Visitare Graphic Japan. Da Hokusai al Manga al Museo Civico Archeologico di Bologna significa immergersi in una geografia del segno che ha attraversato secoli, rivoluzioni estetiche, mutamenti politici, perfino discontinuità culturali talmente profonde da apparire, a posteriori, come veri terremoti dello sguardo. La mostra, già nelle prime sale, si presenta come un organismo vivo, flessibile, articolato in movimenti che non sono semplici tappe cronologiche ma metamorfosi, vibrazioni che conducono il visitatore da un’idea di immagine come pura contemplazione a un’idea di immagine come strumento sociale, linguaggio popolare, meccanismo narrativo e, infine, interfaccia globale.
Il fulcro dell’esposizione è la linea. Una linea che non delimita: inaugura. Una linea che non chiude le forme: le apre. Una linea che, nella cultura giapponese, non è mai stata soltanto un tratto grafico, ma un respiro, un colpo di vento, un modo di incarnare l’energia vitale del mondo. Per questo l’ingresso nella sezione dedicata all’ukiyoe è una sorta di varco mentale. Il visitatore non si trova davanti solo alle celebri visioni di Hokusai o Hiroshige, ma a un’intera filosofia estetica costruita su una percezione dinamica della realtà. Le stampe, con i loro colori tenui o vibranti, con l’essenzialità calibrata dei contorni, non offrono semplicemente “il mondo fluttuante”: lo rendono percepibile come condizione esistenziale.
È sorprendente come, in un contesto oggi dominato dall'immagine digitale, le ukiyoe risuonino ancora con tanta freschezza. Le figure femminili sospese nei gesti minimi, le vedute colte nell’istante che precede il cambiamento atmosferico, la maestria nel rendere l’acqua come una sinfonia di curve e spume: tutto questo conserva una forza che non ha bisogno di tempo. Hokusai, in particolare, emerge come una sorta di atlante umano e naturale, capace di unire l’osservazione più minuta alla visione più visionaria. Ma la mostra evita saggiamente di trasformarlo in un monolite, e lo colloca in una costellazione di artisti che concorrono a creare un sistema di immagini condiviso, moltiplicato dalle stampe, programmato per circolare.
L’ukiyoe come pratica popolare – e non come arte isolata – è una chiave interpretativa importante. La stampa giapponese nasce dal desiderio di moltiplicare l’immagine, di distribuirla, di farne parte del quotidiano. Ogni foglio è una soglia tra classi sociali, una democratizzazione della bellezza, un’anticipazione delle culture visuali di massa. La mostra insiste su questo punto: l’idea di “grafica” non è un’invenzione moderna, ma una vocazione antica del Giappone.
Il passaggio alla stagione Meiji introduce un altro ritmo, più brusco, più frastagliato. Le arti grafiche si trasformano sotto la spinta dell’industrializzazione e dell’apertura all’Occidente. Si entra nel dominio dell’oggetto, della superficie, del materiale. Ed è qui che il percorso espositivo sorprende, perché invece di presentare il design come un epilogo moderno, lo colloca al centro di una metamorfosi culturale. I tessuti decorati, le ceramiche con motivi seriali, le incisioni su metallo, i katagami per la tintura dei tessuti diventano pagine di un libro enorme scritto con una pluralità di tecniche.
Il visitatore percepisce quanto questa transizione sia stata, per il Giappone, non un trauma ma una trasformazione attiva. L’adozione di metodi produttivi occidentali non si traduce nella perdita della tradizione: al contrario, produce nuove sintesi. La curva arabescata di un motivo decorativo del primo Novecento contiene ancora la delicatezza dei maestri Edo; la geometria di un pattern industriale conserva l’eco dei ventagli e delle onde stilizzate dei secoli precedenti. Nulla si perde, tutto si riorganizza.
La sezione dedicata ai manifesti Art Nouveau e Art Déco rivela il Giappone come un laboratorio internazionale. La grafica pubblicitaria dell’epoca non si limita ad assimilare modelli europei, ma li riplasma secondo logiche proprie. Il tratto sinuoso diventa più essenziale, i colori si dispongono in pianure visive, la figura umana assume una postura quasi teatrale, sospesa tra eleganza e astrazione. Alcuni manifesti, straordinariamente moderni, sembrano anticipare l’estetica del minimalismo grafico del secondo Novecento, come se il Giappone avesse intuito – molto prima di altri – che la potenza dell’immagine nasce dalla sottrazione controllata.
Nel Novecento inoltrato la grafica giapponese rivela la sua vocazione più dirompente: diventare sistema narrativo. Qui la mostra compie una scelta curatoriale di rilevanza cruciale: il manga non è presentato come un genere pop separato dalle tradizioni precedenti, ma come la naturale continuazione del flusso grafico che attraversa i secoli. È un punto perfettamente plausibile: il manga eredita dall’ukiyoe l’ossessione per il gesto congelato nell’istante, la forza emotiva del tratto, la composizione che si legge come un ritmo. E allo stesso tempo erede della stagione Meiji, della grafica applicata, dell’uso della linea come funzione sociale.
Vedere le tavole originali accanto alle opere storiche permette di cogliere un fatto spesso trascurato: la modernità del manga non sta nei grandi occhi o nei dinamismi esagerati, ma nella capacità di trasformare l’immagine in linguaggio. Il manga è scrittura visiva. È racconto che scorre in verticale e in orizzontale. È architettura del ritmo. È, in modo estremamente giapponese, un sistema che accoglie il quotidiano e lo trasforma in mitologia.
La mostra riesce anche a suggerire quanto il manga sia stato decisivo nel rinnovare la cultura visuale globale. Dagli anni Settanta in poi l’immaginario giapponese inizia a diffondersi in tutto il mondo: prima lentamente, poi con un’accelerazione vertiginosa. È un processo che ha modificato profondamente la percezione dell'immagine nelle generazioni contemporanee. Persino chi non ha mai letto un manga riconosce quella specifica grammatica del gesto, dell’emozione, del ritmo. La linea giapponese è diventata un fenomeno planetario.
Nelle ultime sale, dedicate alla grafica contemporanea, si percepisce chiaramente come il Giappone non abbia mai vissuto la modernità come una rottura, ma come un continuum. Artisti e designer contemporanei lavorano con la linea come se fosse una materia in perenne mutazione. L’illustrazione convive con l’animazione, il design con la pubblicità, la tradizione con l’innovazione digitale. Ci sono opere che sembrano evocare antichi motivi decorativi pur essendo completamente immerse nel linguaggio del XXI secolo. È come se il Giappone avesse sviluppato una capacità unica di rendere attuale ogni proprio passato.
Uscendo dalla mostra, rimane una sensazione rara: quella di aver attraversato una storia che non si è mai chiusa, un territorio estetico che continua a reinventarsi nel presente. Graphic Japan non illustra semplicemente un percorso: lo mette in moto dentro chi guarda. Mostra come l’immagine sia, per il Giappone, una forma di vita più che un linguaggio. E lascia nel visitatore la percezione che ciò che vediamo oggi – nei manga, nelle interfacce digitali, nei pattern grafici contemporanei – non sia altro che un nuovo capitolo di una storia lunghissima, fatta di trasformazioni che non cancellano, ma sedimentano.
È questa la forza dell’esposizione: ricostruire la genealogia complessa di una tradizione che ha saputo attraversare secoli e rivoluzioni senza mai perdere la propria voce. Una voce che continua a parlare anche quando sembra tacere. Una voce che, oggi più che mai, risuona nel modo in cui disegniamo, guardiamo, leggiamo, percepiamo il mondo.