Ci sono figure che non amano la luce dei riflettori eppure lasciano un bagliore che non si spegne. Figure che non hanno mai cercato la ribalta, ma che proprio per questo hanno saputo incidere in profondità, come radici che nutrono senza mostrarsi. Jole De Sanna apparteneva a questa schiera ristretta e preziosa. Parlare di lei significa tentare di riportare in superficie un’intensità che non si lasciava catturare facilmente: una vita che si muoveva con discrezione, ma che era animata da un fuoco interiore, da una passione incrollabile per ciò che l’arte custodisce di più segreto.
La sua esistenza, poco più di cinquant’anni, fu segnata da una tensione costante, quasi ascetica: un continuo inseguimento di segni, documenti, opere, parole, come se ogni giorno potesse nascondere una rivelazione. La sua morte improvvisa, in un incidente automobilistico, lasciò un senso di incompiuto: come quando si interrompe una frase sul punto di svelare il suo significato più profondo. Ma chi l’ha conosciuta sa che quel senso di incompiutezza apparteneva già al suo modo di vivere: Jole non cercava mai la chiusura, la definizione ultima, quanto piuttosto l’apertura, l’attesa, il continuo movimento del pensiero.
Per lei l’arte era fede, dedizione assoluta. Non un campo professionale da coltivare per guadagnare un ruolo, né un linguaggio da maneggiare con distacco, ma un’esperienza vitale, un’avventura spirituale. L’arte era, per Jole, un altare e insieme un enigma: un luogo dove l’anima si specchia, si interroga, si perde e si ritrova. Forse per questo le sue scelte furono spesso controcorrente: non cercò mai di inserirsi nei circuiti più rumorosi, non si piegò alle logiche di potere, non adottò il linguaggio di moda nelle gallerie e nei giornali. Restava altrove: un altrove che non era isolamento, ma libertà.
Il suo modo di avvicinarsi agli artisti era unico. Non li riduceva a oggetti di studio, ma li ascoltava, li accoglieva, cercava la loro voce nelle lettere, nei diari, nei manifesti, nelle confessioni più intime. Amava soprattutto gli scritti degli artisti, perché vi riconosceva la vibrazione originaria, la radice del gesto creativo. I suoi volumi su Medardo Rosso (1985) e su Lucio Fontana (1993), entrambi pubblicati da Mursia, rimangono modelli di questo approccio: non critiche dall’alto, ma immersioni nel pensiero, restituzioni filologiche che si facevano narrazione viva. In quelle pagine, Jole riusciva a far parlare gli artisti stessi, a ridare corpo e voce alle loro intuizioni, a lasciar emergere le loro contraddizioni senza mai soffocarle.
Il suo debutto fu già una dichiarazione di poetica. Nel 1976, al Museo di Verbania Pallanza, curò la mostra “Aptico”: un titolo enigmatico, che evocava una dimensione tattile, corporea, sensibile, e che già diceva la volontà di pensare l’arte come esperienza viva. Non era una mostra come le altre. Accanto a Fabro, Nagasawa, Trotta, Staccioli, Tonello, comparivano Bernini, Canova, Rosso, Gemito, Melotti, Fontana, Paolini, Melani, Brancusi. Secoli e linguaggi diversi si incontravano in un montaggio audace, che sfidava le categorie cronologiche e stilistiche. Il libro che accompagnava l’esposizione non era un semplice catalogo, ma un testo stratificato, fatto di citazioni, rimandi, sovrapposizioni, come se l’arte fosse un grande coro dove le voci del passato e del presente si intrecciano in una polifonia senza tempo. “Aptico” rimane, ancora oggi, un unicum: non una collettiva, ma un poema critico, un’architettura di pensiero.
Eppure, nei luoghi in cui si decidevano le fortune degli artisti, il suo nome circolava poco. Non perché fosse meno competente, ma perché non voleva competere. Non sgomitava, non cercava visibilità. Si muoveva defilandosi, quasi con pudore. Quando chiedeva qualcosa, non era mai per sé, ma per un progetto più grande: un archivio, una ricerca, un’opera da salvare. L’“Archivio dell’Arte” dagli anni Cinquanta in poi fu una delle sue imprese più significative: un lavoro enorme, paziente, che richiedeva tempo e dedizione, e che lei affrontava con quella tenacia che appartiene solo a chi non si scoraggia davanti all’immensità dei compiti.
Nel 1978, a Milano, diede vita, insieme a un gruppo di artisti e allievi, alla “Casa degli Artisti”. Non era solo uno spazio espositivo, ma un esperimento comunitario: un luogo di convivenza, di confronto, di libertà. In un’epoca segnata da tensioni politiche e culturali, la Casa degli Artisti rappresentava un laboratorio in cui si poteva pensare diversamente il rapporto tra creatività e società. Era un gesto politico, senza bisogno di proclami: affermare che l’arte non appartiene ai mercati o ai salotti, ma a chi la vive.
Jole non si fermava alla teoria: sapeva anche agire. Si deve a lei il restauro dei “Bagni Misteriosi” di Giorgio de Chirico, nel parco Sempione a Milano. Un dipinto su pietra collocato nel 1973 e presto dimenticato, che lei riportò all’attenzione, facendone un bene comune restituito alla città. Quel gesto dice molto del suo modo di intendere il mestiere dello storico dell’arte: non solo scrivere libri, ma intervenire, custodire, difendere.
Chi l’ha conosciuta la ricorda con occhi brillanti, sempre accesi di curiosità. Bastava che trovasse un documento, un dettaglio, una traccia, e subito lo raccontava con gioia infantile, con un sorriso che illuminava il volto. Era filologa e mistica al tempo stesso: capace di passare ore su un testo, ma anche di lasciarsi prendere da slanci visionari, da entusiasmi travolgenti. In lei convivevano Ariel e Clorinda, leggerezza e combattimento, poesia e rigore. Questa doppiezza la rendeva inconfondibile: potevi sentirla parlare di un dettaglio tecnico e subito dopo volare in un’immagine mitica, senza mai sembrare artificiosa.
Agli artisti offriva non soltanto competenza, ma cura. Molti hanno trovato in lei un sostegno concreto nei momenti difficili: una mano tesa, un consiglio, una presenza amica. Non separava mai lavoro e vita: per lei erano la stessa cosa, perché tutto era mosso dalla stessa passione. In questo, era una figura rara, quasi sacerdotale: viveva l’arte come missione, e chi le stava accanto lo sentiva.
Negli ultimi anni, tornò a dedicarsi intensamente a De Chirico. Studiava i suoi scritti, le sue opere, pubblicava testi e apparati con editori come Bompiani, Scheiwiller, Rizzoli, Abscondita, la Fondazione De Chirico. E lo faceva spesso senza cercare la firma, accontentandosi di una postfazione, di un contributo discreto. Non voleva apparire: voleva servire. Questa modestia, che oggi potrebbe sembrare anacronistica, era in realtà la cifra della sua etica intellettuale.
Eppure, Milano non l’ha ancora ricordata come dovrebbe. Nessuna celebrazione ufficiale, nessuna giornata di studi, nessun convegno all’Accademia di Belle Arti, dove per quasi trent’anni è stata una docente amata, quasi mitica. È un vuoto che sorprende, ma che forse non stupisce: Jole non ha mai cercato il centro della scena, e il nostro tempo tende a dimenticare chi non si mette in mostra. Ma questa mancanza istituzionale non cancella ciò che lei ha lasciato. La sua memoria vive nei libri, negli archivi, nei restauri, nelle istituzioni che ha fondato, negli artisti che ha sostenuto, negli studenti che ha formato.
Alla fine, resta di lei un’immagine complessa e luminosa: una donna rigorosa e visionaria, discreta e appassionata, concreta e poetica. Una figura che ha saputo incarnare, senza clamore, il senso profondo di una vita consacrata all’arte. Una presenza che oggi appare quasi mitica, proprio perché non è stata consumata dai meccanismi del riconoscimento ufficiale. Jole De Sanna è stata, ed è ancora, una corrente sotterranea che continua a nutrire il fiume della nostra memoria culturale.