venerdì 21 novembre 2025

Dietro ogni nome, una stanza diversa. Marijane Meaker tra identità lesbica, pseudonimi e rivoluzione letteraria


Negli scaffali più impolverati delle biblioteche scolastiche e nei ripiani dimenticati delle librerie dell'usato, dormono ancora le parole di Marijane Meaker, scrittrice dalle mille vite letterarie, che ha attraversato i generi come si cambia costume in un cabaret di identità. Nata il 27 maggio 1927 a Auburn, New York, e scomparsa il 21 novembre 2022 nella quiete di Springs, negli Hamptons, Meaker è stata una figura letteraria proteiforme, camaleontica, e per certi versi ancora oggi inafferrabile. Come una spia del desiderio, ha abitato i territori più diversi della narrativa americana del secondo Novecento, firmando romanzi, saggi, racconti, memoir, libri per bambini, per adolescenti, per adulti disillusi. Il suo nome – o meglio, i suoi nomi – hanno attraversato decenni e scaffali, cambiando pelle a ogni svolta della storia culturale americana, in un tentativo costante di dialogare con il mondo, ma anche di proteggersi da esso.

Non è un caso che abbia scelto così tanti pseudonimi. Ognuno di essi era un personaggio, una voce, una maschera e un rifugio. Come Vin Packer, fu autrice di oltre venti romanzi gialli tra il 1952 e il 1969, tra cui il seminale Spring Fire – una storia di passione tra due studentesse universitarie, che esplose nel cuore di un’America ancora repressa e moralista. La narrazione ambigua e tragica dell’amore tra le protagoniste aprì la strada a un’intera sottocultura di romanzi pulp a tematica lesbica, anche se, come Meaker stessa ammise, molti suoi libri firmati Packer parlavano ben poco di identità queer. Il romanzo venne pubblicato con finali mutilati, censurati, talvolta del tutto ribaltati, perché non si poteva ancora parlare apertamente d’amore tra donne, e tantomeno celebrarlo. Ma bastava poco, un sottotesto, un abbraccio, una parola detta in un certo modo, per incendiare l’immaginazione delle lettrici. E quelle parole, pubblicate quasi clandestinamente, finirono per costruire una comunità.

Quando Meaker divenne Ann Aldrich, la narrazione cambiò tono e forma. Dal 1955 fino al 1972 scrisse libri ibridi tra saggio, cronaca, confessione e pamphlet, come fossero cartoline sociologiche da un mondo sommerso. Si mise in ascolto dei bar, dei club, delle confidenze rubate tra donne, delle lettere ricevute dalle lettrici. In titoli come We Walk Alone e We Too Must Love, fece il punto sulla condizione lesbica negli Stati Uniti della Guerra Fredda. Ma non lo fece mai con autocompiacimento, né con l’intento di redigere un manifesto. I suoi scritti erano spesso feroci, ironici, malinconici. Ritraevano donne che cercavano uno spazio dove essere sé stesse, costrette spesso a vivere nell’ombra o a piegarsi a un’esistenza fittizia. Meaker non si tirava indietro davanti alle contraddizioni: ammise pubblicamente che anche lei, da giovane, aveva fatto ciò che ci si aspettava. Usciva con uomini, uno in particolare – un militare gentile, premuroso – che le piaceva, sì, ma solo come si può apprezzare un quadro, o una persona lontana. “Mi comportavo come tutti gli altri”, disse, “giocavo il gioco”.

Uno dei capitoli più intimi e controversi della sua vita fu la relazione con la scrittrice Patricia Highsmith, durata due anni intensi e, come ogni cosa che brucia troppo, destinati a spegnersi tra silenzi e ferite. Ne scrisse nel memoir Highsmith: A Romance of the 1950s, uscito nel 2003, che scatenò reazioni opposte: chi lo accolse come una confessione necessaria, e chi lo lesse come un tradimento tardivo. Ma Meaker fu chiara: voleva restituire un volto più umano a una donna ormai cristallizzata nell’icona della misantropa. “Ho conosciuto Pat prima che diventasse quella figura spettrale che oggi vediamo ovunque online. Quando era ancora affamata di vita, meno intrattabile, meno affondata nel suo stesso giudizio. Quella Pat – la Pat che rideva – l’ho vista solo allora.”

Con un’altra metamorfosi radicale, nel 1972, Meaker scelse di diventare M.E. Kerr. Iniziò così la sua stagione più popolare, quella dei romanzi per young adult. Scrivere per adolescenti – o forse sarebbe meglio dire scrivere da adolescente a se stessa – diventò una missione. Nei suoi libri, gli adolescenti non erano mai solo ragazzi confusi o romantici, ma individui già attraversati da contraddizioni, ferite, desideri indicibili. Le sue storie – come Dinky Hocker Shoots Smack, Deliver Us from Evie, I'll Love You When You're More Like Me – sfidavano l’idea di una crescita lineare, pacificata. Voleva mostrare che anche l’adolescenza era un campo di battaglia, un luogo in cui si poteva fallire, tradire, reinventarsi. “Scrivo per quella me che avrebbe voluto leggere qualcosa di diverso,” disse. “Qualcosa che non finisse sempre bene, qualcosa che non parlasse solo di vittorie.”

Nonostante il successo, i premi (tra cui l’ALA Margaret A. Edwards Award per l’intera carriera), gli articoli entusiasti – il New York Times Book Review la definì “una delle grandi maestre della narrativa young adult” – Meaker non smise mai di essere anche Mary James, scrivendo libri per bambini, né di firmare articoli, insegnare, raccontare. Negli ultimi anni della sua vita, si stabilì a East Hampton, dove divenne un punto di riferimento per i giovani scrittori del laboratorio Ashawagh Hall. La sua dedizione alla scrittura come pratica viva, fisica, necessaria, trovò espressione anche nel libro Blood on the Forehead: What I Know About Writing, in cui raccontò con tono diretto e senza pose accademiche cosa significa mettersi in gioco ogni giorno con la parola. Scrivere, per lei, era sangue sulla fronte: non un dono, ma uno sforzo, una lotta.

Marijane Meaker è morta il 21 novembre 2022, a 95 anni, nella stessa casa dove per anni aveva cucinato, corretto bozze, ricordato. È morta come ha vissuto: in silenzio, senza clamore, ma lasciando dietro di sé una rete fittissima di voci, identità, pseudonimi, sguardi che ancora ci interpellano. In fondo, ogni libro che ha scritto è stato un modo per esistere senza chiedere permesso. Un modo per dire che si può essere tutto, senza mai essere davvero incasellati. Un modo per non smettere di cercarsi, di raccontarsi – anche sotto falso nome.