Si distacca dagli altri, come una figura isolata e remota, scivola lontano dal clamore, dalla smania di quei nomi gridati al cielo, di quegli esseri che s’affannano per le strade, per le vie lacerate di un mondo che non ascolta. Loro, anime inquiete, implorano che il proprio nome risuoni, cercando una misera eternità, un’identità appesa al filo del nulla. Ma egli, il diverso, non sa più a cosa corrisponda il nome che un tempo gli apparteneva, e non ne ha bisogno.
È privo di appartenenza. Si porta dietro un’inquietudine sorda, e uno sguardo che non si posa sul mondo ma si addentra, curioso e sfiduciato, nei giardini della sua mente, in quei luoghi mai sfiorati dalla realtà, spazi anonimi e silenti. È lì che trova il proprio esilio, in mezzo alle viole sparse, fragili e senza identità come lui, che giacciono nell’ombra, intatte e, insieme, già disperse, come se in quel luogo intimo, inviolato, persino il ricordo delle cose non potesse durare, tutto destinato a svanire.
Egli resta, senza nome, senza scopo, una presenza muta; una voce silenziosa che sfugge, appena udibile, appena sua, che s'affaccia per un istante nel buio della sera. E si consuma nella stanchezza di quell’ora, nell’impossibilità di raggiungere la casa che intravede all’orizzonte, lontana, come un sogno, una promessa spezzata. Intorno, il mondo intero sembra sbeffeggiarlo, e ogni cosa — un sussurro, un’ombra, una finestra illuminata — diventa parte di una crudele pantomima, uno scherzo di cui egli è l’unica vittima.
E tutto sembra rivelarsi per quel che è, illusione, beffa, un’esistenza che gli sfugge dalle mani e lo lascia esanime, estraneo e distante, come un’idea vaga e inattingibile. Ma la verità, alla fine, non esiste; è un miraggio, un gioco che si consuma nella notte.