesa carico di tensione. Anche il silenzio, in molte sequenze, è un elemento di angoscia, un vuoto che amplifica il senso di isolamento e di pericolo imminente. La musica non interviene con urla o effetti esplosivi, ma con suoni appena percepibili che insinuano inquietudine e ansia.

Un altro aspetto centrale è il modo in cui Polanski sfrutta la soggettività della protagonista per far vivere allo spettatore la stessa esperienza di paura e smarrimento. La macchina da presa spesso segue Rosemary in primo piano, catturandone le espressioni di dubbio, terrore e vulnerabilità. Lo spettatore si trova immerso nel suo punto di vista, condividendo la confusione e l’impotenza di chi non sa più a chi credere o cosa aspettarsi.

Questa immedesimazione crea un legame emotivo intenso che amplifica la potenza del terrore. Non è solo un film da guardare, ma da vivere, un’esperienza immersiva che coinvolge corpo e mente, sensazioni e pensieri. La paura diventa così un’esperienza condivisa, un linguaggio universale che parla alle emozioni più profonde e alle ansie latenti di ogni spettatore.

Infine, la paura in Rosemary’s Baby si intreccia con temi più ampi come la perdita dell’identità, la violenza sul corpo e sulla mente, il tradimento delle relazioni affettive. La gravidanza “diabolica” non è solo un evento soprannaturale, ma una potente metafora delle paure connesse alla maternità, alla femminilità e al ruolo della donna nella società. La paura di perdere il controllo sul proprio corpo e sulla propria vita diventa terrore esistenziale, che Polanski sa rappresentare con rara profondità e sensibilità.

In conclusione, la paura e l’angoscia in Rosemary’s Baby non sono semplici strumenti per creare suspense, ma sono la struttura stessa del film, l’elemento che ne definisce l’essenza narrativa e simbolica. Polanski ci conduce in un viaggio nel cuore dell’angoscia umana, una discesa nelle profondità dell’animo e della società, attraverso una costruzione lenta, raffinata e coinvolgente che fa di Rosemary’s Baby un capolavoro senza tempo del cinema horror psicologico.

XXII. La dimensione onirica e allucinatoria: il sogno come chiave percettiva, simbolica e rituale

Nel cinema di Roman Polanski, la realtà è raramente ciò che sembra. In Rosemary’s Baby, questa tensione tra il visibile e l’invisibile, tra il dato e l’intuito, tra ciò che è esperibile empiricamente e ciò che sfugge alla logica, si esprime in maniera vertiginosa attraverso l’incessante sovrapporsi di veglia e sogno. Il film si struttura come un lungo incubo lucido, un sogno vigile in cui la percezione della protagonista – e quella dello spettatore con lei – viene progressivamente corrosa, sospesa, messa in dubbio. L’effetto non è quello di una semplice alienazione, ma di una transustanziazione della realtà nel simbolico, nel rituale, nell’onirico: la vita quotidiana di Rosemary, apparentemente normale, viene progressivamente invasa da elementi dissonanti, simboli criptici, figure perturbanti che trasfigurano ogni gesto e ogni spazio in segno.

Il sogno in Rosemary’s Baby non è un momento episodico, ma un principio ordinatore, una lente attraverso cui lo spettatore è costretto a guardare l’intera vicenda. La grandezza del film sta proprio nel suo saper costruire una zona liminale in cui la dimensione onirica non è isolabile, né collocabile con certezza. A partire dalla scena centrale del concepimento – la più inquietante e lirica del film – Polanski orchestra una coreografia visiva e sensoriale che dissolve ogni sicurezza. Rosemary, drogata con un dessert alla mousse preparato dalla vicina Minnie, scivola in una trance che non ha nulla del sogno tenero e liberatorio, ma piuttosto della soggezione ipnotica, della paralisi percettiva, del sogno rituale imposto.

Le immagini che si susseguono in quella sequenza – corpi che si spogliano, sangue, crocifissi rovesciati, la voce di un papa trasformata in un mormorio satanico, la pittura che si liquefa e diventa materia – danno forma a un immaginario arcaico, sacrale e conturbante, che non può più essere confinato in una visione notturna, ma si installa nel corpo stesso della protagonista. L’orrore non si risveglia all’alba, ma resta. Penetra. Si fissa. A differenza dei sogni “normali”, che svaniscono con la luce del giorno, qui l’incubo continua nella veglia. La gravidanza stessa è il prolungamento fisico di quell’incubo, il suo segno tangibile. Il ventre di Rosemary diventa ciò che resta del sogno. O meglio: la prova che il sogno, forse, era reale.

Questa ambiguità percettiva è ciò che permette al film di attivare un’esplorazione profondissima dei territori dell’angoscia. L’angoscia, a differenza della paura, non ha oggetto preciso: è la vertigine di non sapere dove ci si trovi, è il sentire che qualcosa non va, ma non riuscire a nominarlo, a descriverlo, a comunicarlo. Ed è questa la condizione in cui Rosemary si trova per gran parte del film. I suoi sogni – che sono visioni, sensazioni, memorie dissimulate – la portano a intuire la verità, ma la verità è inaccettabile per chi le sta intorno. Nessuno la crede, nessuno la ascolta. La sua esperienza viene patologizzata, derisa, ridotta a sintomo. In questo modo, la dimensione onirica diventa anche un discorso sul sapere e sul potere: chi può permettersi di dire cos’è reale e cosa no? Chi ha il potere di interpretare i sogni altrui?

Dal punto di vista psicoanalitico, Rosemary’s Baby si muove su un confine affascinante tra sogno manifesto e contenuto latente. Il sogno del concepimento rituale è un condensato simbolico di tutte le forze che si contendono il corpo e la psiche della protagonista: il desiderio di maternità, la violenza patriarcale, la collusione maschile tra scienza e religione, l’ipocrisia sociale, il tradimento coniugale. Eppure, ciò che vediamo non è un sogno “interiore”, ma una visione imposta, esterna. È la rappresentazione rituale di una possessione, di un’invasione psichica. È qui che il sogno si salda con il mito, con l’archetipo. Il male entra in Rosemary non per errore o per eccesso di desiderio, ma perché è stata offerta. Non è “lei” a sognare: è il mondo a sognare attraverso il suo corpo.

Anche nel resto del film, gli elementi onirici non scompaiono, ma si diffondono come spore nel quotidiano. Le visite mediche, i dialoghi con i vicini, le telefonate, le feste: ogni evento è come deformato da una lente irreale. I colori diventano lattiginosi, i suoni ovattati, i volti lievemente distorti, e la narrazione stessa si fa sempre più ellittica, suggerendo una realtà ambigua, mutante, illogica. È la logica dell’incubo che avanza: una realtà che non può più essere analizzata, ma solo attraversata con terrore.

La critica ha spesso parlato, a questo proposito, di “estetica del delirio calmo”: Polanski non utilizza salti temporali bruschi, né effetti visivi eccessivi. Al contrario, il sogno si insinua nei dettagli: il telefono che squilla ma non ha filo, il libro che manca dallo scaffale, il passaggio segreto aperto con troppa facilità. La veglia è costellata di spie del sogno, e il sogno si mimetizza nella veglia. Ne risulta una realtà sospesa, intrisa di presagi, in cui nulla è come appare e tutto è doppio: ogni oggetto può essere simbolo, ogni gesto può essere rito.

Sul piano simbolico, il sogno di Rosemary assume anche una dimensione religiosa e sacrale: è un sogno d’iniziazione, un’anti-annunciazione. Così come Maria viene visitata dall’angelo per essere informata della propria gravidanza divina, Rosemary viene “visitata” dal Male e drogata per concepire il figlio dell’Anticristo. Ma a differenza di Maria, non ha voce in capitolo. È una martire inconsapevole, un corpo sacrificale. Il suo sogno, allora, non è soltanto un’esperienza soggettiva, ma l’eco di una tradizione millenaria che sacrifica il corpo femminile sull’altare della riproduzione simbolica del potere.

Nel finale del film, questa ambiguità non viene sciolta. Anzi, si radicalizza. Il pianto del bambino, la culla nera, le parole degli adepti riuniti nell’appartamento contiguo, tutto rimanda a una realtà nuova e inconcepibile. Rosemary vede il figlio – o il mostro – ma il film non mostra mai il suo volto. In quell’atto estremo di censura visiva, Polanski lascia l’ultima parola proprio all’immaginazione onirica dello spettatore: il vero incubo non ha forma, perché ha già vinto. È in lei, ed è in noi. E quando Rosemary prende in braccio il bambino per cullarlo, quando accetta di amarlo, nonostante tutto, compie l’ultimo passaggio del rito: accetta che il sogno sia realtà.

XXIII. Il linguaggio sequestrato: comunicazione, menzogna e manipolazione nel mondo di Rosemary’s Baby

Nel cuore di Rosemary’s Baby si cela un’oscura verità: l’orrore non si manifesta solo attraverso riti satanici o presenze demoniache, ma attraverso un processo molto più quotidiano, insinuante e disarmante — la manipolazione del linguaggio. La parola, che nella tradizione umanista è veicolo di coscienza, di relazione, di libertà, diventa qui strumento di dominio, di occultamento, di violenza simbolica. Più che un film sull’Anticristo, Rosemary’s Baby è un film sulla sottrazione della parola, sulla distruzione della possibilità di esprimere il dolore e, di conseguenza, di resistere.

Fin dalle prime scene, il linguaggio si configura come spazio di costrizione. Le conversazioni che avvengono nell’elegante appartamento di Rosemary e Guy, così come nei corridoi del Bramford o nelle stanze illuminate artificialmente del medico, sono avvolte da un lessico che si presenta amichevole, ma che cela un fondo autoritario e normativo. Le parole di Minnie Castevet, il suo chiacchiericcio ridondante e invasivo, sono una maschera che cela il vuoto: è un linguaggio che non permette replica, che annichilisce la risposta, che occupa tutto lo spazio del possibile. Rosemary non può mai dire “no”, perché nessuno le ha mai insegnato che il “no” possa avere valore. La comunicazione si tramuta in monologo, in imposizione di una narrazione dominante che esclude ogni deviazione.

Questo aspetto si fa ancora più netto nella relazione con Guy, il marito, la cui collusione con le forze oscure del film si rivela anche attraverso l’uso selettivo e strumentale del linguaggio. Guy mente con dolcezza, con ironia, con tono affettuoso. Le sue parole sembrano rassicuranti, ma sono vuote, calcolate. In realtà, la sua funzione è quella del “gatekeeper” semantico: regola ciò che può essere detto e ciò che deve restare taciuto, ciò che si può immaginare e ciò che è impensabile. La sua colpa più grande, prima ancora del patto con il male, è il tradimento del dialogo. Tradisce Rosemary sottraendole la verità e con essa la possibilità di esistere come soggetto parlante.

Allo stesso modo, anche la medicina — incarnata dal Dr. Sapirstein — diventa un apparato linguistico chiuso. Il linguaggio medico è impenetrabile, sacralizzato. Rosemary, donna giovane, inesperta, viene infantilizzata sistematicamente. Le sue parole vengono recepite come “ansie”, i suoi dubbi come “paranoie”, le sue percezioni come “isteria”. L’intero mondo che la circonda agisce secondo un codice patriarcale, in cui l’esperienza soggettiva femminile è epistemologicamente delegittimata. Il linguaggio della scienza maschile si impone come verità, e non ammette revisioni. Questa dinamica è devastante: Rosemary non solo si vede negare l’ascolto, ma interiorizza il dubbio sulla legittimità stessa delle sue emozioni. Le parole che sente dentro non trovano più uscita, perché nessuno le riconosce. E una parola che non può essere riconosciuta, semplicemente non esiste.

Polanski, con estrema finezza, mostra che questa crisi non riguarda solo la protagonista, ma anche lo spettatore. Chi guarda il film si trova immerso in una selva di parole che sembrano spiegare tutto, ma che in realtà sviano, confondono, anestetizzano. Lo spettatore si chiede: Rosemary sta esagerando? È paranoica? O dice la verità? Il film non offre certezze immediate, e questa ambiguità produce una frizione profonda con la grammatica tradizionale del genere horror. Qui non c’è un mostro da sconfiggere, né un colpo di scena risolutivo. C’è solo la progressiva consapevolezza che la verità non può essere detta, perché le condizioni stesse per dirla sono state distrutte.

Il sequestro del linguaggio assume anche una dimensione rituale. La congrega diabolica che circonda Rosemary parla poco, ma agisce molto attraverso le parole degli altri. La vera forza di questa setta è l’egemonia discorsiva: riesce a piegare le parole al proprio scopo, a colonizzare il senso. Il “bene” diventa “protezione”, la violenza si trasfigura in “premura”, l’inganno in “opportunità”. Quando Guy ottiene la parte teatrale a seguito della misteriosa cecità del suo rivale, nessuno nomina ciò che è accaduto. Tutto viene lasciato nel non detto. Il potere della congrega si esercita proprio attraverso questa logica del sottinteso, della reticenza, della rimozione.

È qui che il film assume una portata politica straordinaria. La violenza più efficace non è quella che si vede, ma quella che modifica il significato delle parole, che rende impossibile il dissenso perché ne ha già esautorato la grammatica. In Rosemary’s Baby, l’ideologia borghese e patriarcale agisce soprattutto come dispositivo linguistico: impone un’idea di maternità, di salute, di amore, e marginalizza qualsiasi esperienza che non vi rientri. Rosemary, nel momento in cui comincia a sospettare della “normalità” che la circonda, è già in trappola. La sua voce è troppo debole, le sue parole già compromesse. È una soggettività che parla, ma non può più significare.

Anche la maternità — tema centrale del film — viene manipolata sul piano semantico. Il desiderio iniziale di Rosemary di avere un bambino è legittimo, tenero, ingenuo. Ma viene deformato, sequestrato, trasformato in un’arma contro di lei. Il suo corpo viene reso strumento di una narrazione altrui: una narrazione che ha radici nel mito, nella religione, nella cultura dell’obbedienza. La maternità, anziché essere spazio di potenza creatrice, diventa luogo di colonizzazione simbolica. E ancora una volta, il linguaggio è l’arma primaria: nessuno dice a Rosemary cosa sta accadendo, ma tutti parlano al suo posto.

Nel momento in cui, verso la fine del film, Rosemary riesce a formulare la sua ipotesi — “They’re witches! They want my baby!” — è ormai troppo tardi. Quelle parole, per quanto vere, suonano come delirio. E qui si realizza l’aspetto più tragico e attuale del film: la verità, quando è enunciata da chi non ha potere, viene sempre ridicolizzata. L’orrore non è che Rosemary venga ingannata, ma che venga resa non credibile. È il meccanismo del gaslighting portato all’estremo, l’inversione totale tra ciò che è vero e ciò che appare razionale.

Eppure, nella sequenza finale, qualcosa cambia. Quando Rosemary entra nella stanza e vede la culla nera, la setta che applaude, il marito che distoglie lo sguardo, il medico che le mente un’ultima volta, lei rompe il cerchio. Per un attimo, si riappropria del linguaggio. Le sue parole non sono più dubitative: “What have you done to him?” — e poi, con voce ferma, maniacs. È la prima volta che dice qualcosa di non mediatizzato. È la prima volta che nomina il male, lo chiama per nome. Ed è proprio in quel momento, nel punto di massima chiarezza, che il linguaggio fallisce di nuovo. Perché il male ha già vinto.

Ma nel gesto finale — cullare il bambino, cantare la ninna nanna — si apre una nuova dimensione. Non è una resa, ma un’ulteriore riflessione sul linguaggio: quando la parola è definitivamente corrotta, resta solo il gesto, il silenzio carico di senso. Polanski non ci dice cosa accadrà dopo, ma ci lascia in uno spazio ambiguo in cui forse, nel silenzio della culla, può nascere una lingua altra. Una lingua non del dominio, ma dell’amore. E proprio lì, nell’indecidibilità di quel gesto materno, sta il cuore ambiguo, radicale, tragico e sublime di Rosemary’s Baby.

XXIV. L’appartamento-stanza delle torture: lo spazio domestico come teatro dell’orrore borghese

Tra le molte intuizioni geniali di Rosemary’s Baby, una delle più perturbanti è l’idea che il vero “altrove” del male non sia un castello gotico o una chiesa profanata, bensì l’appartamento borghese, arredato con gusto, luminoso e apparentemente rassicurante. Il film di Polanski sovverte radicalmente l’immaginario dell’horror: non ci sono cripte, boschi stregati, cimiteri, ma cucine accessoriate, salotti pieni di piante, camere da letto con tappeti e cornici. È dentro questo ambiente domestico, anzi proprio perché è domestico, che si consuma il tradimento, la possessione, la trasformazione del corpo e della mente di Rosemary.

L’appartamento al settimo piano del Bramford Building — che esiste realmente con un altro nome, il Dakota — è il luogo da cui il film non si allontana quasi mai. La città di New York resta sullo sfondo, quasi fosse un miraggio, un luogo irraggiungibile. Anche quando Rosemary cammina per strada, si ha l’impressione che lo spazio urbano sia solo un’estensione, un’emanazione dell’isolamento che si consuma tra quelle quattro mura. La sua prigione non ha sbarre: ha un pavimento di parquet, tende bianche, mobili moderni.

Polanski riesce a rendere questo spazio angusto pur senza mai alterarne i contorni architettonici. Nessuna parete si stringe, nessun soffitto crolla. Ma la regia costruisce una geografia mentale dove ogni oggetto è sospetto, ogni corridoio è un cunicolo della mente, ogni porta chiusa nasconde una soglia che non si dovrebbe varcare. Il montaggio lento e le inquadrature fisse, spesso incorniciate da stipiti e soglie, rafforzano questa sensazione: lo spettatore, come Rosemary, si trova all’interno di una gabbia dalla quale non sa di dover fuggire. L’inquietudine nasce proprio da lì: dall’assenza di allarme, dal fatto che la normalità sia diventata irriconoscibile.

La casa, in questo senso, diventa teatro. Ma non un teatro di rappresentazione: piuttosto un luogo performativo in senso rituale. Ogni gesto che si compie in quell’appartamento — cucinare, prendere una medicina, sdraiarsi, chiudere le tende — acquista un significato ulteriore, sottinteso, inquietante. È come se l’intero spazio fosse contaminato da un’energia invisibile che trasforma le azioni quotidiane in gesti sacrificali. Quando Rosemary si appoggia al frigorifero, quando guarda fuori dalla finestra, quando si specchia, lo spettatore non sa se sta ancora vivendo la sua vita o se sta partecipando a un rito di cui è l’offerta sacrificale.

Questa tensione tra la domesticità e la sua deformazione simbolica è amplificata dall’intrusione costante dell’esterno nell’interno. I Castevet, vicini invadenti, non rispettano alcuna soglia: entrano, parlano, donano, assediano. Anche il medico arriva direttamente a casa, come una presenza familiare e spettrale al tempo stesso. Non c’è luogo sicuro, non c’è stanza che Rosemary possa considerare solo sua. Persino la camera del bambino è un luogo già occupato, già designato come scena finale della grande rivelazione. La casa è un involucro del corpo femminile, e come il corpo, viene violata, penetrata, trasformata in contenitore.

Questa analogia tra spazio e corpo è evidente nella disposizione topografica degli ambienti. I corridoi stretti, i bagni angusti, le stanze che si aprono l’una nell’altra, riproducono la morfologia di un utero invaso. L’ingresso segreto che collega l’appartamento di Rosemary a quello dei Castevet è il simbolo perfetto di questa intrusione: il male non arriva da fuori, ma da dentro. Non bussa alla porta, ma si affaccia da una parete che si credeva cieca. È l’orrore del familiare, della prossimità assoluta.

In questo scenario, la finestra — spesso simbolo di apertura, di possibilità — non serve a nulla. È solo un rettangolo che lascia entrare la luce, ma non mostra vie di fuga. New York è là fuori, certo, ma è un luogo vuoto, indifferente. Nessuno risponde alle grida. Nessuno ascolta. L’architettura borghese è diventata una macchina perfetta di silenziamento. Persino la porta di casa, che dovrebbe difendere l’intimità, viene chiusa a chiave da altri, o lasciata aperta senza il consenso di Rosemary. La casa non le appartiene. Non è una casa, è una trappola.

Questo stravolgimento dello spazio domestico ha una valenza profondamente ideologica. È la distruzione del mito borghese della casa come rifugio, come centro affettivo, come luogo della sicurezza. Polanski, attraverso una costruzione visiva sobria ma precisissima, ci mostra come l’ambiente borghese, apparentemente neutro, possa diventare lo spazio ideale per la riproduzione della violenza sistemica. Il male non ha bisogno di castelli e cripte: ha bisogno di mobili IKEA ante litteram, di buone maniere, di moquette silenziose.

Nel finale, quando Rosemary attraversa la porta segreta e raggiunge la stanza dove è stato allestito il “covo” satanico, l’appartamento esplode nel suo significato ultimo: non era un luogo per vivere, ma un set allestito per la messinscena del dominio. Tutto — ogni sedia, ogni coperta, ogni quadro — era parte di un rituale più grande. È in quel momento che la casa, da spazio domestico, diventa scena del crimine metafisico. Eppure, in quel luogo, Rosemary compie anche il suo gesto più controverso e potente: decide di rimanere, di cullare il figlio. Decide di abitare lo spazio dell’orrore, forse per tentare di risemantizzarlo. Di reinvestirlo di senso. Di trasformare quella gabbia in una culla.

Ed è proprio nell’ambiguità di questo gesto che la casa assume un nuovo valore. La sua trasformazione in spazio rituale non è un processo univoco: così come ha potuto diventare strumento di dominio, può forse tornare ad essere luogo del legame, se non della liberazione. Non c’è redenzione nel gesto di Rosemary, ma c’è una scelta. Una donna che decide di restare, di agire, di non fuggire — pur sapendo. In quell’atto muto si consuma un dissenso più profondo di qualsiasi grido. La casa, da spazio invaso, si fa allora soglia della resistenza. E forse, il vero orrore, per chi l’ha dominata finora, è proprio questo: che lei, la madre, resti e non scappi. Che dica: "È mio figlio". Che rifiuti di delegare. Che trasformi l’inferno in salotto, o il salotto in inferno — ma secondo una nuova regola, che non è più quella del patriarcato, della borghesia, del potere.

Polanski lascia tutto questo in sospeso, con lo stesso rigore visivo con cui ha costruito la casa. Niente è esplicitato, tutto è implicito. Ma la lezione è chiara: ogni spazio può essere risemantizzato. E se il male può abitare il salotto, anche la libertà può annidarsi nella culla. Basta decidere di restare.

XXV. “Piccola, dolce, ingenua”: l’infantilizzazione della donna come dispositivo di controllo

Una delle strategie più sottili, ma più corrosive, attraverso cui Rosemary’s Baby articola la sua critica alla società patriarcale e borghese è l’infantilizzazione sistematica della donna. Rosemary, giovane, fragile, mite, viene trattata come una bambina. Non è un’accusa diretta, né una violenza manifesta. È un gesto continuo, quotidiano, strutturale, che attraversa ogni relazione del film: col marito, coi medici, coi vicini, con le amiche, con gli estranei. È come se, nell’universo rappresentato da Polanski, il femminile adulto non potesse esistere come categoria autonoma.

L’infantilizzazione non è solo un atteggiamento, ma una costruzione ideologica che regola tutto: il modo in cui Rosemary viene guardata, ascoltata, vestita, nutrita, curata. Dall’inizio alla fine, la sua parola non è mai veramente autorevole. Anche quando pone domande sensate, anche quando manifesta sofferenza o perplessità, ciò che riceve in cambio è un sorrisetto condiscendente, un consiglio paternalistico, o peggio, un silenzio che la spinge al dubbio di sé. La sua voce viene sempre filtrata da chi la circonda — più che inascoltata, viene tradotta, e quindi disattivata.

Il marito Guy è il primo a utilizzare questo strumento. Il suo linguaggio, i suoi gesti, la sua stessa presenza, sono pieni di un’affettuosità ambigua, che però non ha nulla della cura reale. Guy la chiama “honey”, la coccola, le sistema la coperta sulle ginocchia — ma solo per tenerla buona, come si fa con una bambina prima di raccontarle una bugia. Rosemary si ritrova così in una condizione apparentemente privilegiata, ma in realtà disarmante: non può mai rivendicare il proprio ruolo di adulta, perché il contesto non lo consente. E quando lo fa — quando cerca di esercitare un pensiero critico, una volontà personale — viene ridicolizzata o patologizzata.

La maternità stessa, che dovrebbe essere simbolo di piena realizzazione del corpo femminile, è sequestrata e restituita a Rosemary come un’esperienza passiva, da vivere con gratitudine e silenzio. Le viene detto cosa deve mangiare, cosa deve evitare, quale medico seguire, perfino con chi può o non può parlare delle proprie sensazioni. In questa progressiva perdita di autonomia, il film costruisce una gabbia narrativa di una potenza claustrofobica: più Rosemary si avvicina alla maternità, più viene trattata come una bambina. Più cresce il suo ruolo biologico, più le viene sottratto quello simbolico e sociale.

Persino quando la sua amica Hutch, uno dei pochi personaggi che sembrano ascoltarla davvero, cerca di aiutarla, la logica infantile resta presente: le dà un libro come se fosse una favola da leggere, le parla lentamente, con tono rassicurante. L’unica che la tratta da pari è una giovane amica, sbrigativamente rimossa dalla narrazione. Tutto e tutti, nella diegesi del film, concorrono alla costruzione di un’immagine di Rosemary come soggetto da proteggere — e, proprio per questo, da controllare, silenziare, ridurre.

Polanski non denuncia questa dinamica in modo diretto, non offre modelli alternativi o personaggi risolti. Ma attraverso la regia, la composizione dell’inquadratura, il montaggio, suggerisce allo spettatore un punto di vista critico. Rosemary è costantemente ripresa dal basso, isolata in spazi vasti, mostrata in abiti infantili, truccata in modo dimesso, spesso seduta o distesa. È un corpo che non si erge, che non si impone. È un volto che domanda, ma non pretende. L’infantilizzazione è inscritta anche visivamente, in ogni dettaglio della messinscena.

Questo processo, tuttavia, non è soltanto uno strumento di dominio patriarcale. È anche un meccanismo di normalizzazione borghese. La donna-bambina è l’ideale della società bianca, urbana, benestante che Polanski descrive: dolce, ubbidiente, sorridente, ignara. Non a caso, Minnie Castevet, la strega borghese per eccellenza, tratta Rosemary esattamente così: come una figlia ingenua da proteggere. E la protegge facendole del male, proprio come fa la società a cui appartiene.

Nel gesto finale di cullare il figlio, Rosemary non rompe del tutto questo schema — ma lo incrina. Resta in quella stanza non come vittima, né come madre sacrificale, ma come soggetto incerto, inquieto, forse ambiguamente complice, ma anche potenzialmente riscrivente. È nel suo sguardo — non più bambino — che il film si chiude. E ci lascia un dubbio potente: può una donna, anche solo una volta, rifiutare la parte assegnata? Può una bambina diventare adulta, anche se nessuno glielo permette?

L’infantilizzazione nel film si manifesta anche attraverso la gestualità, la mimica e i silenzi di Rosemary. La sua postura spesso incurvata, le mani intrecciate, il volto che si abbassa davanti agli adulti, sono tutti segnali di un corpo che non può assumere la pienezza del proprio spazio. Questi gesti non sono casuali: sono stati costruiti e diretti per mostrare una condizione di vulnerabilità sistematica. Il film ci mostra quindi non solo un’azione orrorifica esterna — il patto satanico, la possessione, la culla nera — ma un’oppressione che si incarna, che diventa carne viva e gesto.

I silenzi di Rosemary sono altrettanto eloquenti. La protagonista spesso tace, perché sa che le sue parole saranno ignorate o derise, ma questo silenzio è anche una forma di resistenza. In quella rassegnazione apparente si cela una volontà nascosta, una consapevolezza dolorosa che si rifiuta di manifestarsi apertamente. Il silenzio diventa allora campo di battaglia, luogo di conflitto tra il desiderio di ribellione e la paura di essere isolata. Polanski lavora molto su questi momenti, facendo del silenzio uno strumento narrativo potentissimo, che costringe lo spettatore a leggere tra le righe, a cogliere ciò che non viene detto ma si avverte.

Il film dunque mette a nudo come l’infantilizzazione della donna non sia mai un fatto personale o accidentale, ma un dispositivo sistemico, che attraversa famiglia, medicina, politica, religione. Ogni istanza sociale e culturale contribuisce a costruire una figura femminile ridotta a passività, a oggetto di cura e controllo, a soggetto senza voce. È una denuncia radicale, anche se sottile, di un ordine patriarcale che si riproduce attraverso la cancellazione dell’autonomia femminile.

Nel contesto storico in cui Polanski realizza Rosemary’s Baby — la fine degli anni ’60, l’alba della seconda ondata femminista — questa critica acquista un valore ancora più significativo. Il film può essere letto come una metafora di quella lotta: Rosemary è la donna che si risveglia, che comincia a dubitare, che prova a rompere le catene dell’infanzia forzata. Ma la strada è lunga, e il sistema resiste. La borghesia patriarcale è ancora fortissima, e il prezzo della ribellione è altissimo.

Questa prospettiva si lega anche al discorso più ampio sulla maternità: non è solo il corpo di Rosemary ad essere colonizzato, ma anche il suo ruolo sociale e psicologico. La maternità diventa allora campo di battaglia simbolico, luogo dove si misurano potere, controllo e identità. Il desiderio di essere madre, sincero e naturale, viene distorto, trasformato in strumento di oppressione. Il film mostra così l’ambiguità profonda della maternità come istituzione sociale: capace di generare vita, ma anche di limitare la libertà della donna.

Infine, la figura di Rosemary resta sospesa in un limbo di ambiguità: è vittima e potenziale agente, fragile e resistente, bambina e madre. Polanski non propone soluzioni, ma solleva interrogativi ancora oggi urgenti: come si esce dalla condizione di infantilizzazione? Come si recupera la parola, il corpo, l’autonomia? Come si può essere madri senza perdere se stesse? La risposta non è semplice, ma il film apre uno spazio di riflessione profonda, necessario per qualsiasi lettura femminista, politica e culturale dell’opera.

XXVI. New York come labirinto alienante: la città tra luogo di esilio e teatro del potere occulto

In Rosemary’s Baby, la città di New York non emerge mai come protagonista visiva in senso classico, ma la sua presenza è costante, strutturale, e simbolicamente pregnante. Roman Polanski evita infatti di mostrarci una città vivace, pulsante, cosmopolita, come spesso accade nel cinema americano, e sceglie invece di renderla una metropoli alienante, una giungla di asfalto e cemento dove il singolo, soprattutto la donna, si perde, si smarrisce e infine si dissolve. New York diventa così, non solo il luogo fisico dell’azione, ma un contesto metaforico che amplifica la solitudine e l’impotenza di Rosemary, fungendo da teatro invisibile ma pervasivo di un potere occulto che avvolge ogni cosa.

Le prime scene sono emblematiche di questo approccio: la città è rappresentata attraverso suoni dissonanti — clacson, rumori metallici, passi frettolosi, mormorii indistinti. Questi suoni costituiscono un sottofondo opprimente, una sorta di coro greco moderno che accompagna e commenta la vicenda con freddezza distaccata e crescente inquietudine. La città si fa così una presenza acustica che non concede tregua né conforto. Non è un luogo di incontro o di condivisione, ma un organismo impersonale che inghiotte la singola identità in un magma anonimo e inarrestabile.

L’appartamento di Rosemary, al settimo piano del Bramford Building, si staglia come un monolite gotico immerso nel cuore di questa modernità. L’edificio storico, in netto contrasto con la frenesia moderna, è un contenitore denso di storia e di simboli. La sua presenza fisica e architettonica è imponente: facciate severe, dettagli neogotici, corridoi labirintici, passaggi nascosti. Il Bramford è la sintesi perfetta del conflitto tra tradizione e modernità, tra razionalità apparente e irrazionalità occultata. Diviene così, non solo luogo di residenza, ma simbolo del potere nascosto che governa i personaggi e le loro azioni.

In questa prospettiva, l’architettura del Bramford e il tessuto urbano circostante assumono una valenza metaforica centrale. I corridoi stretti, le porte segrete, gli ambienti confinati richiamano una geografia mentale fatta di claustrofobia e smarrimento. Il Bramford non è soltanto un edificio, ma un labirinto simbolico: una gabbia mentale dove Rosemary si perde, dove la realtà si piega alle regole di un potere occulto che controlla la vita e la morte. La città si fa quindi specchio di una società che, pur apparendo moderna e progressista, cela al suo interno dinamiche ancestrali di dominio e violenza.

La rappresentazione di New York come macchina anonima e alienante si estende oltre i confini del Bramford. Le strade sono vuote o piene di figure indistinte, le interazioni sociali sono superficiali, minacciose o inesistenti. Rosemary cammina spesso da sola, immersa in spazi ampi ma desolati, dove la presenza umana si fa sentire solo come un’eco lontana. La mancanza di comunità e di legami autentici si traduce in una condizione di isolamento che rende la protagonista una figura estranea nella propria città.

Il film sottolinea con forza la dicotomia tra spazio pubblico e spazio privato. La metropoli, che dovrebbe essere luogo di libertà e di scambio, si trasforma in un dispositivo di controllo sociale e psicologico. Le vie, i quartieri, i palazzi diventano una rete di sorveglianza invisibile, un sistema che limita e condiziona l’autonomia individuale. Rosemary, pur muovendosi all’interno di questo contesto, resta prigioniera di dinamiche che non può controllare. La città diventa così un teatro della dominazione sistemica, dove ogni passo e ogni scelta sono già inscritti in una trama più grande e oscura.

Il contrasto tra modernità e tradizione emerge inoltre attraverso la dialettica tra il Bramford e la città. Il palazzo, con la sua storia e le sue simbologie, rappresenta la persistenza di forze ancestrali e misteriose che sopravvivono al cuore della metropoli, quasi a voler ricordare che sotto la superficie lucida e razionale del progresso si nascondono poteri oscuri e antichi. Questo tema richiama e rielabora l’idea nietzschiana della “morte di Dio” e del vuoto lasciato dalla scomparsa dei valori tradizionali, che viene colmato da nuove forme di dominio, più sottili e pervasive.

Inoltre, la New York di Polanski riflette le tensioni socio-culturali del suo tempo: gli anni ’60 e ’70 sono un periodo di trasformazioni radicali, di rivolte sociali, di lotte per i diritti civili, per la parità di genere, contro la guerra e l’oppressione. La città, pur essendo luogo di speranza e di cambiamento, si mostra nel film come uno spazio freddo e ostile, in cui il potere si riproduce sotto nuove forme e dove la libertà resta un ideale spesso irraggiungibile.

L’inserimento del potere occulto borghese e satanico nel contesto urbano serve dunque a Polanski per denunciare come le strutture di dominio non siano solo localizzabili in ambienti lontani o “altri”, ma risiedano proprio nel cuore pulsante della civiltà contemporanea. Il Bramford diventa il fulcro di una rete di poteri invisibili, un microcosmo che riflette e amplifica le dinamiche di controllo e manipolazione che agiscono nella società più ampia.

La città appare così duplice: è luogo di esilio per Rosemary, che si trova alienata e priva di appoggi, ma anche teatro del potere occulto che trama e domina. Questa ambiguità rende la metropoli un personaggio a sé stante, un’entità viva che plasma e condiziona le vicende umane, determinando sorti e destini. La sua presenza, mai mostrata in modo esplicito, è percepita come una forza invisibile e opprimente che avvolge ogni scena.

Nonostante la freddezza e l’ostilità, New York rappresenta anche lo spazio delle possibilità, il luogo in cui si consuma il viaggio iniziatico di Rosemary. Le sue strade diventano il percorso di una discesa negli inferi personali e metafisici, un cammino che la conduce alla verità più terribile, ma anche alla consapevolezza. La città, con tutte le sue contraddizioni, diventa così il palcoscenico dove si intrecciano modernità e ancestrale, razionalità e superstizione, vittima e carnefice.

In conclusione, New York in Rosemary’s Baby è più di uno sfondo: è una presenza inquietante, un simbolo complesso e stratificato di potere, alienazione, e trasformazione. Polanski la utilizza con maestria per costruire una narrazione in cui la dimensione urbana si fonde con quella simbolica, creando un universo che è insieme familiare e spaventoso, reale e metaforico. La città diventa così un luogo di esilio e dominazione, ma anche uno spazio in cui la lotta per la libertà e l’identità può, forse, ancora cominciare.

XXVII. La fine dell’innocenza e l’emergere della consapevolezza: il percorso di Rosemary come rito di passaggio

Rosemary’s Baby non è soltanto una storia di orrore e possessione; è un racconto profondo e stratificato sulla trasformazione di un individuo di fronte a un mondo che si rivela improvvisamente ostile, misterioso e inquietante. Il viaggio di Rosemary Woodhouse si configura come un rito di passaggio complesso e tormentato, una discesa attraverso le tappe della perdita dell’innocenza e l’acquisizione di una consapevolezza drammatica, che segna una cesura irreversibile con il suo passato e con ogni certezza acquisita.

All’inizio del film, Rosemary è rappresentata come una giovane donna ingenua, fiduciosa e piena di speranze per il futuro. Il suo rapporto col marito Guy, anche se già complesso, è impregnato di attese romantiche e di progetti condivisi. La gravidanza è sognata come un evento naturale, gioioso, quasi una realizzazione piena della femminilità e dell’amore coniugale. In questo primo stadio, Rosemary incarna l’innocenza non solo personale, ma anche simbolica: è la donna moderna, che crede nella stabilità della famiglia, nella buona fede delle persone che la circondano, e nella sicurezza offerta dalla società.

Tuttavia, questa innocenza inizia a sgretolarsi quasi impercettibilmente fin dalle prime avvisaglie di strani eventi e comportamenti ambigui attorno a lei. La scoperta della gravidanza si intreccia con sogni inquietanti, con la crescente freddezza del marito, con l’invadenza minacciosa dei vicini. Ogni elemento che dovrebbe portare gioia e sicurezza viene contaminato dal dubbio, dall’ambiguità, dalla paura latente. Rosemary comincia così un percorso di crescente allerta e sospetto, che è allo stesso tempo un progressivo risveglio della sua coscienza critica e una dolorosa presa di coscienza del suo isolamento.

Questa fase intermedia del rito di passaggio è caratterizzata da una serie di eventi e segnali simbolici che Polanski orchestra con grande maestria. I sogni di Rosemary, ad esempio, sono non solo momenti di suspense e horror, ma veri e propri messaggi archetipici che la spingono a interrogarsi su se stessa e sul mondo che la circonda. In queste visioni oniriche, l’innocenza viene violata, il corpo è teatro di forze oscure, e la relazione con il marito e i vicini assume toni di minaccia e tradimento. Il sogno si fa così strumento di conoscenza, ma anche di trauma, e prepara la protagonista al passaggio successivo.

La gravidanza stessa, da evento biologico naturale, si trasforma in una condizione liminale, sospesa tra vita e morte, natura e soprannaturale. Il corpo di Rosemary diventa un campo di battaglia, una soglia aperta tra mondi opposti e inconciliabili. La maternità, che in molte culture è celebrata come momento di piena realizzazione femminile, nel film assume una connotazione ambigua e problematica: è fonte di potere, ma anche di alienazione; è occasione di amore, ma anche di paura e di dominio. Polanski mostra con grande sensibilità come la gravidanza, in questo contesto, si carichi di significati che trascendono la dimensione personale e familiare, diventando simbolo di lotte più vaste e profonde.

Nel momento culminante della narrazione, Rosemary raggiunge la consapevolezza drammatica del patto oscuro che ha coinvolto il marito e la comunità che li circonda. La scoperta della verità è una cesura traumatica, che segna la fine definitiva dell’innocenza e l’ingresso in una nuova condizione esistenziale. Questa consapevolezza è però ambivalente: non è una liberazione, ma una condanna; non è un trionfo della ragione, ma un confronto con il male e l’orrore assoluto.

Il rito di passaggio compiuto da Rosemary non si conclude quindi con un ritorno alla normalità o con una rinascita positiva, ma con una trasformazione tragica, che lascia il personaggio in uno stato di tensione e ambiguità. La madre e il mostro, la vittima e la complice, convivono in un equilibrio precario che riflette le complessità e le contraddizioni della condizione umana.

Dal punto di vista simbolico e culturale, il percorso di Rosemary assume un significato ancora più ampio e profondo se letto nel contesto storico-sociale degli anni ’60 e ’70. Questo periodo, segnato da profonde crisi culturali, politiche e spirituali, vede una crescente disillusione verso le istituzioni tradizionali e una crisi di valori che investe la società occidentale nel suo complesso. Rosemary’s Baby si inserisce in questo clima come una potente metafora della perdita di sicurezza e della scoperta di un mondo dominato da forze oscure e opache, ma anche come una riflessione sul prezzo e sulle difficoltà della consapevolezza critica e della ribellione.

La trasformazione di Rosemary, dunque, può essere letta anche come una parabola della condizione femminile in un’epoca di cambiamento. La donna che si risveglia, che comincia a dubitare e a interrogare il proprio ruolo, deve affrontare non solo i limiti imposti dalla società patriarcale, ma anche le proprie paure più profonde. La maternità diventa così non solo un fatto biologico, ma un luogo di tensione simbolica, in cui si giocano poteri e identità, affetti e violenze.

In ultima analisi, il viaggio di Rosemary è una testimonianza della complessità e della tragicità dell’esperienza umana, un’esplorazione intensa e dolorosa del rapporto tra innocenza e conoscenza, tra fiducia e tradimento, tra vita e morte. Polanski non offre soluzioni né consolazioni, ma apre uno spazio di riflessione profonda sulla condizione dell’individuo nella modernità, e sulla difficoltà di mantenere la propria integrità di fronte a forze che sfuggono al controllo razionale.

Questa dimensione rende Rosemary’s Baby un’opera di grande rilevanza e attualità, capace di parlare a più livelli, di suscitare emozioni complesse e di stimolare una riflessione critica che va ben oltre il genere dell’horror. Il film si configura così come un racconto universale, che mette in scena la difficoltà e il coraggio necessari per attraversare il rito di passaggio verso una consapevolezza più profonda, per quanto dolorosa e destabilizzante possa essere.

XXVIII. Il silenzio e la voce negata: la marginalizzazione di Rosemary come denuncia sociale

In Rosemary’s Baby, uno degli elementi più pregnanti e allo stesso tempo sottili è la rappresentazione del silenzio imposto alla protagonista e della sua lotta per conquistare una voce in un ambiente che la esclude sistematicamente dalla comunicazione autentica. Questo silenzio non è solo un artificio narrativo utile a costruire suspense e tensione, ma si eleva a potente simbolo di marginalizzazione, repressione e controllo sociale, temi che riflettono tensioni culturali e politiche molto più ampie, soprattutto in relazione al ruolo della donna e degli individui vulnerabili all’interno della società moderna.

Sin dall’inizio, Rosemary Woodhouse si trova in una posizione precaria, esposta alle dinamiche di potere che la circondano. È una giovane moglie, inesperta e fiduciosa, che si affida alle persone che la circondano: il marito, i medici, i vicini di casa. Tuttavia, questa fiducia si rivela progressivamente fragile e ingannevole, perché quegli stessi interlocutori che dovrebbero tutelarla e ascoltarla diventano strumenti del suo isolamento. La sua soggettività è negata non solo dalla cospirazione occulta che trama attorno alla sua gravidanza, ma anche dalle interazioni quotidiane in cui la sua voce viene continuamente ignorata, minimizzata o ridicolizzata.

Polanski mette in scena questa negazione della voce con una straordinaria sensibilità, attraverso un uso sapiente del linguaggio cinematografico. Le inquadrature spesso stringono su Rosemary, ma allo stesso tempo sembrano soffocarla, confinandola in spazi angusti e privandola di un respiro, mentre gli altri personaggi parlano attorno a lei, senza mai davvero coinvolgerla. Questa scelta visiva trasmette al pubblico la sensazione di isolamento e impotenza, rendendo evidente che il silenzio imposto è un dispositivo di controllo tanto potente quanto invisibile.

Nel dialogo quotidiano, Rosemary viene esclusa dalle decisioni più importanti riguardanti la sua salute e la sua gravidanza. Quando cerca di esprimere i suoi dubbi o i suoi timori, viene spesso ignorata o derisa. Il marito Guy, in particolare, assume un ruolo ambivalente: da un lato sembra amorevole e protettivo, dall’altro si mostra complice e distante, incapace o riluttante a riconoscere la realtà che Rosemary percepisce. Anche i medici, invece di rassicurarla o indagare sulle sue preoccupazioni, confermano l’idea che lei stia vivendo un’esperienza normale, contribuendo così a invalidare la sua esperienza personale.

Questo processo di delegittimazione ha un risvolto sociale più ampio, che riflette le dinamiche reali di molte donne e individui marginalizzati, spesso relegati a un ruolo di silenzio e passività nelle strutture di potere patriarcali e burocratiche. Il silenzio diventa dunque una forma di violenza simbolica, che limita la capacità di agire e di autodeterminarsi, creando uno spazio di soggezione e vulnerabilità.

Nonostante questa oppressione, Rosemary non si arrende. Il film mostra la sua lotta per trovare forme alternative di espressione, che si manifestano attraverso i suoi sogni, i suoi pensieri scritti in un diario e i piccoli gesti di ribellione quotidiana. Questi momenti di autoaffermazione sono cruciali per comprendere la complessità del personaggio: Rosemary cerca disperatamente di mantenere la propria identità e di affermare una verità che la circonda da tutte le parti, pur essendo ostacolata.

Il film ci offre così una potente riflessione sul rapporto tra parola, potere e identità. La voce di Rosemary, continuamente negata, è un emblema della lotta per il riconoscimento e la libertà di espressione. La sua condizione richiama il concetto foucaultiano di “biopotere”, dove il controllo sociale si esercita non solo attraverso le istituzioni visibili, ma anche attraverso la gestione dei corpi, delle parole e dei silenzi.

L’opera si inserisce in questo modo in un dibattito più ampio sulla condizione femminile e sulle forme di esclusione che le donne hanno subito e continuano a subire, soprattutto nei ruoli legati alla maternità e alla salute riproduttiva. La gravidanza, anziché essere un’esperienza liberatoria e gioiosa, diventa nel film un campo di battaglia in cui il corpo della donna è oggetto di controllo e manipolazione da parte di una società che vuole mantenere il proprio ordine e le proprie gerarchie di potere.

Questa dinamica è rafforzata dalla rappresentazione della comunità di vicini come una setta chiusa e complice, che attraverso il silenzio e il segreto protegge i propri interessi a discapito di Rosemary. La loro complicità rappresenta la forma più subdola di violenza sociale, che non si manifesta con la forza brutale, ma con l’indifferenza, la menzogna e l’esclusione comunicativa.

Nel complesso, il film propone una denuncia implicita ma poderosa delle modalità con cui la società può ridurre al silenzio le voci scomode, specialmente quelle delle donne, e di come questo silenzio sia funzionale a mantenere equilibri di potere ingiusti e oppressivi. La marginalizzazione di Rosemary diventa così un simbolo universale delle lotte per la dignità, l’autonomia e la libertà di espressione.

In ultima analisi, Rosemary’s Baby ci offre una rappresentazione profonda e articolata di come il silenzio possa essere al tempo stesso uno strumento di sottomissione e un terreno di resistenza. La voce negata di Rosemary è un invito a riflettere sulla necessità di ascoltare le narrazioni marginalizzate e di riconoscere il valore della parola come atto di liberazione personale e collettiva.

XXIX. Il tempo narrativo e la costruzione della suspense: un andamento lento e inesorabile

Uno degli aspetti più distintivi e raffinati di Rosemary’s Baby risiede senza dubbio nella sua gestione del tempo narrativo, che Roman Polanski calibra con estrema precisione per costruire un’atmosfera di suspense persistente, intensa e penetrante, senza ricorrere a espedienti grossolani, effetti shock o accelerazioni narrative improvvise e spettacolari. Al contrario, il ritmo lento e inesorabile del film è lo strumento essenziale attraverso il quale lo spettatore viene immerso, quasi intrappolato, nella crescente angoscia che accompagna la vicenda di Rosemary Woodhouse, fino a condividerne la confusione, il terrore e l’impotenza.

Questo andamento narrativo meditativo, quasi ossessivo, si distacca nettamente dagli standard del cinema horror degli anni ’60 e ’70, caratterizzati spesso da dinamiche rapide e scoppiettanti. Polanski sceglie invece di soffermarsi sulle piccole cose, sui dettagli apparentemente innocui, sui momenti di ordinaria quotidianità che lentamente si caricano di ambiguità e minaccia. Ogni scena, ogni dialogo, ogni silenzio è calibrato per contribuire a costruire una tensione sotterranea, sottile ma costante, che non si risolve in un singolo evento traumatico, ma si allarga come un’onda silenziosa che pervade tutta la narrazione.

La lentezza del film diventa così un elemento psicologico e narrativo fondamentale, perché permette allo spettatore di entrare nello stato mentale della protagonista, fatto di sospetto crescente, ansia latente e smarrimento. Il tempo narrativo sembra quasi dilatarsi, restituendo la sensazione di un’attesa opprimente e di una condanna ineluttabile che si avvicina. Questa sensazione è amplificata dalla quotidianità dell’ambiente domestico, che contrasta con il tono di orrore sotteso, creando un effetto di straniamento e disagio molto efficace.

Un altro elemento centrale della costruzione del tempo nel film è la sua stretta connessione con la gravidanza di Rosemary. La gestazione non è semplicemente un evento biologico, ma una sorta di orologio narrativo che scandisce il susseguirsi degli eventi e delle trasformazioni psicologiche e fisiche della protagonista. Ogni trimestre, ogni visita medica, ogni cambiamento corporeo è caricato di aspettativa e di tensione, come un countdown inevitabile verso un epilogo sconvolgente. La gravidanza diventa così un dispositivo che struttura la narrazione e imprime un ritmo ciclico e progressivo, capace di sostenere la suspense e di aumentare la partecipazione emotiva dello spettatore.

Polanski gioca sapientemente anche con la fluidità temporale, mescolando la realtà con il sogno e l’incubo, il presente con i ricordi e le anticipazioni. I sogni di Rosemary, che si insinuano nel corso della narrazione, sono momenti in cui il tempo si distorce e le barriere tra realtà e immaginazione si dissolvono. Questo smarrimento temporale contribuisce a intensificare l’atmosfera onirica e perturbante del film, facendo sì che lo spettatore condivida la confusione e il senso di disorientamento della protagonista. Il tempo diventa dunque uno spazio fluttuante, in cui passato, presente e futuro si sovrappongono, rendendo incerto ogni punto di riferimento.

L’andamento lento e misurato del tempo narrativo serve anche a evidenziare il tema centrale della perdita di controllo. La percezione di un tempo che avanza inesorabile, indipendentemente dalla volontà di Rosemary, riflette la sensazione di prigionia e impotenza che la protagonista vive. Ogni momento che passa è un passo verso un destino che appare già scritto, un filo che la lega a forze occulte e potenti, contro cui non può nulla. Il tempo narrativo diventa così metafora del potere occulto e della sua capacità di dominare e piegare la volontà individuale.

Inoltre, il ritmo narrativo contribuisce a definire la profondità psicologica di Rosemary e il suo percorso di trasformazione. La lentezza con cui si sviluppano gli eventi permette allo spettatore di cogliere le sfumature delle emozioni della protagonista, i suoi dubbi, le sue paure e le sue speranze, in un crescendo che culmina in una crisi esistenziale profonda. Questa costruzione del tempo è fondamentale per creare empatia e coinvolgimento, rendendo il viaggio di Rosemary non solo una vicenda horror, ma una vera e propria esperienza umana e psicologica.

Dal punto di vista tecnico, Polanski utilizza il montaggio e la fotografia per sottolineare questa gestione del tempo. Le scene si dilatano o si comprimono, i tagli sono calibrati per mantenere la tensione e per immergere lo spettatore nella percezione temporale soggettiva della protagonista. La scelta di mantenere un ritmo narrativo uniforme e meditativo, evitando accelerazioni eccessive o scene di azione frenetica, rende il film un’opera di rara eleganza e profondità nel panorama del cinema horror.

Il tempo narrativo in Rosemary’s Baby non è dunque solo un elemento formale, ma si intreccia profondamente con i temi, i personaggi e l’atmosfera del film. La suspense nasce dall’attesa, dalla lenta rivelazione di una verità terribile che si fa strada con pazienza e determinazione. Il pubblico è così coinvolto in un processo di scoperta graduale, che rispecchia il percorso della protagonista e rende l’esperienza visiva e emotiva intensa e memorabile.

In conclusione, la costruzione temporale di Rosemary’s Baby è uno degli aspetti che ne garantiscono la longevità e la rilevanza. La suspense che deriva dal ritmo lento, inesorabile e meditativo non solo crea tensione, ma consente anche una riflessione profonda sulle dinamiche di potere, controllo e vulnerabilità che attraversano la narrazione. Polanski, con questa scelta stilistica, trasforma il film in un’esperienza immersiva e complessa, capace di parlare a più livelli e di lasciare un segno duraturo nell’immaginario collettivo.

XXX. La dimensione psicologica del terrore: paranoia, isolamento e la frattura della realtà

Rosemary’s Baby non si limita a offrire un’esperienza horror convenzionale; al contrario, Roman Polanski costruisce un percorso narrativo e visivo che esplora con straordinaria profondità le pieghe più oscure della mente umana, facendo emergere una dimensione psicologica del terrore tanto sottile quanto devastante. Il fulcro di questo terrore non è il sovrannaturale in sé, ma la lenta, inesorabile erosione della realtà e della percezione della protagonista, Rosemary Woodhouse, che si traduce in un’esperienza di paranoia, isolamento e progressiva perdita di controllo sulla propria esistenza.

La paranoia è il primo elemento che afferra lo spettatore e lo trascina nel vortice emotivo del film. Non si tratta di una paranoia esplosiva o caricaturale, bensì di una tensione crescente, quasi insidiosa, che si sviluppa con grande naturalezza lungo tutta la narrazione. Sin dalle prime avvisaglie, si percepisce che qualcosa non va: piccoli dettagli, sguardi sfuggenti, conversazioni ambigue, e quel senso indefinito di minaccia che aleggia nell’aria, mai completamente rivelato ma sempre presente. Polanski ha la maestria di farci sentire questa inquietudine come qualcosa di reale e tangibile, portandoci a sospettare insieme a Rosemary, fino a un punto in cui la distinzione tra paura giustificata e allucinazione diventa confusa e labile.

Questa paranoia è strettamente legata al tema dell’isolamento, che si manifesta in modo duplice: da un lato, Rosemary è fisicamente sola, isolata in un appartamento dove gli unici vicini, che dovrebbero essere fonte di supporto e conforto, si rivelano invece essere complici di un disegno oscuro; dall’altro lato, è mentalmente ed emotivamente isolata, incapace di trovare alleati o qualcuno disposto ad ascoltarla o a credere alle sue paure. Il marito, Guy, che dovrebbe essere la sua prima linea di difesa, diventa gradualmente una presenza ambigua, distante e complice involontario o consapevole della sua condizione.

L’isolamento diventa quindi non solo un fatto materiale ma un’esperienza psicologica totalizzante, che amplifica il senso di impotenza e disperazione di Rosemary. Le sue parole vengono ignorate o liquidate come espressioni di ansia o paranoia, contribuendo a erodere la sua fiducia in sé stessa e nel mondo esterno. In questo modo, il silenzio degli altri diventa una forma di violenza psicologica, una forma di controllo che rinchiude la protagonista in una prigione invisibile fatta di dubbio, paura e solitudine.

Parallelamente a questa dinamica, assistiamo a una progressiva frattura della realtà come la conosce Rosemary. L’ambiguità tra sogno e veglia, realtà e allucinazione, è resa con grande efficacia grazie a scelte registiche, narrative e di montaggio. I sogni premonitori, le visioni notturne e gli episodi apparentemente inspiegabili si intrecciano con la vita quotidiana, creando un flusso indistinto in cui il confine tra ciò che è reale e ciò che è immaginato si fa sempre più incerto. Questa dissoluzione dei punti di riferimento contribuisce a generare un senso di disorientamento non solo per la protagonista, ma anche per lo spettatore, che si trova sospeso in un limbo tra dubbio e certezza.

Il tempo stesso si fa fluido e ambiguo, spezzettato in momenti che si dilatano o si contraggono, simili a impulsi psicologici più che a eventi cronologici lineari. Questo smarrimento temporale riflette lo stato mentale di Rosemary e amplifica la tensione, lasciando aperta la domanda su cosa sia davvero accaduto e cosa invece sia frutto della sua mente turbata. Polanski con questo espediente non si limita a costruire suspense, ma ci porta a interrogare la natura stessa della realtà e della percezione.

Questa dimensione psicologica del terrore è strettamente intrecciata con i temi più ampi di potere e manipolazione, soprattutto in relazione alla condizione femminile. La fragilità psicologica di Rosemary e la sua vulnerabilità diventano metafora di una condizione più generale di oppressione e controllo sociale, in cui le donne spesso si trovano a dover lottare per mantenere la propria autonomia e integrità in contesti che vorrebbero reprimerle o sottometterle. La maternità, tradizionalmente vista come un’esperienza di realizzazione personale e di potere, è qui rappresentata come un campo di battaglia simbolico in cui il corpo e la mente della donna sono oggetto di dominio e sfruttamento.

In questo senso, Rosemary’s Baby si fa portavoce di una riflessione profonda e dolorosa sulle dinamiche di genere e sul modo in cui la società può contribuire a generare e alimentare ansia, paranoia e isolamento. La dimensione psicologica del terrore diventa quindi una lente attraverso cui osservare e comprendere meglio queste tematiche, rendendo il film un’opera che travalica i confini del genere horror per assumere valenze culturali e sociali rilevanti.

Dal punto di vista tecnico, la costruzione di questa dimensione è sostenuta da una regia attenta e precisa. L’uso di inquadrature strette, luci soffuse e colori freddi contribuisce a creare un’atmosfera claustrofobica e inquietante, mentre il montaggio alterna con sapienza momenti di calma apparente a sequenze di crescente tensione psicologica. La colonna sonora, minimalista e suggestiva, accompagna senza mai sovrastare la narrazione, lasciando spazio all’angoscia che cresce silenziosa ma inesorabile.

La recitazione di Mia Farrow è un altro elemento fondamentale: il suo volto espressivo e i suoi occhi spesso sgranati riescono a comunicare un senso profondo di vulnerabilità, ma anche di determinazione e forza interiore, rendendo credibile e coinvolgente il percorso psicologico di Rosemary. La sua interpretazione permette allo spettatore di empatizzare con la protagonista, di percepire la sua discesa nella paura e la sua lotta per mantenere la lucidità e la speranza.

Infine, la dimensione psicologica del terrore in Rosemary’s Baby si configura come una riflessione sulle fragilità umane e sulla complessità dell’esperienza soggettiva. Il film ci mostra come il terrore possa nascere non solo da minacce esterne, ma anche dalla frattura interna, dalla perdita di punti di riferimento, dalla solitudine e dal dubbio che possono consumare una persona dall’interno. È una rappresentazione potente e universale, che continua a parlare a spettatori di epoche diverse, mantenendo intatta la sua capacità di inquietare e di far riflettere.

In conclusione, l’abilità di Polanski nel costruire una dimensione psicologica del terrore così profonda e articolata è uno dei motivi principali per cui Rosemary’s Baby rimane un capolavoro senza tempo. La combinazione di paranoia, isolamento e dissoluzione della realtà crea un’esperienza cinematografica che va ben oltre la superficie dell’horror, toccando corde emotive e intellettuali che rendono il film un punto di riferimento imprescindibile per la comprensione del terrore psicologico e delle sue implicazioni sociali e culturali.

XXXI. La dimensione dello spazio: architettura, ambientazione e il palazzo come luogo di potere

Nell’opera di Roman Polanski, Rosemary’s Baby, la dimensione spaziale gioca un ruolo centrale e complesso, tanto da trasformare l’edificio in cui si svolge la vicenda in un vero e proprio protagonista simbolico, carico di significati stratificati che vanno ben oltre il semplice sfondo narrativo. Il palazzo, un tipico stabile borghese nel cuore di New York, diventa il teatro primario in cui si intrecciano non solo le vicende della giovane coppia, Rosemary e Guy Woodhouse, ma anche le tensioni e i conflitti simbolici che attraversano l’intero film: potere occulto, controllo sociale, manipolazione psicologica e perdita di autonomia.

L’ambientazione in un edificio apparentemente normale, parte della vita quotidiana metropolitana, si configura come un punto di partenza fondamentale per la strategia di Polanski. L’architettura del palazzo è imponente ma allo stesso tempo carica di un’aura di mistero, in cui l’ordinario e il familiare si mescolano con l’oscuro e il sinistro. Questo duplice aspetto crea un effetto di straniamento che permea tutto il film: lo spettatore si trova davanti a un ambiente che sembra rassicurante, un tipico esempio di borghesia urbana, eppure proprio in quel luogo si nascondono i segreti più inquietanti, forze oscure pronte a svelarsi lentamente.

Il palazzo assume così la funzione di un microcosmo che riflette la società borghese in senso più ampio. Le sue mura diventano metafora della superficialità e dell’ipocrisia di un mondo che si presenta come rispettabile e civettuolo ma che è in realtà corrotto e dominato da poteri occulti. Le finestre e le porte, elementi che idealmente dovrebbero rappresentare apertura e possibilità, si tramutano in confini angusti, barriere che rinchiudono Rosemary in un universo chiuso, governato da logiche che la escludono e la condannano.

L’architettura del palazzo è caratterizzata da una serie di elementi che Polanski utilizza con sapienza per evocare sensazioni di claustrofobia e controllo. I corridoi stretti, le scale ripide, le porte pesanti e i passaggi nascosti contribuiscono a creare un’atmosfera di oppressione e di sorveglianza. Ogni spazio sembra essere studiato per rinchiudere e monitorare i movimenti della protagonista, impedendole di sfuggire o di trovare protezione. L’edificio, insomma, non è solo una cornice, ma una vera e propria prigione fisica e simbolica.

Le stanze private e gli spazi comuni assumono significati diversi all’interno della narrazione. L’appartamento di Rosemary e Guy è inizialmente percepito come un luogo di intimità e di speranza, uno spazio in cui costruire una vita insieme. Tuttavia, man mano che la storia si dipana, questo ambiente si trasforma in un luogo di inquietudine e minaccia: le pareti sembrano restringersi, le luci si fanno più fredde, e ogni angolo nasconde potenziali insidie. L’appartamento diventa così la proiezione della crisi interiore di Rosemary, uno spazio in cui la sicurezza svanisce e si fa strada l’insicurezza.

Al contrario, gli spazi comuni del palazzo, come l’atrio, il giardino e i corridoi, sono frequentati dagli altri abitanti, la setta che trama contro Rosemary. Questi luoghi, che dovrebbero rappresentare condivisione e socialità, si rivelano invece teatri di complicità occulta, di rituali e incontri segreti. La loro frequenza e la loro natura contribuiscono a costruire un senso di intrusione e controllo che pervade tutta la narrazione. Questi spazi pubblici e privati si intrecciano in modo tale che non è possibile trovare una zona franca, una “zona di sicurezza” all’interno del palazzo.

Particolarmente significativo è il ruolo dei passaggi segreti e delle stanze nascoste che si aprono dietro le quinte dell’edificio. Questi spazi invisibili al primo sguardo rappresentano il cuore oscuro del potere occulto che domina la vicenda: luoghi in cui si consumano rituali satanici, in cui si pianificano manipolazioni e dove la verità si nasconde. Essi sono metafora della doppia faccia della realtà, delle verità celate dietro le apparenze borghesi e del potere esercitato in modo occulto e subdolo.

Polanski ci mostra il palazzo anche attraverso la percezione soggettiva di Rosemary, utilizzando angolazioni di macchina che distorcono le proporzioni, luci che sottolineano ombre e angoli nascosti, e composizioni che isolano la protagonista all’interno dello spazio. Questa rappresentazione soggettiva contribuisce a trasmettere allo spettatore il senso di alienazione, spaesamento e paura crescente che Rosemary prova, trasformando lo spazio in un riflesso del suo stato mentale.

Il tema della sorveglianza si intreccia strettamente con la dimensione spaziale. Gli abitanti del palazzo osservano Rosemary, spiandola, monitorando i suoi movimenti e controllando le sue parole. Il palazzo diventa così un luogo di costante controllo, dove ogni passo della protagonista è sorvegliato, ogni sua decisione è sottoposta a scrutinio e ogni suo tentativo di ribellione rischia di essere neutralizzato. Questa sorveglianza costante è un dispositivo narrativo e simbolico che sottolinea la perdita di autonomia e la subordinazione di Rosemary alle forze oscure che la circondano.

Non meno importante è la dimensione simbolica che il palazzo assume come metafora di una società borghese dominata da logiche di potere occulto. La struttura stessa, con le sue stanze chiuse, i suoi corridoi labirintici e i suoi passaggi segreti, riflette le complesse dinamiche di dominio e di esclusione che regolano le relazioni sociali. In questo senso, il palazzo diventa un simbolo della realtà sociale più ampia, un microcosmo in cui si manifestano e si perpetuano le disuguaglianze, i segreti e i meccanismi di oppressione.

Questa lettura del palazzo come luogo di potere e controllo si inserisce nella tradizione di numerosi film horror e thriller, ma in Rosemary’s Baby raggiunge una profondità e una complessità particolari grazie alla cura quasi maniacale con cui Polanski costruisce ogni dettaglio architettonico e scenografico. La tensione generata dallo spazio fisico si combina con quella psicologica, creando un effetto totale che avvolge lo spettatore in un’atmosfera di inquietudine costante.

Infine, va sottolineato come la dimensione spaziale nel film non sia solo una questione formale, ma abbia una forte valenza narrativa e simbolica. Lo spazio del palazzo diventa luogo di confronto tra il visibile e l’invisibile, tra la sicurezza apparente e la minaccia nascosta, tra la quotidianità e l’orrore. In questo modo, l’ambientazione contribuisce a rendere Rosemary’s Baby un’opera in cui ogni elemento, anche il più apparentemente banale, è carico di significati e funzionale alla costruzione di un’esperienza cinematografica totalizzante.

XXXII. La funzione del sonno e dei sogni: liminalità tra realtà e incubo

In Rosemary’s Baby, Roman Polanski attribuisce al sonno e ai sogni un ruolo di primaria importanza, non soltanto come elementi narrativi o stilistici, ma come veri e propri strumenti simbolici e psicologici che scandiscono l’intero svolgimento della vicenda, offrendo una chiave per interpretare la complessità emotiva e metafisica del film. Questi momenti liminali, sospesi tra realtà e allucinazione, si configurano come spazi privilegiati in cui l’inconscio di Rosemary emerge, svelando paure ancestrali e verità nascoste che la protagonista non può più ignorare.

Già nelle prime sequenze, i sogni di Rosemary si presentano come esperienze oniriche cariche di tensione e ambiguità, dove il confine tra reale e immaginario si dissolve. I sogni sono caratterizzati da immagini fortemente simboliche e da atmosfere inquietanti: Rosemary si vede posseduta da un’entità bestiale in mezzo a un cerimoniale oscuro e sacrilego, circondata da volti conosciuti ma al contempo distorti e minacciosi. Questa rappresentazione del sogno è ricca di riferimenti all’iconografia del rito satanico, ma anche a paure più profonde e universali legate al corpo femminile, alla maternità e al potere sovrannaturale. Tali visioni notturne agiscono da premonizioni, suggerendo che qualcosa di oscuro e irreversibile sta per compiersi nella vita della protagonista.

Il sonno, per sua natura uno stato di abbandono e vulnerabilità, è utilizzato da Polanski come dispositivo per enfatizzare la perdita di controllo di Rosemary. Non è più un momento di quiete o di ristoro, bensì una condizione in cui la protagonista diventa particolarmente esposta a forze misteriose e malevoli. La regressione allo stato di dormiveglia, in cui la razionalità si affievolisce e le difese mentali si abbassano, viene sfruttata dalla narrazione per mostrare la capacità del male di insinuarsi e agire proprio negli spazi più intimi e apparentemente protetti dell’individuo.

Il contrasto tra la coscienza e l’incoscienza diventa dunque terreno di conflitto centrale. Mentre durante la veglia Rosemary cerca di comprendere e di reagire agli eventi che la circondano, durante il sonno si apre un varco che permette alle forze occulte di imporsi, rendendo evidente la sua fragilità. Il sonno diventa così metafora di un cedimento interiore, ma anche di un varco dimensionale che permette all’orrore di infiltrarsi nella realtà quotidiana.

La dimensione onirica assume un valore anche antropologico e simbolico. I sogni di Rosemary possono essere interpretati come l’emergere di un inconscio collettivo, in cui si riflettono miti, archetipi e paure profonde della cultura occidentale, in particolare quelle legate alla figura della donna, alla maternità, al corpo come luogo di potere e vulnerabilità. Le immagini di possessione, di sacrificio e di trasformazione che popolano i sogni sono legate a un immaginario ancestrale, che mette in scena il conflitto tra natura e cultura, tra sacro e profano, tra vita e morte.

Inoltre, i sogni fungono da spazio liminale, un luogo di transizione in cui il passato, il presente e il futuro si sovrappongono, in cui la realtà si contamina di elementi fantastici e simbolici. La loro natura ambivalente permette a Polanski di esplorare la complessità emotiva di Rosemary, che si trova a dover fare i conti con la paura, il desiderio, il dubbio e la rabbia, ma anche con la forza della maternità che lentamente si impone come centrale nel suo destino.

Dal punto di vista formale, Polanski costruisce questi momenti onirici con un linguaggio visivo e sonoro molto efficace. L’illuminazione si fa più fredda e sfumata, le inquadrature si inclinano e si allontanano, le immagini si sovrappongono e si sfumano in dissolvenze che suggeriscono la precarietà del confine tra sogno e realtà. La colonna sonora contribuisce a creare un’atmosfera di inquietudine sottile, fatta di suoni ovattati, sussurri e silenzi carichi di tensione. Questi elementi tecnici amplificano il senso di spaesamento e di disorientamento dello spettatore, che viene trascinato nel flusso emotivo e psicologico della protagonista.

Un aspetto particolarmente rilevante è il legame tra i sogni e la gravidanza di Rosemary. I sogni agiscono come anticipazioni del futuro che si sta formando dentro di lei, anticipando le trasformazioni fisiche e psicologiche, ma anche il potenziale orrore che questa nuova vita porta con sé. Il bambino non è solo un essere in formazione, ma una presenza ambigua, portatrice di un destino oscuro che si manifesta fin dall’inizio attraverso le visioni notturne. La maternità diventa così un’esperienza ambivalente, in cui si intrecciano amore, paura, sacrificio e minaccia.

Questa ambivalenza è centrale anche nel rapporto tra Rosemary e il figlio che porta in grembo: il bambino è sia frutto di una violenza sovrannaturale, sia simbolo della vita e della continuità, ma al tempo stesso incarna una minaccia esistenziale per la madre e, metaforicamente, per l’umanità. I sogni sono il luogo in cui questa dualità si manifesta con tutta la sua forza drammatica, ponendo la protagonista di fronte a un futuro incerto e inquietante.

Infine, la funzione del sonno e dei sogni in Rosemary’s Baby va letta anche come riflessione più ampia sulla natura della percezione e della conoscenza. Polanski ci invita a interrogare i limiti della nostra capacità di distinguere tra ciò che è reale e ciò che è illusorio, tra ciò che è conscio e ciò che è nascosto nelle profondità della mente. I sogni sono finestre aperte su questi abissi, che rivelano le tensioni più profonde dell’esistenza umana, le paure ancestrali e i conflitti interiori che nessuna veglia può cancellare.

In questo senso, la dimensione onirica assume una valenza filosofica e metaforica che trascende il genere horror per diventare una meditazione sul mistero della mente e sulla fragilità della realtà umana. Il sonno e i sogni diventano così il simbolo di una condizione universale di precarietà, in cui il confine tra il sé e l’altro, tra la luce e l’ombra, è sempre sospeso e incerto.

In conclusione, il ruolo del sonno e dei sogni in Rosemary’s Baby è fondamentale per comprendere la ricchezza e la complessità del film. Essi non sono semplici momenti di suspense o elementi di atmosfera, ma diventano chiavi interpretative che aprono le porte a una lettura profonda, psicologica, simbolica e filosofica dell’opera. Attraverso questi momenti liminali, Polanski ci conduce in un viaggio dentro la mente e dentro il cuore di Rosemary, offrendoci una delle più potenti e disturbanti esplorazioni del terrore interiore mai realizzate nel cinema contemporaneo.

XXXIII. La colonna sonora come dispositivo narrativo e psicologico

In Rosemary’s Baby, la colonna sonora si eleva ben oltre il ruolo di semplice accompagnamento musicale, configurandosi come un vero e proprio dispositivo narrativo e psicologico, capace di espandere, approfondire e complessificare la narrazione visiva. La collaborazione tra Roman Polanski e il compositore Krzysztof Komeda ha dato vita a un paesaggio sonoro estremamente raffinato e stratificato, che permea l’intero film di un’atmosfera unica e inquietante, capace di penetrare nell’intimo dello spettatore, coinvolgendolo emotivamente e intellettualmente.

La musica di Komeda si caratterizza per un uso sapiente della ripetizione, della modulazione di temi melodici e dell’adozione di dissonanze sottili, creando un tessuto sonoro che si intreccia con le immagini in maniera non invasiva ma potentemente evocativa. I motivi musicali, spesso costruiti su brevi frasi melodiche ricorrenti, diventano degli ossessivi leitmotiv che sottolineano la condizione di costrizione e di inevitabilità che grava su Rosemary. L’idea del destino ineluttabile, della spirale discendente verso l’orrore e la perdita di sé, è così resa attraverso una musica che, pur apparentemente semplice, racchiude una complessità emotiva e simbolica profonda.

Un aspetto cruciale della colonna sonora è il modo in cui essa si combina con il silenzio e con i rumori ambientali, andando a creare un paesaggio sonoro immersivo che avvolge completamente lo spettatore. In Rosemary’s Baby, il silenzio non è mai una semplice assenza di suono: diventa uno spazio denso di tensione potenziale, in cui ogni piccolo rumore acquisisce una valenza di minaccia o di segreto svelato. I passi incerti, i bisbigli, il ticchettio dell’orologio, il brusio lontano della città, assumono una qualità quasi ipnotica, amplificando il senso di claustrofobia e di sorveglianza costante che pervade l’intero film. Questo modo di utilizzare il silenzio e il rumore come strumenti narrativi rafforza il senso di isolamento e di vulnerabilità di Rosemary, rendendo la colonna sonora un elemento fondamentale per costruire l’atmosfera angosciante.

In particolare, la colonna sonora accompagna con maestria i sogni e le visioni che Rosemary sperimenta lungo la narrazione, contribuendo a trasportare lo spettatore in uno spazio liminale, sospeso tra realtà e incubo. In questi momenti, la musica si fa più rarefatta, eterea, talvolta inquietante nella sua leggerezza, e utilizza effetti sonori che rimandano a dimensioni sovrannaturali o psichedeliche. Le melodie perdono la loro linearità e si frammentano, seguendo il flusso discontinuo dell’esperienza onirica e amplificando l’effetto di disorientamento e spaesamento. La musica diventa così una sorta di guida sonora attraverso il mondo oscuro e enigmatico della mente di Rosemary, ponendo lo spettatore nella posizione di testimone diretto del suo incubo.

Il carattere simbolico della colonna sonora emerge chiaramente anche nella sua capacità di riflettere la dialettica tematica che attraversa il film. Le melodie oscillano tra toni dolci, quasi rassicuranti, e dissonanze minacciose e perturbanti, evocando la tensione costante tra il bene e il male, la luce e l’ombra, la realtà e la finzione. Questo gioco di contrasti musicali rende palpabile la lotta interiore della protagonista, che si muove in un universo dove nulla è come appare e in cui le certezze più radicate vengono progressivamente scardinate.

Un altro elemento rilevante è la funzione della musica nel definire e caratterizzare i personaggi. La colonna sonora si fa spesso portavoce dello stato emotivo di Rosemary, accompagnandola nei momenti di paura, incertezza e rassegnazione. Inoltre, i suoni ambientali e musicali che circondano gli altri abitanti del palazzo, in particolare la setta satanica, contribuiscono a delinearne la presenza opprimente e inquietante, rendendo percepibile la loro influenza pervasiva e il loro controllo occulto.

In questo modo, la musica non è mai decorativa o secondaria, ma un elemento attivo e partecipe del racconto, che lavora in sinergia con la regia, la scenografia e la recitazione per costruire un’esperienza cinematografica totalizzante. Essa amplifica le emozioni e le suggestioni del film, rendendo più profondo il coinvolgimento dello spettatore e rafforzando la dimensione simbolica e psicologica della narrazione.

Va sottolineato come la scelta di Komeda come compositore sia stata particolarmente felice. Komeda, noto per il suo background nel jazz e per le sue capacità di creare atmosfere rarefatte e evocative, ha saputo adattare il proprio stile a un linguaggio cinematografico che richiedeva tensione e mistero senza cadere nel cliché dell’horror convenzionale. Il risultato è una colonna sonora che, pur essendo caratterizzata da una certa sobrietà, riesce a evocare una molteplicità di stati d’animo e a tessere un dialogo costante con le immagini.

Infine, la colonna sonora di Rosemary’s Baby assume un’importanza che va oltre il contesto specifico del film, diventando un modello per la musica nel cinema horror e thriller. Essa dimostra come la musica possa essere utilizzata non solo per spaventare o sorprendere, ma per costruire atmosfere complesse, per dare profondità psicologica ai personaggi e per articolare temi filosofici e simbolici in modo sottile e raffinato.

In conclusione, la colonna sonora di Rosemary’s Baby è un elemento imprescindibile che contribuisce in maniera decisiva alla riuscita del film. Attraverso un uso sofisticato della melodia, del ritmo, del silenzio e dei suoni ambientali, essa crea un’esperienza sensoriale e emotiva intensa, capace di trascinare lo spettatore in un viaggio nel terrore interiore e nella complessità della psiche umana. La musica diventa così parte integrante del racconto, amplificando il significato profondo e la potenza evocativa dell’opera di Polanski.

XXXIV. La città di New York come spazio simbolico e reale: claustrofobia, anonimato e decadenza

Nel contesto di Rosemary’s Baby, la città di New York non si configura semplicemente come un luogo geografico o uno scenario urbano, ma assume un ruolo pregnante e complesso, diventando essa stessa un personaggio, un microcosmo simbolico in cui si riflettono e si amplificano le dinamiche tematiche del film. Roman Polanski, con una scelta stilistica e narrativa accurata, trasforma la metropoli in un ambiente denso di ambiguità, contraddizioni e tensioni, rendendo New York un simbolo potente della condizione umana nell’epoca moderna, in cui l’individuo si trova schiacciato tra anonimato, isolamento e minacce invisibili.

La rappresentazione della città è anzitutto quella di uno spazio densamente popolato ma al tempo stesso alienante e oppressivo. Il quartiere in cui Rosemary e Guy si trasferiscono è caratterizzato da edifici storici, palazzi antichi, interni angusti e corridoi bui che suggeriscono un senso di claustrofobia spaziale e psicologica. Questa dimensione labirintica e soffocante diventa la metafora di una realtà in cui la libertà individuale è ridotta, e in cui il protagonista femminile si trova prigioniera non solo del proprio corpo e destino, ma anche di un ambiente sociale e fisico che la circonda e la condiziona.

Polanski utilizza con maestria la geografia urbana per costruire un’atmosfera in cui ogni angolo, ogni stanza, ogni scala è carica di significato. I vicoli stretti, i cortili interni e i passaggi nascosti diventano luoghi simbolici di sorveglianza, controllo e segretezza, in cui il confine tra il privato e il pubblico è sfumato e permeabile. La città si fa così spazio di mistero e di pericolo, dove la protagonista non può mai sentirsi veramente al sicuro, neppure nella propria casa.

Questo senso di oppressione è amplificato dall’anonimato della vita metropolitana. Rosemary si trova a vivere in mezzo a una folla di persone, vicini di casa, membri della setta satanica, ma il loro volto resta spesso indistinto, le loro intenzioni oscure e le loro azioni ambigue. L’anonimato della città genera un isolamento paradossale: circondata da molti, Rosemary è in realtà sola e incapace di stabilire legami autentici di fiducia o solidarietà. La metropoli diventa così simbolo di una società che, pur numerosa e variegata, disintegra le relazioni umane in favore di un’estraneità di fondo e di una diffidenza latente.

Un ulteriore livello di significato della città riguarda la sua decadenza morale e sociale, che emerge attraverso la rappresentazione di una borghesia apparente e rispettabile, ma in realtà corrotta e perversa. I palazzi eleganti e gli interni raffinati nascondono un mondo di manipolazione, inganno e violenza occultata. La metropoli è dunque teatro di un conflitto tra apparenza e realtà, in cui ciò che si mostra in superficie è solo una maschera per nascondere la vera natura delle cose. La città di New York diventa così un simbolo della modernità malata, di una civiltà che ha perso i suoi punti di riferimento etici e spirituali e che si è lasciata corrompere da poteri occulti e interessi egoistici.

La fotografia di Polanski contribuisce in modo decisivo a costruire questa immagine della città come luogo di decadenza e ambiguità. La luce fredda e filtrata, le ombre lunghe e sfumate, le inquadrature che spesso isolano i personaggi in spazi angusti e claustrofobici, creano un’atmosfera di tensione e di sospetto continuo. L’architettura stessa diventa protagonista, con i suoi corridoi, le scale, le porte che si aprono su spazi nascosti, tutti elementi che suggeriscono la presenza di una realtà segreta e minacciosa.

Polanski gioca inoltre sul contrasto tra modernità e tradizione, tra vita pubblica e vita privata, tra la facciata sociale e la realtà interiore dei personaggi. La città rappresenta la dimensione pubblica, impersonale e spesso ostile, mentre la casa di Rosemary dovrebbe essere il luogo della protezione e della maternità. Tuttavia, questa contrapposizione si rovescia, poiché la casa stessa diventa un luogo di prigionia e di violenza, un microcosmo in cui si consuma la tragedia della protagonista. La città e la casa si intrecciano in una dialettica ambivalente, dove il confine tra interno ed esterno, tra sicurezza e pericolo, è continuamente messo in discussione.

Un altro tema fondamentale legato alla città è la tensione tra il corpo femminile e lo spazio urbano. Rosemary, nel suo processo di gravidanza e trasformazione, si trova a vivere una dimensione intima, naturale e sacra, che si scontra con la freddezza e l’impersonalità della metropoli. Questa opposizione accentua il senso di alienazione della protagonista, evidenziando la difficoltà di trovare uno spazio autentico e protetto in una realtà dominata dalla fredda razionalità e dal controllo sociale.

La città di New York, in Rosemary’s Baby, diventa dunque un organismo vivo e pulsante, un’entità che influenza e modella le esperienze dei personaggi, rendendo palpabile la presenza di forze invisibili e poteri nascosti che agiscono dietro le quinte. Le sue strade, i suoi rumori, le sue architetture sono elementi attivi che contribuiscono a costruire il clima di suspense e di inquietudine che permea il film, facendone un luogo simbolico di decadenza, solitudine e controllo.

In definitiva, la rappresentazione di New York in Rosemary’s Baby si presta a una lettura complessa e stratificata, in cui la città è al contempo spazio reale e simbolo di una condizione esistenziale. È il luogo in cui il potere si manifesta in forme sottili e pervasive, in cui l’individuo si trova costretto in un ruolo di vittima, e in cui la decadenza morale e spirituale della modernità si riflette in modo nitido e inquietante. Polanski, con grande maestria, ci offre una visione della città che è tanto realistica quanto metaforica, capace di evocare suggestioni profonde e di arricchire la dimensione tematica e simbolica del film, rendendo New York un elemento imprescindibile per la comprensione del significato profondo di Rosemary’s Baby.

XXXV. Il tema dell’infanzia e l’anticristo come “figlio del futuro”

L’infanzia è, in Rosemary’s Baby, una delle più disturbanti figure simboliche: non perché violata o minacciata, ma perché pervertita alla radice, trasformata da emblema di purezza e rigenerazione in incarnazione del male, in una nuova apocalisse sotto mentite spoglie. Il figlio che Rosemary porta in grembo non è semplicemente “il male” in senso metafisico o teologico: è una nuova figura del futuro. È l’anticristo non come opposto di Cristo, ma come suo doppio, suo specchio parodico. In questa prospettiva, l’infanzia smette di essere uno spazio ontologico di innocenza e si fa il teatro di una lotta cosmica tra ciò che resta della sacralità e ciò che avanza dal buio del mondo secolarizzato.

La nascita, archetipo universale di rinnovamento, è completamente rovesciata: qui non c’è gioia, né annuncio, né redenzione. C’è piuttosto un’ombra che si allunga sull’avvenire, un inquietante presagio di ciò che il bambino diventerà, di ciò che il mondo è già diventato per averne permesso la venuta. Questo bambino, figlio di Satana e di una donna ignara, è generato nel cuore della civiltà borghese, nella sua intimità più profonda: il letto coniugale. Polanski non lo fa nascere tra fiamme sulfuree o in un deserto simbolico, ma lo insinua nel quotidiano, nel familiare, nel domestico. Ed è proprio questa normalità perversa a rendere il tutto insopportabile, straniante, così profondamente disturbante.

In questa cornice, la maternità di Rosemary si fa paradigma di una contraddizione insanabile. All’inizio, è desiderio: il desiderio borghese, intimo, quasi stereotipico, di un figlio. Poi si fa imposizione, tradimento, invasione del corpo. E infine diventa resistenza, follia, e — nel gesto finale di allattare il neonato — forse, in modo più sottile e ambiguo, complicità. Ma questa complicità non è scelta, né abiezione. È un atto enigmatico, irriducibile al linguaggio del bene o del male. È il mistero materno che si ribella alla lettura teologica e morale del mondo. La madre riconosce il figlio anche se sa da dove viene, e non può che riconoscerlo. Ecco il nodo cruciale: Rosemary allatta l’anticristo non perché lo vuole, ma perché non può non farlo.

È in questo gesto che l’infanzia viene mostrata nella sua forma più ambigua: non come origine, ma come destinazione. Il bambino di Rosemary’s Baby è il futuro già scritto — o meglio, il futuro prodotto da un presente in cui il sacro è stato depotenziato, ridotto a rituale vuoto, e in cui l’etica è ormai subordinata all’efficienza e alla carriera. L’infanzia non è più la promessa di ciò che verrà, ma l’effetto collaterale di ciò che già è: un mondo che genera figli non per amore o continuità, ma come parte di un progetto di dominio occulto, di riprogrammazione dell’umano.

Il bambino è quindi una figura potentemente politica. È ciò che la borghesia ha prodotto come erede del proprio potere. La setta che circonda Rosemary e Guy non è fatta di stregoni barocchi o monaci neri, ma di persone comuni: borghesi anziani, eccentrici, sorridenti, vestiti con decoro e animati da spirito di comunità. È questa gente a voler vedere nascere il nuovo re, l’anticristo. È questa gente che applaude in silenzio, che organizza, che accudisce. Il male, qui, non è più legato alla trasgressione: è istituzione, è cura, è assistenza. È il volto affabile dell’inferno. In questo contesto, l’infanzia non può che essere un prolungamento del potere adulto. E il bambino stesso è prodotto della violenza invisibile di quella classe che ha già sostituito Dio con il consumo, la fede con la pubblicità, il battesimo con la firma del contratto.

Ciò che agghiaccia nel finale del film — e in tutta la parabola del figlio — è che l’infanzia è divenuta, paradossalmente, una forma di vecchiaia del mondo. L’anticristo non è una novità assoluta, ma la somma, l’incarnazione dell’entropia spirituale del Novecento: la guerra, la psicosi, il controllo sociale, la dissoluzione della verità. Egli non viene a distruggere: nasce già dopo la distruzione. Nasce nella rassegnazione, nell’adattamento al mondo come macchina impersonale. Nasce in un tempo in cui l’unico miracolo rimasto è quello dell’allattamento: e anche quello, ormai, avviene dentro una stanza da cui Dio è stato espulso.

La funzione narrativa del bambino è quindi ambivalente. Da un lato, egli è il catalizzatore di tutta la tensione del film: atteso, temuto, nascosto, infine pianto. Dall’altro, egli è ciò che il film si rifiuta di mostrare. Polanski non ci permette mai di vederlo: vediamo solo le reazioni degli altri, il loro entusiasmo, la loro venerazione. Il neonato è così trasformato in pura forza simbolica, in oggetto del desiderio e del terrore, in nodo viscerale su cui si concentrano tutte le ambiguità dell’opera. Non è un personaggio, non ha voce né volto, ma la sua esistenza modifica radicalmente la percezione del reale. Egli è il non-detto che struttura tutto il film: il centro vuoto intorno a cui ruotano le immagini e i suoni.

Infine, Rosemary’s Baby ci consegna un pensiero radicale sull’infanzia come spazio di proiezione della nostra catastrofe. In un mondo che ha smesso di credere nel bene come orizzonte possibile, ogni figlio non può che essere potenzialmente una minaccia. L’infanzia perde la sua aura sacra e diventa, piuttosto, una variabile instabile, un’incognita inquietante. Rosemary non ha generato un demone: ha semplicemente generato. È il mondo attorno a lei che ha trasformato quel gesto naturale in un’apertura sull’abisso.

In questo senso, Rosemary’s Baby anticipa molte delle inquietudini contemporanee: il terrore dell’eredità genetica, la maternità gestita dall’esterno, la medicalizzazione del corpo femminile, l’isolamento della madre e il sospetto verso il futuro. Il film non ci mostra un bambino mostruoso: ci mostra un mondo che ha paura dei bambini, perché sa che essi porteranno avanti un sistema già contaminato. L’anticristo non è altro che il figlio del nostro tempo, il prodotto coerente e spaventoso del presente che abbiamo costruito.

XXXVI. La reinvenzione del mito di Faust: Polanski tra tradizione, parodia e tragedia moderna

La leggenda di Faust, nella sua genealogia più nota — da Marlowe a Goethe, da Thomas Mann a Bulgakov — racconta la storia di un individuo che, mosso da sete di conoscenza, potere o bellezza, stipula un patto con il diavolo e in cambio cede la propria anima. Ma Rosemary’s Baby di Roman Polanski non si limita a evocare questa tradizione: la seziona, la svuota, la ricompone in forme nuove, sorprendenti e profondamente perturbanti. L’eco faustiana non è semplicemente un riferimento colto, ma una vera e propria chiave di lettura dell’intera architettura simbolica del film. Tuttavia, in questa versione, non c’è alcun laboratorio alchemico, nessuna formula arcana, nessun Mefistofele elegantissimo: il “patto” avviene nella quiete di un salotto borghese, siglato con mezzi modesti, dentro un appartamento dove si cena tra vicini di casa e si parla a bassa voce.

Guy Woodhouse è il Faust designato, eppure è una figura in totale antitesi rispetto all’archetipo tragico. Non è un uomo posseduto da hybris o da visioni del cosmo; è un attore mediamente talentuoso, frustrato e ambizioso, la cui misura del successo è una pubblicità in televisione o un ruolo a Broadway. L’ambizione di Guy è piccola, lineare, conforme allo spirito del tempo. Ed è proprio questa medietà a rendere la sua caduta più agghiacciante. A differenza del Faust di Goethe, Guy non cerca il senso della vita o i segreti dell’universo: cerca il riconoscimento, il posto giusto, le recensioni favorevoli. In cambio, però, sacrifica non la propria anima, ma il corpo della donna che ama. Un gesto che sancisce non tanto la sua dannazione quanto la sua evaporazione morale.

La grande intuizione di Polanski sta nel rimuovere ogni elemento eroico dal mito faustiano, sostituendolo con una claustrofobica commedia dell’orrore. Non c’è pathos, né sfida metafisica: c’è solo una rassegnazione lucida, una negoziazione torbida tra Guy e l’ambiente che lo circonda. Il male si insinua senza teatralità: passa per i favori, i suggerimenti, le conoscenze giuste. Il patto, in fondo, è già nell’aria, è una possibilità sociale come un’altra. Mefistofele non appare: è diffuso, è Minnie Castevet, è il dottor Sapirstein, è il sistema di relazioni borghesi che promette successo in cambio di silenzio. La leggenda si è integrata nella normalità.

Anche la dinamica del patto subisce una mutazione radicale. Nell’archetipo classico, l’accordo è tra un soggetto e una forza sovrumana, ed è sempre rischioso, solenne, gravido di conseguenze. In Rosemary’s Baby, l’accordo è sfocato, quasi implicito. Guy non è nemmeno pienamente consapevole della portata dell’atto che compie. È sedotto, lusingato, rassicurato. Non viene mai messo di fronte a una scelta netta, e proprio in questo si consuma la modernità del suo gesto: la mostruosità non nasce da una decisione estrema, ma dalla banalità della complicità. Guy non osa, non brucia, non lotta: aderisce. E proprio in questa adesione priva di dramma si consuma la perversione del mito.

In questa riscrittura, Faust si spezza: non è più un solo personaggio, ma una funzione narrativa distribuita. Rosemary stessa, suo malgrado, diventa un’altra faccia di Faust. È lei che attraversa le fasi dell’innocenza, della scoperta, della sofferenza, della conoscenza — e infine della rassegnazione. Ma in una dinamica del tutto rovesciata: Rosemary non ha scelto, non ha firmato nulla, eppure si ritrova a dover portare a compimento l’esito del patto altrui. Se Guy è il Faust che vende, Rosemary è il Faust che paga. E questo sdoppiamento introduce una dinamica drammatica nuova: non più un uomo solo di fronte all’assoluto, ma una donna sola in mezzo a un’intera comunità che cospira contro di lei.

In questo senso, la reinvenzione del mito assume tratti profondamente politici. L’idea stessa di “patto col diavolo” diventa metafora della logica neoliberale: sacrificare l’umano per ottenere un vantaggio immediato, cedere l’intimità in cambio di visibilità, barattare il proprio prossimo per scalare una gerarchia. Non serve più un demonio dalle ali nere: basta la fame di successo. Il diavolo è diventato sistema, cultura, tessuto relazionale. La borghesia newyorkese che pullula intorno ai protagonisti è la vera incarnazione di Mefistofele: non più il seduttore, ma il “buon vicino” che ti aiuta, ti introduce, ti protegge… purché tu non faccia domande.

E la tragedia? Esiste ancora, in questo quadro così disilluso? Sì, ma ha cambiato pelle. Non è più la tragedia dell’eroe che precipita per essersi avventurato troppo in alto, ma la tragedia della donna che viene risucchiata in un progetto oscuro senza esserne partecipe. Rosemary non ha un destino scritto: glielo impongono. Il suo tragico, come quello di Antigone o di Medea, è tutto nella consapevolezza che cresce, nella solitudine che avanza, nella voce che non trova ascolto. E alla fine, come Faust, anche lei guarda in faccia la sua creatura. Ma non è un Dio a redimerla: è solo il pianto di un neonato. Nessuna salvezza, nessuna resurrezione. Solo una forma muta di amore che resiste, nonostante tutto.

Ciò che rimane della leggenda, dunque, non è più il suo apparato mitico, ma la sua struttura profonda: l’idea che ogni patto col potere abbia un prezzo, che ogni desiderio abbia un’ombra, che ogni conquista comporti una perdita. E se Faust, nei secoli, ha incarnato il volto prometeico dell’uomo moderno, Rosemary’s Baby ne mostra il versante crepuscolare: non più l’eroe che sfida Dio, ma l’uomo che si piega al diavolo senza neppure accorgersene.

In questa reinvenzione, Polanski firma un’opera che è insieme parabola e parodia, tragedia e farsa, mito e cronaca. Un Faust ridotto al minimo, ma non per questo meno spaventoso. Perché in fondo, nel mondo che ci racconta, chiunque potrebbe essere tentato. E chiunque potrebbe — senza rumore, senza fiamme, senza sangue — dire sì.

Conclusione. Il bambino e il tempo: Rosemary’s Baby come metafora dell’Occidente al tramonto

Rosemary’s Baby non è solo un film, e nemmeno solo un capolavoro del cinema horror. È un dispositivo simbolico complesso, un prisma attraverso cui osservare lo smottamento profondo della cultura occidentale nel secondo Novecento, l’erosione lenta ma costante di ogni riferimento saldo: Dio, il Bene, la maternità come dono, la famiglia come rifugio, la casa come luogo sicuro. Roman Polanski, attraverso un linguaggio cinematografico asciutto, insinuante, clinicamente controllato, ci consegna una narrazione che non urla mai, ma che affonda silenziosamente nel cuore dell’ideologia borghese per farne esplodere — dall’interno — l’artificio.

Nel film, ogni archetipo viene scomposto, rovesciato, riscritto con inchiostro nero. L’appartamento newyorkese non è la casa moderna e razionale, ma un nuovo castello gotico fatto di corridoi e passaggi segreti. La coppia felice non è l’embrione della comunità, ma un nucleo minato dall’ambizione, dal narcisismo, dal tradimento. La gravidanza, che dovrebbe essere il paradigma del futuro, è qui vissuta come processo di espropriazione del corpo e dell’identità. E infine il figlio, culmine del desiderio di una donna giovane e gentile, si rivela come incarnazione dell’inaudito: il futuro come minaccia, come entità già aliena al bene, già contaminata.

È in questa tensione — tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è diventato — che Rosemary’s Baby trova il suo spessore tragico. Polanski non fa cinema dell’orrore per generare paura, ma per creare uno spazio di interrogazione spirituale. Lo spettatore, una volta oltrepassata la superficie narrativa, è chiamato a confrontarsi con domande radicali: che cosa significa davvero desiderare un figlio? Cosa si è disposti a cedere per il successo? Che cosa resta della fede in una società dominata dal controllo, dalla vicinanza inquisitoria, dal conformismo del bene apparente? E infine, qual è il destino dell’infanzia in un mondo che ha smesso di credere nella redenzione?

La figura del bambino è qui centrale non perché mostruosa — Polanski evita con assoluta intelligenza ogni manifestazione fisica del male — ma perché assente. Egli è il cuore oscuro della narrazione: sempre evocato, mai visto. Proprio questa assenza ne amplifica la potenza simbolica. È ciò che non possiamo dire, ciò che non vogliamo vedere, ciò che però determina tutto. Il bambino è l’oggetto di un culto perverso eppure ordinato, sorridente, borghese. È la proiezione dell’epoca futura generata da un mondo che ha sostituito Dio con l’efficienza, la spiritualità con l’estetica rassicurante dell’iper-controllo.

E qui si colloca uno dei punti più acuti dell’opera: la sostituzione del sacro con il profano sacralizzato. La setta che circonda Rosemary non è fatta di stregoni, ma di pensionati gentili, medici affermati, donne premurose. È la borghesia liberale che ha ormai metabolizzato ogni ideologia, incluso il satanismo, pur di mantenere la propria struttura di potere. È una borghesia che non ha più bisogno di credere per esercitare dominio: è la fede stessa ad essere stata convertita in sistema, in macchina anonima di perpetuazione. In questo contesto, l’anticristo non appare come rottura del mondo, ma come suo compimento. È l’erede logico, il figlio legittimo.

Eppure, Rosemary’s Baby non si chiude nel nichilismo. Il gesto finale di Rosemary — che dopo tutto accetta di cullare, e forse allattare, il neonato — è quanto di più ambiguo e perturbante si possa immaginare. È un atto di resa? Di pietà? Di follia? O forse, più radicalmente, è il riemergere in forma pura dell’istinto materno, dell’amore che si fa oltre ogni ideologia, ogni sistema, ogni teologia? In quella scena muta si consuma una delle più potenti contraddizioni dell’intera modernità: la maternità come gesto originario che sfugge al controllo, che persiste anche quando tutto sembra perduto. Rosemary non è redenta, né perduta: è testimone. E nel suo sguardo — che non è né accettazione né terrore — si condensa la domanda senza risposta: può l’amore sopravvivere al male assoluto?

Il film non ci fornisce certezze. Non offre conforto. Ma in questo sta la sua forza. Come ogni opera davvero tragica, Rosemary’s Baby non consola, ma disvela. Non ci guida fuori dal buio, ma ci costringe ad abitarlo. E in questo senso, Polanski ha dato forma a un’icona del Novecento: un’immagine dell’Occidente al tramonto, prigioniero delle sue maschere, dei suoi desideri mutati in incubi, del suo futuro che non redime, ma conferma il disastro.

Il bambino nella culla nera — centro invisibile del film — è il simbolo dell’epoca a venire. Non è soltanto l’anticristo. È la nuova creatura dell’umanità post-sacrale: prodotto di un mondo che ha sacrificato tutto sull’altare del successo, dell’ordine e della ragione, perdendo nel frattempo il senso del mistero, del limite, dell’altro. In lui si compie la profezia più profonda di Nietzsche: non solo “Dio è morto”, ma la sua assenza è stata colonizzata da qualcosa di peggio — una presenza che non ha volto, ma ha struttura. Una divinità che non salva, ma contabilizza. Un potere che non condanna, ma invita a cena.

In questo paesaggio desertificato, resta solo la figura fragile di Rosemary, madre senza scelta, icona silenziosa di una resistenza che non si chiama eroismo, ma istinto. È in lei, forse, l’unica speranza possibile: nel gesto che culla, nonostante tutto, nel corpo che continua a generare, nel rifiuto ostinato di cedere all’odio. Una speranza senza lieto fine. Ma ancora viva.