(La prima stesura apparve, per diretto interessamento di Ubaldo Giacomucci, nella rivista Tracce, trimestrale di scrittura multimediale, anno V, luglio/agosto 1986. Qui se ne presenta una versione molto diversa, perché ciò che un tempo era impulso oggi è eco, e l’eco stessa chiede di essere riscritta. Le parole si sono spostate come sabbia, i corpi si sono piegati, e il respiro, che allora era un colpo breve, ora è un lento avvicinarsi. Così è giusto.)
MINIME ANIME
Che il di fuori s’ascoltasse, rovesciato, come se venisse da dentro il corpo, non dal mondo. Come se l’aria stessa fosse una pelle, e il respiro, spingendola, producesse un viso, un volto che s’impone, violento, eppure supplice, tremante di bisogno. Tutto ciò che è fuori pare premere per entrare, e ogni cosa che sta dentro cerca un varco, una fenditura, per uscire — come un segreto che non sa più restare segreto, come un fluido che non tollera più il contenimento.
E allora il di fuori s’ascolta come una voce che non ha bocca, come un’onda di ritorno. Il mondo preme, il corpo risponde. E nel mezzo, tra il colpo e l’eco, resta la pelle, l’unico confine che ancora tiene.
Ma poiché c’è, questa tua faccia, e io la ricordo — e la ricordo come si ricordano le ferite: non per dolore, ma per precisione. C’è, la tua faccia, su cui venire, su cui posarsi, come una mappa da leggere col tatto. Fino in fondo, fino a perdere la distinzione fra dentro e fuori. Fino alla fine del corpo e al principio del respiro.
In duplice enunciato orgasmico — il primo di carne, il secondo di memoria — quasi a rivivere in un’ondulazione di spasmi che non finisce mai del tutto, ma si ripete, con piccole variazioni, come una frase che non trova mai il punto.
Tu dici: la fine dei tre giorni insieme. Dici “diverso”, dici “meno presente”, ma il corpo non sa che farsene delle parole. Il corpo ricorda, e si solleva da solo, senza che lo si chiami. È un gesto, non un pensiero: un gesto che sopravvive al tempo, come un fiore che cresce nella crepa del muro.
È un gesto, ormai, leggere i tuoi occhi. Li leggo come si leggono i sogni al mattino, quando la mente è ancora impastata di immagini. In quegli occhi il tempo si piega: ci siamo stati, e ci siamo ancora.
Noi eravamo, e si vede che è così. Eravamo qui, tra le stoffe, dentro il colore, per colmare ciò che non era stato detto, per rimediare a quel vuoto che non si colma mai. Le mani cercavano un significato nella superficie dei tessuti, nelle pieghe che custodiscono ancora il calore delle dita.
E dell’aria sussiste qualcosa — un’orma, un principio di forma, un riflesso che non ha più un volto, ma che continua a essere, come se la sostanza stessa della memoria fosse aria condensata.
Qualcosa resta sempre, anche dopo che tutto è finito: i frammenti di sbieco, i tagli di luce che sfuggono alla vista diretta, le briciole di tempo che non si lasciano raccogliere. Restano discosti da un riflesso, come suoni spostati di poco, e proprio per questo più veri.
È difficile, adesso, risalire. La mente scivola, quasi agitata, come se non volesse ricordare del tutto. L’immagine non è ferma, si sfalda. Era senza questo presente, quel tempo là, e il presente, ora, non è che un bordo: una linea che delimita, ma non possiede.
C’era un ritmo, allora — uno scorrere del tempo che tornava da uno scambio, si interrompeva, poi riprendeva con un suono più basso. S’era interrotto, sì, ma ripiegava ogni volta su se stesso, e in quel ripiegarsi lasciava una traccia, una registrazione non proprio ogni volta uguale, ma riconoscibile. Ogni eco portava con sé un po’ del primo suono.
Non più precisi di così, ero io. Restavo, come si resta in un sogno anche dopo il risveglio. Perché vengono, gli altri, le immagini, le presenze. Vengono e si accumulano. Questo è accumularsi, dilatarsi, come una marea che non cessa, e ogni volta trova nuove rive.
L’insieme di tutte le cose non vien detto qui — non può — ma si sente. Lo trovo oggi sull’orlo coricato, tra un respiro e l’altro, tra la pelle e la sua ombra.
Voi, in piedi, di fianco, dentro l’operazione. Io, altrove, come se fossi fuori dal fotogramma. Non io in quel numero, ma la mia assenza, che pure pesa. La torsione era dunque l’eco — e nell’eco, la carne.
Istantaneamente: profondità. O meglio, la carne che si fa profondità, che si piega e risponde, quale era scritto. Come se il muro, là, non potesse ricevere altro colore se non quello del sudore. E allora il colore diventa tempo, e il sudore diventa luce, e la superficie non è più separata dal corpo che la tocca.
Così, il punto e gli occhi — una forma che copre e, nel coprire, rivela. La testa si solleva, lentamente, come richiamata dal fondo stesso della stanza. Questo richiamo — la bocca di qualcuno al seme, alla saliva, alla sillaba che si perde — è l’episodio che non avrebbe reso il rosso, eppure lo trattiene.
Il cielo riflesso nel quadro, strappato, terroso, dalla parte giusta, che è poi la stessa che indicano tutti, anche quando non sanno dove guardare.
Al momento, in questo recesso, che è un momento di noi, gridando alla gola, venivamo. E non c’era bisogno di parole, perché ogni cosa era già detta nel ritmo del respiro, nel battito che si alzava e ricadeva. Il tempo non scorreva: si tendeva, restava teso, come una corda tra due corpi.
S’apriva, così, a darci, in rilievo remoto. Come una visione che si stacca, si mette a distanza e poi ritorna, lenta, a farsi corpo.
Nel rilievo, la materia si muove. Le vene del marmo diventano vene vere, il sangue immaginato torna a pulsare. E noi, minime anime, continuiamo a scambiarci un alito, una direzione, un tremore.
Ed è forse questo il senso — non la fine, ma il continuare, l’essere ancora dentro un suono che non smette, in una curva che ci riporta sempre qui.
Minime, sì, ma non vane: anime che restano a vibrare nel silenzio successivo, dove tutto è già avvenuto, e tuttavia continua.
E allora si torna — non per nostalgia, ma per giustizia. Perché ciò che è stato merita ancora una voce, un corpo che lo ripeta, un respiro che lo faccia esistere di nuovo.
Il di fuori si rovescia di nuovo, e di nuovo il viso s’ascolta.
È come se la pelle ricordasse ogni tocco, ogni battito, ogni istante in cui si è creduto immortali.
E nella piega di quel ricordo, nell’angolo dove l’occhio non arriva, ci siamo ancora — noi due — sospesi, come ombre che respirano piano, e attendono che la luce si sposti un poco, solo un poco, per poter ritornare visibili.