mercoledì 19 novembre 2025

Il nome delle cose


Ci sono parole che non dicono, ma risuonano. Non spiegano, ma invocano.
In un mondo che ha sostituito le voci con le frequenze e il senso con il flusso, capita ancora di inciampare in un nome che apre uno spazio. Lo si sente, più che comprenderlo: è come un’eco che si separa dal brusio, un cristallo che riflette la luce mentre tutto intorno scorre in dissolvenza.

Don DeLillo ha costruito la sua architettura verbale su questa esperienza: la possibilità, fragile e irripetibile, che anche nel linguaggio più consumato si depositi un resto di sacralità. È un’idea che attraversa tutta la sua opera come un respiro sotterraneo — l’intuizione che il divino non sia scomparso, ma solo migrato. Che si sia nascosto dentro le parole neutre, nei suoni sintetici, nei nomi globali che attraversano le pubblicità come cori invisibili del mondo contemporaneo.

Il linguaggio del nostro tempo non è più fatto di parole, ma di segnali.
La lingua ha smesso di essere un corpo vivente: è diventata una superficie che riflette. Le informazioni si ripetono, le immagini si moltiplicano, le parole scivolano le une sulle altre fino a produrre un suono continuo, un ronzio di fondo che occupa lo spazio della mente.
Eppure, dentro quel rumore bianco, qualcosa resiste. Una parola pronunciata nel momento giusto, o forse solo ascoltata con stupore, può ancora aprire un varco.

Non si tratta di nostalgia per un’età dell’oro, ma del riconoscimento che la lingua, anche nella sua forma più corrotta, porta in sé una memoria di purezza. Ogni parola conserva un’etimologia invisibile, un’ombra di cielo da cui proviene. È come se nel linguaggio sopravvivesse la traccia di un’antica alleanza tra l’uomo e il mondo, tra il suono e la cosa nominata.

Il nome di un’automobile, di un medicinale o di un detersivo, nella scrittura di DeLillo, non è soltanto un oggetto linguistico. È un punto di condensazione del mistero. La modernità, con la sua ossessione per il consumo e la tecnologia, produce nuove parole sacre, inconsapevoli.
Dietro la loro neutralità, si avverte il ritmo arcaico della preghiera: il ripetersi, il mormorio, la formula che attraversa le generazioni. Questi nomi industriali sono come reliquie di un tempo in cui la lingua ancora nominava per creare, e non per vendere.

Ciò che li rende poetici non è la loro bellezza, ma la loro estraneità. La loro capacità di sfuggire al senso, di vibrare al di là della logica. È in questa distanza, in questa mancanza di centro, che DeLillo intravede il residuo di una trascendenza possibile.
Il sacro, oggi, non appare più nei templi, ma nel linguaggio impersonale che cerca di cancellarlo. È come un errore di sistema, un piccolo corto circuito della significazione: un istante in cui il segno non coincide con la cosa, e proprio per questo la evoca.

La cultura dei simulacri ha cercato di saturare il mondo di immagini, di renderlo trasparente a se stesso. Ma la trasparenza, come ogni eccesso di luce, finisce per accecare.
In questo accecamento, la parola — proprio la parola più banale — può tornare a essere opaca, densa, quasi misteriosa. Un nome industriale che contiene un’etimologia celeste, una marca pronunciata come un’invocazione, un suono privo di intenzione che diventa preghiera: tutto questo appartiene alla nuova grammatica del sacro.

La trascendenza, per DeLillo, non è più una fuga verso l’alto, ma un affiorare dal basso. È ciò che emerge dal linguaggio della massa, come un respiro inaspettato dentro il frastuono.
Ciò che resta del sacro, nel mondo contemporaneo, è la pura vibrazione fonica: una sillaba che si sottrae al controllo del significato e torna a essere suono, corpo, materia viva.

Non è un caso che il linguaggio infantile, nella poetica dell’autore, assuma un ruolo quasi teologico. Il bambino, ancora privo di filtri, ascolta le parole come creature dotate di energia propria. Per lui, i nomi non designano ma incarnano.
È un’esperienza di linguaggio che precede la logica e sfiora la musica: il suono che precede la ragione, la parola che ancora non sa di essere parola.
L’infanzia, in questa prospettiva, diventa il luogo privilegiato dell’epifania linguistica: uno spazio in cui il mondo non è ancora stato tradotto, e dunque può ancora rivelarsi.

Zolla lo aveva intuito con chiarezza: il bambino apprende non per deduzione, ma per immersione; ascolta distratto e, senza saperlo, assimila le regole segrete del mondo. Nella sua distrazione c’è una forma di contemplazione, un sapere non analitico ma intuitivo.
In questo modo, il linguaggio infantile diventa la misura dell’innocenza perduta della parola, la soglia attraverso cui il sacro può ancora parlare.

DeLillo non è un moralista della modernità, ma il suo archeologo.
Scava dentro le superfici, ne ascolta i crepitii, cerca il punto in cui la lingua si frantuma e rivela la sua anima residua.
Nelle sue pagine, la pubblicità e la metafisica convivono come due forze opposte e complementari: una tende a svuotare il linguaggio, l’altra a riempirlo di mistero.
Il risultato è una tensione costante tra il disincanto e la nostalgia, tra l’ironia e la preghiera.

Per questo White Noise non è soltanto una diagnosi del tardo capitalismo, ma una meditazione sulla possibilità di salvezza dentro la cultura dei segni. Non una redenzione religiosa, ma linguistica: la riscoperta di un potere simbolico che sopravvive anche quando tutto sembra ridotto a informazione.

C’è, in fondo, una malinconia romantica in questa visione.
Il mondo postmoderno ha smascherato l’illusione delle epifanie, ma non è riuscito a cancellare il loro desiderio.
DeLillo abita proprio quella ferita: sa che l’assoluto non è più possibile, e tuttavia continua a cercarne l’eco.
La sua scrittura vive di questa tensione irrisolta — una scrittura che non pretende di redimere il linguaggio, ma di custodirne il battito.

Ogni nome pronunciato, anche il più futile, diventa allora un tentativo di chiamare qualcosa che non risponde. Eppure, nella ripetizione del gesto, nel semplice atto di nominare, sopravvive una forma minima di fede.
Forse non crediamo più in Dio, ma continuiamo a credere nel potere del suono: nel fatto che il linguaggio, prima o poi, possa ancora sorprenderci, illuminarci, aprire un varco.

Il vero miracolo, oggi, non è che una parola significhi, ma che continui a vibrare.
Nel frastuono della comunicazione globale, questa vibrazione è la sola forma di resistenza che ci resta. È un modo di abitare il mondo con orecchio attento, di riconoscere nel rumore stesso un battito che non si spegne.
DeLillo ci invita a questo ascolto: non a decifrare, ma a percepire; non a capire, ma a lasciarsi attraversare dal linguaggio.

E allora, forse, il sacro non è scomparso: si è semplicemente nascosto nel suono delle cose.
In un nome qualunque, pronunciato senza pensiero, può ancora manifestarsi un lampo di verità.
La trascendenza, ormai, non è altrove. È qui — tra le parole che ripetiamo distrattamente, nel linguaggio che ci parla mentre crediamo di parlare noi.
È l’eco che rimane quando il mondo tace.