venerdì 28 novembre 2025

Aoristo

Immaginate una lingua che non si accontenti di nominare le cose, come se la parola fosse un semplice cartellino appeso agli oggetti. Immaginate una lingua che voglia invece toccare il mondo, entrarci dentro, sentirne il peso, la temperatura, le pieghe segrete. Una lingua che non si limiti a osservare il tempo mentre scorre, come si guarderebbe un fiume da una riva distante, ma che osi entrare nell’acqua, bagnarsi, lasciarsi attraversare dalla corrente. Una lingua che non registri gli eventi come un notaio dell’esistenza, ma che provi a trattenerli, a sospenderli, a farli vibrare come corde tese tra ciò che accade e ciò che continua a risuonare. Una lingua che non abbia paura dell’istante, ma che sappia riconoscere nell’istante una profondità, uno spessore, una durata segreta. Questa lingua esiste, ed è il greco antico. E in essa, come in un piccolo scrigno incastonato nel sistema verbale, vive una delle più straordinarie invenzioni del pensiero umano: l’aoristo.

L’aoristo non è un tempo come gli altri. Non è il passato che archivia, non è il presente che consuma, non è il futuro che promette. L’aoristo è piuttosto un varco. È una fenditura nel tempo lineare, una sospensione. Non dice “prima”, non dice “dopo”. Dice “così”, “in questo modo”, “in questa qualità”. Non misura l’azione: la consacra. Non la chiude in un punto sulla linea cronologica: la apre in una durata interiore. L’azione espressa dall’aoristo non viene collocata: viene resa. Non viene datata: viene offerta. È come se il verbo, invece di indicare un momento, accendesse una luce; e quella luce non si spegne più del tutto, continua a restare visibile anche quando il fatto, nel mondo esterno, è già trascorso.

La parola stessa, “aoristo”, porta in sé questo segreto. A-oristos: ciò che non è delimitato, ciò che non ha confini visibili, ciò che non è circoscritto in una forma rigida. È una negazione che non toglie, ma che libera. Non è il “non” della sottrazione, è il “non” della dilatazione. Non finito, non chiuso, non bloccato. Come se la lingua, qui, rinunciasse consapevolmente al controllo totale sull’accadere, per lasciare che l’accadere continui a vivere anche oltre la formula che lo esprime. In questo senso l’aoristo non è solo un tempo verbale: è un gesto filosofico, una postura esistenziale, un modo di stare nel mondo. Dice che ciò che accade davvero non è mai completamente archiviabile. Che l’essenziale non entra tutto nei registri. Che il tempo, quando tocca qualcosa di vitale, smette di essere una semplice sequenza e diventa un campo di risonanza.

Se ci pensiamo, la nostra idea moderna del tempo è profondamente burocratica. Agenda, scadenze, cronoprogrammi, obiettivi, risultati. Viviamo dentro una timeline che ci chiede costantemente di “andare avanti”, di superare, di produrre, di chiudere. Ogni cosa deve avere un prima, un durante, un dopo. Ogni esperienza deve essere consumata e superata. Ogni sentimento deve conoscere una fase, un apice, una fine. In questo sistema, ciò che non finisce diventa sospetto. Ciò che dura troppo è visto come un inceppo. Ciò che ritorna viene percepito come un fallimento. Eppure, la vita reale non obbedisce a questa linearità. La vita è fatta di ritorni, di persistenze, di echi, di ferite che non guariscono del tutto e di gioie che non si spengono mai completamente. La vita è piena di aoristi interiori: gesti che non si chiudono, parole che non smettono di lavorarci dentro, sguardi che non finiscono di guardarci anche a distanza di anni.

Il greco antico, in questo, non è una lingua archeologica, ma una lingua profetica. Ha intuito qualcosa che noi, impegnati nella corsa, rischiamo di dimenticare: che il tempo non è solo una quantità da amministrare, ma una qualità da abitare. Che esistono istanti che non stanno semplicemente “nel” tempo, ma che fanno il tempo. Istanti che lo deformano, lo piegano, lo rendono più denso. L’aoristo è il dispositivo grammaticale che consente a questi istanti di non perdersi, di non scivolare via come acqua tra le dita.

Non è un caso che una delle frasi più celebri della storia del pensiero umano, quel “Conosci te stesso” che attraversa i secoli come una scintilla inesauribile, sia formulata proprio in aoristo. Non è un imperativo qualsiasi, non è l’ordine di compiere un’azione puntuale. Non dice: conosciti oggi, in questo momento, e poi archivia. Dice: entra in un movimento di conoscenza che non finirà mai di compiersi. Il conoscere, espresso in aoristo, non è un’operazione che si risolve. È un processo che resta aperto. È un invito che non smette di chiamare. Non si tratta di arrivare a una definizione definitiva di sé. Al contrario: significa accettare che ogni definizione è provvisoria, che ogni immagine di sé si frantuma prima o poi contro nuove scoperte, nuove domande, nuove contraddizioni.

In questo senso, l’aoristo socratico porta dentro di sé una lezione radicalmente anti-dogmatica. Non promette la verità come possesso, ma come ricerca. Non offre una meta, ma un cammino. Conoscersi non è mai un atto concluso: è un continuo disfare e rifare l’immagine che abbiamo di noi stessi. Ogni volta che crediamo di esserci afferrati, qualcosa si sposta. Ogni volta che pensiamo di aver capito, una zona d’ombra si apre. L’aoristo ci insegna che questa instabilità non è un difetto, ma una forma di fedeltà alla vita. Perché essere vivi significa essere esposti alla trasformazione.

E ciò che vale per il conoscere vale per ogni gesto che abbia una vera profondità esistenziale. Amare, per esempio. Anche l’amore, se lo guardiamo attraverso la lente dell’aoristo, smette di essere un episodio e diventa una corrente. Non è qualcosa che “succede” una volta per tutte. È qualcosa che continua ad accadere anche quando sembra finito. Un amore che è stato vero non entra mai davvero nel passato. Cambia forma, certo. Si allontana, si trasforma, si ricopre di silenzi. Ma resta. Resta come una linea di forza nelle nostre scelte, nei nostri desideri, nelle nostre paure. L’aoristo dell’amore non dice: ho amato. Dice: quell’amore continua ad agire in me, anche ora che non ha più il volto di prima.

Così anche il dolore. Anche il perdono. Anche il lutto. Anche la memoria. Tutte queste esperienze, che toccano i nuclei più sensibili dell’essere umano, non obbediscono al calendario. Non “finiscono” quando scade un termine. Sono aoristiche perché non si lasciano rinchiudere. Restano come campi energetici che attraversano il tempo, lo perforano, lo contaminano. Studiare l’aoristo significa anche imparare a riconoscere questa struttura profonda dell’esperienza: che ciò che conta davvero non è mai completamente confinabile.

Ricordo anch’io una domanda che torna sempre, con ostinazione quasi commovente: “A cosa serve studiare il greco antico?”. La si sente nei corridoi delle scuole, nelle bocche stanche di chi è oppresso dall’utilitarismo, nei sospiri di chi ha interiorizzato la logica del «serve solo ciò che produce». E ogni volta mi pare che questa domanda tradisca una nostalgia inconfessata. Come se, dietro la richiesta di utilità, si nascondesse il desiderio di un tempo diverso, di una lentezza possibile, di uno spazio in cui le cose non siano immediatamente inghiottite dalla funzione.

Il greco non serve a “qualcosa” nel senso in cui una competenza serve al mercato. Serve a qualcuno, semmai. Serve a chi lo incontra, perché lo costringe a spostare il proprio rapporto con il tempo, con il linguaggio, con la durata. Studiare l’aoristo significa fare esperienza, anche solo per un momento, di un tempo che non è solo quello dell’efficienza. Significa interrompere il flusso dell’immediato e accorgersi che ogni gesto contiene più di ciò che appare. Che ogni parola ha una coda temporale, una scia. Che il presente non è una superficie piatta, ma un luogo stratificato.

E poi c’è Omero. Sempre. Come un archivio vivente della potenza dell’aoristo. Nell’Iliade, nei momenti decisivi, la lingua non racconta semplicemente cosa accade: fa accadere di nuovo. Ettore che saluta Andromaca è l’esempio più vertiginoso. Quel gesto è accaduto, sì. Ma non è mai davvero finito. Ogni volta che torniamo a quei versi, Ettore si volta ancora. Andromaca solleva ancora il bambino. La paura, l’amore, il presagio di morte vibrano ancora nell’aria. Non sono ricordi: sono presenze. L’aoristo fa questo miracolo. Trasforma il passato in una soglia, non in una stanza chiusa.

L’epica greca è costruita tutta su questa sospensione attiva del tempo. Gli eroi non sono fantasmi del passato: sono figure che continuano a interrogare il presente. Achille non è morto a Troia: Achille muore ogni volta che qualcuno sceglie la gloria a scapito della vita. Ettore non è caduto solo sotto le mura: Ettore cade ogni volta che qualcuno difende ciò che ama pur sapendo di essere destinato a perdere. In questo senso, l’aoristo è la grammatica stessa del mito. Non racconta ciò che è stato: racconta ciò che non smette di essere.

E allora forse dobbiamo riconoscere che i greci non avevano una concezione del tempo più ingenua della nostra, ma più profonda. Non erano prigionieri del presente, ma neppure schiavi del passato. Il loro sguardo sapeva sostare. Sapeva riconoscere nel frammento un’eco dell’infinito. Il tempo non era una freccia: era un campo. Non era una linea: era una tessitura. Ogni gesto era un nodo, ogni parola un filo, ogni scelta una trama che si intrecciava con le altre.

Noi invece spesso viviamo come se il tempo fosse un nastro che scorre sotto i nostri piedi, inesorabile, e noi dovessimo solo correre per non cadere. Ma correndo perdiamo la capacità di imprimere. Passiamo, consumiamo, archiviamo. L’aoristo invece ci invita a un’altra postura: a non attraversare gli istanti come turisti distratti, ma come abitanti. A fermarci abbastanza a lungo da lasciare un segno e da riceverne uno.

Il “per sempre”, visto così, smette di essere una promessa religiosa o una fantasia romantica. Diventa un’attitudine. Un modo di essere presenti. Un modo di entrare negli incontri, nelle parole, nei gesti, sapendo che ciò che conta non è la durata cronologica, ma l’intensità. Un attimo può essere eterno se viene vissuto fino in fondo. Un’intera vita può essere vuota se attraversata senza attenzione.

L’aoristo ci insegna che ogni gesto contiene una soglia di eternità. Non perché duri all’infinito, ma perché può essere tale da non esaurirsi nel suo accadere. Ogni parola può diventare seme. Ogni incontro può diventare risonanza. Ogni scelta può diventare ferita o apertura che non smette di operare.

Forse, in fondo, l’aoristo è una pedagogia dello sguardo. Ci insegna a vedere diversamente ciò che facciamo, ciò che diciamo, ciò che viviamo. Ci ricorda che nulla è mai solo ciò che sembra nell’istante in cui avviene. Ogni cosa, se davvero tocca la vita, continua.

Ed è per questo che, anche oggi, anche in mezzo alla nostra frenesia digitale, anche nel rumore continuo dell’attualità che si consuma in poche ore, l’aoristo resta una lezione silenziosa e potentissima. Ci dice: non tutto passa. Non tutto si dissolve. Non tutto muore. Alcune cose restano perché non sono mai state soltanto “passate”. Alcune cose restano perché non appartengono a un punto del tempo, ma a una qualità dell’essere.

Forse è questo, alla fine, il messaggio più segreto dell’aoristo: che l’eternità non è altrove, non è dopo, non è fuori. È dentro. Abita il modo in cui guardiamo, il modo in cui tocchiamo, il modo in cui pronunciamo le parole. L’eternità non è un premio: è una possibilità. E ogni volta che un gesto viene vissuto con pienezza, ogni volta che una parola è detta come se fosse necessaria, ogni volta che un incontro è attraversato senza difese, quell’eternità si apre. Silenziosa. Precaria. Incandescente.

E forse è proprio qui che il greco smette definitivamente di essere una lingua “morta” e diventa una lingua segretamente più viva della nostra. Perché sa dire ciò che continua anche quando tutto sembra archiviato. Sa nominare ciò che resta anche quando le cronache hanno voltato pagina. Sa proteggere l’istante dall’usura. L’aoristo non è il tempo della nostalgia — che è sempre un ripiegamento — ma della persistenza. Non dice: quanto era bello. Dice: questo continua a essere vero, anche ora.

Se ci pensiamo, tutta la nostra civiltà è ossessionata dall’idea della fine. Fine di un amore, fine di un lavoro, fine di una relazione, fine di una stagione, fine di un’epoca. Ogni cosa deve avere un termine, una data di scadenza, una chiusura certificata. Persino le emozioni vengono organizzate come dossier: apertura, sviluppo, esaurimento. Ma la vita, quella vera, disobbedisce continuamente a questa mania di chiusura. Le cose che ci hanno toccato non “finiscono” mai davvero. Cambiano statuto, si spostano, si mascherano, a volte si nascondono. Ma continuano ad agire. L’aoristo è la grammatica di questa azione sotterranea.

È per questo che l’aoristo ha tanto a che fare con il lutto. Il lutto è forse l’esperienza più aoristica che esista. Perché ciò che muore, biologicamente, non smette affatto di vivere dentro di noi. I morti continuano a parlarci, a visitarci, a correggere le nostre scelte, a comparire nei sogni, nelle frasi spezzate, nei gesti improvvisi. Non sono al presente, non sono al passato: sono in una dimensione che somiglia terribilmente all’aoristo. Una zona di sospensione in cui l’assenza diventa una forma diversa di presenza. Anche qui la cronologia fallisce. Anche qui serve un altro modo di dire il tempo.

E vale lo stesso per la scrittura. Chi scrive lo sa: un testo non è mai davvero finito. Anche quando viene stampato, pubblicato, consegnato al mondo, continua a lavorare dentro chi lo ha scritto. Ogni libro, ogni pagina, ogni verso mantiene un’attività fantasma. Ritorna, si modifica nella memoria, viene riscritto interiormente, viene contraddetto. La scrittura è un gesto in aoristo: accade una volta, ma continua ad accadere. Non è un prodotto: è una traccia.

Forse è per questo che i testi antichi non smettono di parlarci. Non perché siano “attuali” nel senso banale del termine, ma perché sono stati scritti in un tempo verbale che non si lascia seppellire. L’aoristo li ha sottratti all’uso e getta e li ha immessi in una durata lunga, elastica, capace di attraversare i secoli.

E allora, tornare al greco non è mai un gesto archeologico. È un gesto politico nel senso più profondo del termine: significa scegliere un altro regime del tempo. Significa non accettare passivamente l’idea che tutto debba consumarsi, deteriorarsi, essere superato. Significa iscriversi in una temporalità che riconosce valore a ciò che resta, a ciò che ritorna, a ciò che permane anche quando non è più visibile.

In questo senso, l’aoristo è una forma di resistenza. Resistenza contro la dittatura dell’istante, contro l’ossessione della novità, contro il culto del “prossimo”. Resistenza contro la retorica della produttività che pretende di misurare tutto in termini di risultato immediato. L’aoristo parla una lingua che non è quella del profitto, ma quella della risonanza.

E forse è per questo che studiare il greco oggi appare così inutilmente scandaloso. Perché è uno degli ultimi luoghi in cui il tempo non è ridotto a funzione. È uno degli ultimi spazi in cui l’esperienza non è immediatamente sottoposta al giudizio dell’efficienza. È uno dei pochi luoghi in cui un gesto può valere per ciò che è, e non per ciò che produce.

Il presente, visto dall’aoristo, non è più una scheggia che vola via. Diventa un campo di stratificazione. Ogni istante contiene altri istanti. Ogni gesto porta con sé una memoria e un’anticipazione. La distinzione netta tra passato, presente e futuro comincia a sfaldarsi. Non perché spariscano, ma perché smettono di essere compartimenti stagni. Il tempo diventa poroso.

E in questa porosità si annida anche il desiderio. Il desiderio, infatti, non appartiene mai completamente al presente. È sempre abitato da ciò che è stato e da ciò che non è ancora. È una forza che tira indietro e in avanti insieme. Anche il desiderio è aoristico: non si lascia collocare. Non sta. Scorre.

Forse, allora, il vero insegnamento dell’aoristo è questo: che la vita non è una serie di “ora” che si divorano a vicenda, ma una trama di presenze che si richiamano. Nulla accade una volta sola. Nulla si chiude davvero. Anche ciò che crediamo perduto continua ad agire sotto altre forme.

Ed è per questo che l’eternità, nei greci, non è un altrove metafisico. Non è un cielo dopo la morte. È una qualità dell’attenzione. È un modo di stare dentro l’istante senza ridurlo a consumo. Ogni volta che un gesto viene vissuto fino in fondo, ogni volta che una parola viene detta con verità, ogni volta che un incontro ci sposta davvero, lì — in quel punto — si apre una fessura di eternità.

L’aoristo non ci promette salvezza. Non ci offre consolazione facile. Ci chiede qualcosa di più difficile: abitare il tempo senza difenderci troppo. Accettare che ciò che ci tocca non possa essere del tutto archiviato. Rinunciare alla fantasia di essere immuni dalle tracce.

In questo senso, l’aoristo è anche una pedagogia della vulnerabilità. Ci insegna che essere vivi significa essere esposti alla durata. Che ogni cosa che conta ci accompagna più a lungo del previsto. Che non siamo padroni del tempo, ma attraversati da esso.

E allora forse dovremmo smettere di chiedere a cosa “serve” il greco. Dovremmo chiederci piuttosto che cosa ci insegna a non perdere. Ci insegna a non perdere la profondità dell’istante. A non perdere la memoria come forza attiva. A non perdere il legame tra ciò che siamo stati e ciò che, senza saperlo, stiamo ancora diventando.

Perché il tempo, visto dall’aoristo, non è una linea che ci trascina. È un respiro che ci attraversa.

E poi c’è l’identità. Anche l’identità, se la guardiamo da vicino, è un fenomeno aoristico. Noi diciamo “sono”, come se fosse una dichiarazione stabile, una fotografia. Ma ciò che siamo non è mai del tutto presente a se stesso, né definitivamente passato. Siamo fatti di ciò che siamo stati e di ciò che ancora non sappiamo di diventare. Ogni identità è una tensione, una stratificazione, una risonanza. Non esiste un “io” che possa dirsi concluso. Ogni definizione che ci diamo è, in realtà, un fermo immagine provvisorio su un movimento che continua.

Dire “io” è già un atto in aoristo. Non stiamo registrando uno stato; stiamo evocando una continuità. Dentro quell’“io” abitano versioni precedenti di noi stessi, ferite antiche, desideri mai del tutto compiuti, promesse che non ricordiamo più di aver fatto. L’identità è una costellazione di aoristi: eventi che non hanno smesso di produrre effetti. Ed è per questo che conoscerci non significa mai “arrivare” a una verità ultima, ma restare nella possibilità di essere sorpresi da ciò che in noi non è ancora emerso.

In questo senso l’aoristo è l’antidoto più potente contro la fossilizzazione dell’io. Contro l’idea di potersi chiudere in un carattere, in un ruolo, in una maschera stabile. L’aoristo ricorda che nulla è mai interamente definitivo, nemmeno ciò che crediamo più radicato. Anche le convinzioni più solide possono incrinarsi. Anche le ferite più profonde possono mutare forma. Anche le fedeltà più ardenti possono attraversare metamorfosi inattese. L’aoristo è la grammatica segreta del mutamento che non fa rumore.

E poi c’è il corpo. Il corpo è, forse, il luogo più tragicamente moderno in cui l’aoristo viene continuamente tradito. Il corpo, nella nostra cultura, è costretto a stare sempre e solo al presente: deve funzionare, rispondere, performare. Deve essere giovane, efficiente, reattivo. Deve abitare l’istante produttivo. Ma il corpo reale, quello vero, è un archivio di aoristi. Ogni cicatrice è un verbo in aoristo inciso nella carne. Ogni dolore ricorrente è un evento che non ha finito di accadere. Ogni piacere intenso lascia una memoria che il corpo continua a ricordare anche quando la mente vorrebbe dimenticare.

Il corpo non vive nel tempo lineare. Vive nella durata. Un trauma non sta “nel passato”: ritorna, riemerge, impone la sua grammatica. Un amore non sta “nel ricordo”: si presenta nei gesti, nelle esitazioni, nelle reazioni impreviste. Il corpo è un libro scritto in aoristo. Non archivia: continua.

E anche l’invecchiamento, se lo guardiamo bene, non è una semplice successione di decadimenti. È una trasformazione aoristica. Non è il tempo che passa: è il tempo che si deposita. Ogni età contiene le età precedenti. Il bambino non scompare nell’adulto. L’adolescente non muore del tutto nel maturare. Ogni fase resta come una stratigrafia del corpo. Noi non siamo mai soltanto l’età che dichiariamo. Siamo tutte quelle che abbiamo attraversato.

E poi c’è la politica del tempo. Perché il modo in cui una società organizza il proprio tempo non è mai neutro. Chi decide i ritmi, decide anche le possibilità di vita. Una società che impone solo il presente immediato — l’urgenza, l’efficienza, la reazione — è una società che rende impossibile l’aoristo. È una società che espelle la durata, che bandisce la risonanza, che teme tutto ciò che non può essere consumato subito.

Il capitalismo, in fondo, è una gigantesca macchina contro l’aoristo. Trasforma tutto in istante monetizzabile. La memoria diventa archivio morto. L’attesa diventa perdita. La lentezza diventa colpa. L’inattualità diventa scarto. E in questo regime, tutto ciò che non produce subito viene percepito come inutile. Anche il pensiero. Anche la contemplazione. Anche la formazione profonda.

Studiare il greco, oggi, è un gesto che va contro questa macchina. Non perché sia un sapere prestigioso, ma perché è un sapere temporalmente indisciplinato. Non serve a niente di immediato. Non produce risultati misurabili a breve. Non si presta facilmente alla monetizzazione. Ed è proprio per questo che è sovversivo. Perché custodisce una temporalità che non obbedisce al ciclo rapido di produzione e consumo.

L’aoristo, in questo senso, non è solo una forma verbale: è una crepa nel modello dominante del tempo. È la prova che si può dire l’azione senza consegnarla alla fretta. Che si può nominare l’evento senza ucciderlo nell’istante.

E allora forse dobbiamo riconoscere che l’aoristo è una forma di etica. Un’etica della durata. Un’etica della responsabilità verso ciò che persiste. Perché ciò che non finisce di accadere ci rende responsabili più a lungo. Un gesto in aoristo non si cancella con una giustificazione veloce. Continua a lavorare dentro di noi. Un’offesa in aoristo continua a ferire. Un dono in aoristo continua a nutrire.

Nella nostra cultura, invece, cerchiamo continuamente l’assoluzione veloce del tempo. “È passato”. “Ormai è acqua sotto i ponti”. “Non conta più”. Ma il corpo, la psiche, la memoria collettiva sanno che non è vero. Molte cose non smettono di contare solo perché il calendario è andato avanti. L’aoristo è la grammatica che smaschera questa illusione.

E allora torniamo, per un ultimo giro, all’idea di eternità. Non come promessa ultraterrena, non come premio, non come consolazione metafisica. L’eternità, nei greci, è una qualità del modo in cui qualcosa accade. Non è quanto dura, ma come dura. Ciò che è vissuto senza spessore scompare anche se è durato a lungo. Ciò che è vissuto con intensità resta anche se è stato breve.

L’aoristo dice esattamente questo: che un istante può contenere più tempo di un’intera vita sprecata. Che un gesto può essere più duraturo di un’esistenza intera se viene vissuto nella sua necessità. Che un addio può pesare più del futuro che lo segue.

E allora forse dovremmo imparare a vivere meno al perfetto e più all’aoristo. Meno nel tempo della pratica conclusa e più nel tempo dell’evento che continua. Meno nel tempo che archivia e più nel tempo che trattiene. Meno nel tempo che consuma e più nel tempo che trasforma.

Perché ciò che conta davvero — l’amore, il dolore, la conoscenza, la perdita, la scoperta, il desiderio, la fedeltà, il tradimento, il perdono — non ama il passato remoto. Ama l’aoristo. Ama ciò che non si lascia chiudere. Ama ciò che rimane aperto.

E forse, in fondo, tutta la nostra vita non è altro che questo: un lungo aoristo che cerca di imparare a riconoscersi. Non siamo una somma di eventi conclusi. Siamo una vibrazione che non ha ancora imparato a tacere. Siamo un gesto che continua.

E se l’eternità esiste, non è dopo. È qui. È nel modo in cui un istante, a volte, smette di essere soltanto un istante — e diventa una presenza che non finisce.


nota d’autore 

Questo testo nasce da un lento attrito tra lingua e tempo. Non da uno studio in senso accademico, né da un progetto teorico pianificato, ma da una frequentazione ostinata, quasi corporea, con una parola antica – aoristo – che ha continuato a lavorarmi dentro ben oltre la sua definizione grammaticale. All’inizio è stata poco più di una curiosità linguistica, uno di quei dettagli che si incontrano tra le pieghe di una declinazione, in una nota a piè di pagina, durante una traduzione. Poi, quasi senza che me ne accorgessi, quella parola ha cominciato a spostare lo sguardo con cui guardavo il tempo, le mie stesse frasi, il modo in cui nominavo ciò che era stato e ciò che continuava a restare.

A un certo punto ho capito che non stavo più scrivendo “sul” greco, ma a partire da una faglia che il greco aveva aperto nel mio modo di sentire il tempo. L’aoristo non era più soltanto una categoria verbale: era diventato una lente attraverso cui osservare l’amore, il lutto, la memoria, il corpo, l’identità. Una lente che non si lasciava usare senza conseguenze, perché ogni volta che cercavo di “applicarla”, qualcosa dell’esperienza si spostava, si dilatava, resisteva alla semplificazione.

L’aoristo mi ha offerto una possibilità che raramente la lingua contemporanea concede: sottrarmi all’obbligo della chiusura. Viviamo immersi in un sistema di verbi che pretendono sempre un esito, una resa dei conti, un risultato. Tutto deve concludersi, tutto deve essere archiviabile, tutto deve diventare “passato” in fretta per poter essere sostituito. L’aoristo, invece, custodisce l’accadere senza possederlo, lo lascia vivere senza imprigionarlo, lo espone senza archiviarlo. Mi è parso, poco a poco, che non fosse solo una forma linguistica, ma una vera postura esistenziale: un modo di stare nel tempo che non chiede di chiudere, di risolvere, di smettere.

Scrivendo, ho lasciato che il pensiero si muovesse per risonanze, non per dimostrazioni. Non ho cercato di “organizzare” l’aoristo dentro uno schema, ma di farmi attraversare dalle sue implicazioni: come se la lingua stessa imponesse una certa deriva, un certo tipo di lentezza, una certa resistenza alla linearità. Amore, lutto, corpo, identità, scrittura, politica del tempo non diventano, nel testo, capitoli separati, ma zone che si toccano, si contaminano, si rispecchiano. Ho cercato di non compartimentare, perché l’aoristo non compartimenta: attraversa.

Ho inseguito una prosa che non spiegasse soltanto, ma che trattenesse. Che non si limitasse a dire “che cos’è” l’aoristo, ma che ne lasciasse avvertire l’effetto. Una prosa che non dimostrasse, ma che restasse. Che non concludesse, ma che sospendesse. In questo senso, anche il testo stesso aspira a essere aoristico: non chiuso, non definitivo, non pacificato. Non un discorso che si chiude su se stesso, ma un movimento che resta aperto, che accetta di non arrivare a una sintesi risolutiva.

Non ho voluto difendere il greco come disciplina, né salvarlo per nostalgia, né rivendicarne un’utilità nei termini – sempre più angusti – del presente. Mi interessava piuttosto mostrarne la portata sovversiva rispetto al nostro rapporto malato con la velocità, la prestazione, la produttività, l’obsolescenza programmata. L’aoristo, in controluce, diventa una critica silenziosa al tempo che ci governa: un tempo che chiede sempre consumo e mai durata, esposizione e mai sedimentazione, visibilità e mai profondità.

Viviamo in un’epoca che teme tutto ciò che non si esaurisce in fretta. Ciò che resta, ciò che ritorna, ciò che persiste viene percepito come un inciampo. Il lutto deve “passare”, l’amore deve “finire”, la memoria deve “attenuarsi”, il corpo deve “rispondere”. L’aoristo, invece, ci ricorda che alcune cose non passano perché non sono mai state semplicemente “presenti” in senso cronologico: abitano una durata più lunga, una zona meno governabile, un tempo che non coincide con l’agenda.

Scrivendo questo testo mi sono accorto che l’aoristo non era più soltanto un oggetto di riflessione, ma un metodo segreto di ascolto. Ogni volta che tentavo di chiudere un ragionamento troppo in fretta, qualcosa si sottraeva. Ogni volta che tentavo di dare una conclusione definitiva, il discorso si riapriva altrove. È stato necessario imparare una forma di fiducia nella non-conclusione, accettare che il senso non arrivasse come un punto fermo, ma come una vibrazione.

Se questo testo ha un desiderio, è solo questo: offrire al lettore non una teoria sul tempo, ma un’esperienza diversa del tempo mentre legge. Che il tempo della lettura non sia soltanto una sequenza di pagine attraversate, ma una piccola sospensione. Che anche solo per qualche pagina l’istante smetta di scorrere come una moneta spesa e cominci a restare come una traccia. Non un sapere da portarsi via, ma una risonanza da abitare.

In fondo, anche questa nota d’autore condivide la stessa fragilità del testo che accompagna: non vuole spiegare tutto, non vuole dire l’ultima parola, non vuole chiudere il discorso nel recinto dell’intenzione. Preferisce restare sul bordo, là dove il senso non è ancora del tutto deciso. Se anche solo una frase riuscirà a restare in qualcuno più a lungo del tempo necessario a leggerla, allora l’aoristo — ancora una volta — avrà fatto il suo lavoro discreto, invisibile, ostinato.