domenica 30 novembre 2025

Io la conoscevo bene



Io la conoscevo bene

Non so più dire quando ho visto Io la conoscevo bene per la prima volta. Forse in una notte di televisione sbagliata, in una di quelle ore sospese in cui si resta svegli non per curiosità, ma per stanchezza, come chi non sa dove mettere il proprio corpo. La luce della pellicola mi arrivava addosso come un ricordo non mio: una ragazza che rideva senza sapere perché, una camera ammobiliata male, un giradischi che girava da solo, stanco di ballare per chi non ascolta più.

Mi sembrò di averla sempre conosciuta, Adriana. Come se quella leggerezza sua — la stessa che gli uomini confondono con la stupidità — mi appartenesse da sempre, da prima che la parola “innocenza” diventasse una condanna. Lei rideva, e io mi riconoscevo in quella risata, anche sapendo che dietro c’era già la tristezza, quel piccolo segreto che si porta negli occhi chi non ha imparato a difendersi dal mondo.

Pietrangeli non la filma: la spia, la segue, la accompagna con una delicatezza da assassino gentile. È un film che non urla mai, ma soffoca piano. Ogni inquadratura è una carezza che diventa schiaffo, ogni gesto un’illusione che si consuma in silenzio. Io la guardavo danzare, attraversare quelle stanze senza finestre, e pensavo: non c’è bisogno di morire per cadere, basta un sorriso di troppo.

C’erano gli uomini — tanti, tutti uguali, ognuno con la sua parte nel piccolo teatro dell’inganno. Tognazzi, Manfredi, Salerno, Adorf: maschere che ridono, e dietro la risata, un disprezzo dolce, quasi paterno. La toccano con le parole, la usano come si usa un sogno che non costa niente. Eppure, nessuno riesce a ferirla davvero: lei è già oltre, sospesa, come se non appartenesse alla stessa materia degli altri.

Ricordo la scena del treno, Tognazzi che balla sul tavolo — una specie di esorcismo del nulla. Tutti fingono di divertirsi, come chi sa che la festa è finita da un pezzo ma continua a ballare per paura del silenzio. E lei, Adriana, lì in mezzo, con quello sguardo che si fa più opaco, più lento, come se la vita le stesse scivolando via dalle mani, un disco che gira sempre sullo stesso solco.

C’è un momento, nel film, in cui tutto sembra ancora possibile. È quando lei cammina lungo il mare, o forse in una periferia qualunque, con il vento che le entra nei capelli. Io mi sono innamorato di quel passo. Non del suo corpo, ma del modo in cui occupa lo spazio: una leggerezza che non pesa, un’ingenuità che non chiede perdono. È il momento più puro del film, quello in cui la speranza non è ancora un errore.

Ma poi arriva il silenzio, quello vero. Non un grido, non una scena madre: solo la fine. La banalità della tragedia, come un gesto quotidiano. Quando il suo corpo sparisce, quando la musica si interrompe, resta un vuoto che nessuna morale può riempire. E io, davanti allo schermo, ho sentito che quella assenza era mia, che in qualche modo avevo vissuto anch’io quella caduta, giorno dopo giorno, mentre il mondo rideva e nessuno ascoltava.

Forse Io la conoscevo bene è un film sul rumore: il chiacchiericcio, le canzonette, i bicchieri che tintinnano, il traffico, il mare finto delle cartoline. Pietrangeli non ci mostra mai il dolore diretto, lo lascia sussurrare dietro la musica. È un dolore che non ha il coraggio di chiamarsi tale, un malessere di fondo, come un’eco dentro un jukebox. Eppure, è proprio da lì che nasce la sua potenza.

Io mi sono chiesto, tante volte, se Adriana sapesse di essere infelice. Forse no. Forse non aveva il tempo di capirlo. Eppure, il suo corpo lo sapeva: il modo in cui si sedeva, si spogliava, si pettinava, tutto gridava una malinconia senza nome. Le sue mani erano stanche di chiedere amore, ma continuavano a cercarlo come un’abitudine.

E quando la telecamera indugia sul suo volto — quel volto che sembra sempre sul punto di capire e subito dimentica — io penso che non è solo lei a perdersi. Siamo noi, spettatori, che smettiamo di riconoscerci. La sua storia non è un monito né una condanna: è un riflesso. È il racconto di un Paese intero che si specchia nella propria vanità, nel proprio desiderio di farsi vedere, e finisce per non vedere più niente.

Adriana non è solo una ragazza del boom economico: è la figura più fragile e vera di quella modernità che ancora oggi ci attraversa. La leggerezza con cui affronta il mondo è la stessa con cui noi scrolliamo, scorriamo, ci esibiamo, ridendo mentre dentro tutto tace. Se fosse viva oggi, avrebbe un profilo perfetto, pieno di filtri e sorrisi; eppure, dietro, ci sarebbe lo stesso silenzio.

Pietrangeli l’ha capita prima di tutti: ha visto la fine prima ancora che cominciasse. Io la conoscevo bene è un requiem in minigonna, una messa pop con il ritmo della disillusione. E la sua dolcezza, la sua lentezza, la fanno ancora più devastante. Ogni canzone del film — Mina, Morandi, il twist, le orchestrine — diventa una coltellata sorridente. Non è nostalgia, è autopsia.

Io non ho mai smesso di pensarla, Adriana. Di tanto in tanto, quando vedo certe luci di periferia, o una ragazza che ride da sola in metropolitana, mi sembra di rivederla. Forse non è mai morta. Forse è rimasta sospesa dentro quel giradischi, dentro un 45 giri che nessuno ha più avuto il coraggio di togliere. Lei gira ancora, sorridendo, in un’Italia che fa finta di non ricordarla.



A volte mi sembra che Adriana non sia mai uscita da quella stanza. Che il mondo intero, da allora, sia rimasto intrappolato con lei dentro quelle pareti spoglie, con un letto disfatto e un giradischi che continua a girare come un cuore che non sa smettere di battere. Non c’è una sola scena del film che non mi sia rimasta addosso come un profumo di cipria vecchia, come la traccia di un rossetto su un bicchiere che nessuno ha lavato.

Adriana non parla davvero con nessuno. Si lascia parlare addosso. Gli altri — uomini, registi, amici, sconosciuti — le raccontano cosa deve essere, e lei ascolta, annuisce, ride. In quella risata si consuma tutto: l’inganno, la speranza, la resa. Io guardavo quelle scene e mi sembrava di riconoscere l’esatto momento in cui una donna smette di credere che la vita abbia un senso, ma continua a cercarlo per inerzia. È un gesto piccolissimo, invisibile, un tremolio nello sguardo, un modo diverso di accendere la sigaretta.

C’è qualcosa di sacrale in quella leggerezza che si disgrega. Pietrangeli la filma come se fosse un’Annunciazione rovesciata: la grazia non scende più dal cielo, ma si dissolve dal basso, nelle parole sciocche, nei balli di provincia, nelle promesse che odorano di benzina e dopobarba. Il miracolo non è più possibile, eppure Adriana continua ad aspettarlo. Forse è per questo che ci commuove così tanto: perché non smette di sperare neanche quando tutto è già finito.

L’Italia del film è un Paese che finge di essere felice. Le insegne al neon, le feste in terrazza, le risate: tutto è copertura. Dietro, si muove una tristezza collettiva, un’angoscia di cui nessuno vuole parlare. Pietrangeli non la denuncia — la accarezza. La mostra come si mostra una ferita che non guarirà mai. Io, guardando, avevo la sensazione che quella ferita fosse anche la mia: la consapevolezza di essere nati in un luogo dove la felicità è un obbligo e la malinconia una colpa.

Adriana non è un personaggio, è un sintomo. È la dolcezza che si fa rovina, la tenerezza che implode. Ogni volta che appare sullo schermo, sembra portare con sé l’intera illusione di un decennio. Lei è l’Italia che si specchia e non si riconosce, che compra abiti nuovi per nascondere la fame antica, che vuole amare ma non sa come, che ride per non sentire il rumore del proprio vuoto.

Io la conoscevo bene, sì. Perché in ogni sua esitazione, in ogni sguardo spaurito, c’è un frammento di noi: di chi si è creduto moderno, libero, disinvolto — e invece era solo più solo. L’ho conosciuta quando anche io mi credevo immune, quando pensavo che bastasse un disco, un vestito, una serata a confondere il dolore con la vita. Ma lei mi ha insegnato il contrario: che la leggerezza può essere un precipizio, e che a volte si cade sorridendo.

Ci sono momenti in cui il film sembra sospeso in un tempo senza tempo. Pietrangeli costruisce una lentezza quasi ipnotica, in cui ogni gesto diventa definitivo. L’ascensore, il telefono, le voci di corridoio: tutto vibra di un’angoscia sottile, quasi erotica. La macchina da presa non giudica mai; guarda, ascolta, attende. È come se volesse concedere a ogni personaggio la possibilità di salvarsi — pur sapendo che nessuno lo farà.

E poi c’è la musica. Le canzoni, le orchestrine, la radio che canta anche quando nessuno la ascolta. È una musica che non consola, che accompagna la fine come una ninna nanna per adulti sconfitti. Ogni brano è scelto con una precisione chirurgica, come se Pietrangeli avesse previsto che proprio in quella sovrapposizione tra dolore e leggerezza si sarebbe rivelato il mistero del nostro tempo. Non c’è silenzio nel film — eppure è tutto un silenzio gridato, un sottofondo di malinconia che diventa voce del cuore.

Ricordo ancora l’ultima inquadratura. Quella stanza, il rumore del vento, il corpo immobile, il giradischi che continua a girare. È una delle immagini più sincere che il cinema italiano abbia mai avuto il coraggio di mostrare: la fine senza spettacolo, la tragedia che non chiede applausi. La morte di Adriana non è una punizione, è un ritorno alla verità. La sua assenza diventa l’unico modo possibile per esistere ancora, per smettere di fingere.

Eppure, ogni volta che rivedo il film, non riesco a piangere per lei. È come se non volesse le nostre lacrime. Come se, in fondo, ci dicesse: non fate come me, non credete a chi vi insegna a sorridere. Ma anche: non smettete di sperare, perché il sogno, anche se uccide, è l’unico modo per restare vivi.

Quando il film finisce, la realtà sembra più fredda. Le strade fuori appaiono identiche, ma c’è un silenzio nuovo. Tutto il chiasso del mondo sembra aver perso significato. Forse è questo il vero miracolo di Pietrangeli: averci costretti a guardare dentro la nostra stessa illusione, a vedere quanto siamo simili a quella ragazza che rideva per non crollare.

A volte penso che Io la conoscevo bene non sia solo un film, ma una confessione collettiva. Un atto d’amore e di rimorso verso tutte le Adriane dimenticate, verso tutti i sogni sacrificati sull’altare della modernità. È un film che parla di una generazione, ma in realtà racconta ogni tempo in cui la giovinezza viene barattata con l’apparenza, la libertà con il consenso, la felicità con la superficie.

E allora, quando penso ad Adriana, la immagino ancora viva, da qualche parte. Forse è in un bar del litorale, con un cappotto troppo leggero, che guarda il mare senza riconoscerlo. Forse sorride ancora, ma quel sorriso non è più un inganno: è un segreto. Forse sa che tutto quello che ha vissuto — la delusione, il desiderio, la vergogna, la dolcezza — è stato necessario. Che c’è una forma di grazia anche nella sconfitta.

Io la conoscevo bene, e continuo a conoscerla ogni volta che mi specchio nel riflesso di una vetrina illuminata, ogni volta che sento una canzone anni Sessanta e mi viene voglia di ridere e piangere insieme. Lei è ancora lì, nel ritmo del twist, nella voce di Mina che finge allegria, nel rumore di un phon, nel silenzio dopo una risata. Adriana è diventata la mia memoria del disincanto, il mio modo di restare umano in un mondo che applaude solo chi non sente più nulla.

Il suo gesto finale — quel gesto che non ha bisogno di essere nominato — resta il più estremo atto di sincerità che il cinema abbia mai mostrato. Non è una fuga, è un atto di lucidità. Lì, dove tutti le chiedevano di recitare, lei sceglie di sparire. Di non mentire più. Di essere finalmente sola, come lo era sempre stata.

E io, ogni volta che la rivedo, mi chiedo se avrei potuto salvarla. Se bastava una parola diversa, un incontro, un bacio vero. Ma poi capisco che non si salva chi non vuole mentire, e che la sua bellezza era tutta lì: nel coraggio inconsapevole di non adattarsi, di non indurirsi, di restare fragile in un mondo che premia solo chi finge.

Alla fine, forse, Adriana non è mai esistita. È una proiezione, una necessità. È la parte più tenera di noi che il tempo non riesce a cancellare. Quella che ancora sogna, anche quando sa che i sogni sono veleno. Quella che balla da sola in una stanza, con un giradischi che graffia l’aria. Quella che sorride al buio, come se da qualche parte ci fosse ancora una luce disposta ad amarla.

E io, sì, la conoscevo bene. E la conosco ancora.
Perché non si dimentica mai chi ha saputo trasformare la leggerezza in tragedia, e la tragedia in grazia.
Perché il suo silenzio continua a parlare, ogni volta che una risata si spegne troppo presto, ogni volta che qualcuno si illude che la vita sia un film, e scopre che lo è — ma diretto da Pietrangeli.

Nota finale d’autore

Scrivere di Adriana è stato come attraversare un corridoio pieno di specchi: a ogni passo, un riflesso diverso, un volto che mi osserva e non so se è il suo o il mio. A volte la riconosco, altre no. Eppure so che è lì, che non se n’è mai andata. Adriana non appartiene al cinema, appartiene alla luce stessa che lo rende possibile. È quella scia di malinconia che resta negli occhi quando la pellicola si spegne, quell’odore di trucco e di fumo che rimane dopo una festa.

Scrivere di lei è come cercare di descrivere un sogno che si dissolve mentre lo si racconta. Ogni frase la allontana un po’ di più, eppure ogni parola la riporta in vita. Forse è questo che intendo quando dico che io la conoscevo bene: non perché l’avessi incontrata davvero, ma perché da qualche parte, in qualche stagione della mia esistenza, ho vissuto la sua stessa inconsapevolezza, la sua stessa dolcezza stonata, il suo bisogno disperato di credere nel bene anche quando tutto gridava il contrario.

C’è una tenerezza che brucia nel ricordo di Adriana, un calore che punge. Pietrangeli, nel suo sguardo gentile e spietato, non ci ha regalato un personaggio ma un abisso con il rossetto. Ogni sua inquadratura è una carezza che lascia il segno, ogni canzone che accompagna la sua danza è una messa in scena della nostra incapacità di fermarci. Io la guardo ancora, a distanza di anni, e non riesco a smettere di sentirmi complice del suo destino. Forse è questa la condanna del film: costringerci a riconoscere che non siamo spettatori, ma partecipi del naufragio.

Mi chiedo spesso che cosa sarebbe successo se Adriana fosse sopravvissuta. Forse sarebbe diventata una donna comune, con un lavoro precario, un appartamento in affitto, un armadio pieno di vestiti che non la fanno più sentire giovane. Forse avrebbe continuato a fingere allegria, a raccontarsi che la vita è così, che bisogna sapersi adattare. O forse no: forse avrebbe trovato una forma di libertà nella stanchezza stessa, un modo diverso di stare al mondo, meno lucido ma più vero. Mi piace pensare che, in un’altra versione del film, Pietrangeli le avrebbe concesso un’alba, anche solo per un minuto.

Io ho scritto per darle quella luce che non ha avuto. Ma ogni parola che ho posato su di lei è diventata una ferita, come se tentare di salvarla significasse ucciderla di nuovo. Perché Adriana non va salvata. Va lasciata lì, nella sua fragilità perfetta, come una reliquia del nostro desiderio di purezza. Chi tenta di spiegarla, la perde. Chi prova a redimerla, la tradisce. Bisogna soltanto guardarla e tacere, accettare che la sua bellezza sia senza redenzione.

Quando rivedo il film, mi accorgo che non è cambiato nulla: gli stessi sorrisi vuoti, lo stesso chiasso, la stessa voglia di fingere che tutto vada bene. L’Italia che Pietrangeli raccontava non è finita: si è solo fatta più rumorosa. La malinconia di Adriana è ancora ovunque, travestita da allegria, da successo, da sicurezza. È negli occhi di chi finge disinvoltura, nelle risate che esplodono nei locali, nei selfie presi al tramonto per non guardare l’oscurità che cresce dietro.

Forse scrivere di lei è stato un modo per perdonarmi. Per riconoscere la mia stessa parte superficiale, quel desiderio infantile di piacere, di essere scelto, visto, approvato. Adriana, nel suo modo inconsapevole, è la mia ombra più onesta. E allora scrivere questo testo è stato anche un modo per chiederle scusa — per tutte le volte che, nella vita reale, ho guardato senza capire, ho sorriso senza ascoltare, ho amato senza avere il coraggio di fermarmi davvero.

La sua morte, così semplice, così non cinematografica, resta per me la scena più sincera della storia del nostro cinema. Pietrangeli non ci offre catarsi, ma un silenzio. E in quel silenzio c’è tutto ciò che non riusciamo mai a dire: la paura di sparire, la vergogna di essere fraintesi, il desiderio di appartenere a qualcosa che non esiste più. Guardando quella scena, ho sentito per la prima volta il peso della parola “fine” — non come chiusura, ma come verità.

Eppure, nonostante tutto, Adriana continua a esistere. In una canzone che passa per caso alla radio. In una ragazza che corre sotto la pioggia con i tacchi in mano. In ogni sorriso che nasconde un tremore. Lei non è mai morta perché non ha mai smesso di essere guardata. E noi, spettatori tardivi, la riportiamo in vita ogni volta che pensiamo alla leggerezza come a una condanna, ogni volta che ci chiediamo se davvero la felicità debba essere così rumorosa.

Io, che pure non credo nella salvezza, sento che c’è una forma di grazia nella sua sconfitta. Non una redenzione, ma una verità limpida, impietosa, che illumina tutto il resto. È la consapevolezza che la vita non si lascia possedere, e che chi la vive troppo intensamente finisce per bruciarsela addosso. Ma anche che quella bruciatura è ciò che ci rende vivi.

Scrivere di Adriana mi ha insegnato che la malinconia può essere un atto di resistenza. Che continuare a sentire, anche quando tutto invita a non farlo, è una forma di coraggio. E allora sì, forse la sua leggerezza non era ingenuità, ma una rivolta silenziosa: il rifiuto di diventare come gli altri, di trasformare la vita in una trattativa. Lei ha scelto il silenzio come verità, e noi, che restiamo, dobbiamo imparare a non averne paura.

Non so se questo testo le renda giustizia. So solo che, ogni volta che scrivo di lei, mi sembra di respirare un po’ meglio. Come se il suo sorriso, quello vero — quello che non si vede più — continuasse a passarmi accanto, lieve, nel rumore del mondo. E che, in quel passaggio, per un istante solo, tutto torni a essere possibile.