sabato 22 novembre 2025

A Palazzo Madama per incontrare Emilio Vedova e Jacopo Tintoretto


Entrare a Palazzo Madama per incontrare Emilio Vedova e Jacopo Tintoretto significa attraversare un campo di forze. Non un dialogo tranquillo, non una citazione rispettosa: un corpo a corpo. La mostra torinese non si limita a mettere due nomi l’uno accanto all’altro, ma apre un abisso, una ferita temporale che si fa tensione luminosa. Vedova e Tintoretto sono due punti di esplosione della pittura veneziana, separati da quattro secoli ma uniti da una stessa febbre: quella del gesto, del rischio, della luce come materia e del caos come struttura.

È raro che un museo italiano osi una simile collisione: il Rinascimento e l’Informale, la tela come racconto sacro e la tela come detonazione politica. Ma è proprio in questa sfida, e nel modo in cui la mostra la costruisce, che risiede la sua necessità. Perché parlare oggi di Vedova e Tintoretto significa parlare di pittura come forma di pensiero, come atto di resistenza contro la serialità, contro l’addomesticamento dell’immagine e contro la retorica museale che tende a ridurre l’arte a un oggetto decorativo.

Tintoretto, con i suoi vortici di luce e il suo disprezzo per la misura classica, è stato l’eretico del Rinascimento veneziano. Vedova, con la sua pittura gestuale e convulsa, l’eretico del dopoguerra italiano. Entrambi hanno rifiutato la forma compiuta, entrambi hanno concepito la pittura come un evento in divenire, un urto tra corpo e spazio. In questo senso, il loro incontro non è un espediente curatoriale ma una necessità storica: due artisti che hanno reagito con violenza al proprio tempo, ribellandosi alla fissità dell’immagine per restituirle vita, rischio, carne.

Il titolo della mostra – In dialogo – potrebbe trarre in inganno. Non si tratta di un dialogo, ma di un’attraversamento reciproco, un contagio. Il gesto di Vedova, che lacera la superficie, sembra rispondere alla torsione tintorettesca dei corpi e delle prospettive. La loro è una continuità nella dismisura, nella crisi del linguaggio pittorico come linguaggio ordinato. E proprio in questo risiede la loro attualità: nell’impossibilità di separare la pittura dall’esperienza umana, dal suo precipitare nella storia.

L’allestimento torinese, nel monumentale Palazzo Madama, non cerca una neutralità museografica. Anzi, espone la tensione tra le epoche come si esporrebbe una ferita. Il Rinascimento non è qui contemplato, ma scosso; l’Informale non è storicizzato, ma riattivato. Il risultato non è un omaggio, ma una sfida: la pittura di Vedova che parla alla luce tagliente di Tintoretto come se fosse ancora possibile, ancora necessario, il gesto che rompe ogni misura e ogni convenzione.

Vedova non “guarda” Tintoretto: lo attraversa. E Tintoretto, dal suo abisso seicentesco, sembra rispondere con la stessa furia. In questa dialettica, l’idea stessa di pittura si rinnova: non più rappresentazione, ma processo; non più superficie, ma campo di forze. Ed è questo che fa della mostra un evento non solo estetico, ma ideologico: una riflessione sul gesto come urgenza, come linguaggio che non si lascia addomesticare né dal tempo né dal mercato.

Il gesto, per entrambi, è una forma di sopravvivenza. In Vedova non è un segno, ma una scossa; in Tintoretto, non è una pennellata ma una vertigine prospettica. L’uno lavora contro la superficie, l’altro contro la composizione; eppure entrambi mirano alla stessa cosa: liberare la pittura dal suo sonno, strapparla alla compostezza, farle dire l’indicibile.

Quando Vedova parla della pittura come di uno spazio di accadimenti, intende proprio questo: la tela non come luogo di rappresentazione, ma come campo di energia, dove la materia reagisce, vibra, si ribella. Anche Tintoretto, quattro secoli prima, aveva inteso la pittura come uno spazio non concluso, dove la luce non descrive ma ferisce, dove la figura umana non posa ma precipita. Entrambi concepiscono la pittura come un evento fisico, teatrale, drammatico, e perciò profondamente umano.

La modernità di Tintoretto consiste nell’avere concepito il quadro come un organismo instabile, attraversato da linee di fuga, da prospettive che non conducono a un ordine ma a una tensione. È un artista del disordine e della luce, del rischio e della deformazione: la sua pittura non vuole essere verità, ma esperienza. In questo senso è il primo pittore “espressionista” d’Europa, nel senso più ampio e filosofico del termine.

Vedova eredita questa urgenza e la porta nel secolo della guerra, della ricostruzione, della crisi del linguaggio. Il suo gesto non rappresenta il mondo: lo combatte. È un linguaggio che si genera nella negazione, nella resistenza. Ogni tela di Vedova è una battaglia tra luce e oscurità, tra il pensiero e il corpo, tra la storia e il caos. E in questa battaglia vibra ancora l’eco di Tintoretto, del suo sguardo che scava nella carne dei personaggi, del suo uso drammatico della luce come strappo metafisico.

È per questo che il loro incontro non è solo cronologico o formale, ma ontologico. Entrambi hanno trasformato il quadro in un teatro del corpo. In Tintoretto, il corpo è piegato dalla rivelazione, trascinato nel vortice della luce divina. In Vedova, il corpo scompare ma resta il suo movimento, la sua energia dispersa nel gesto. Entrambi lavorano sul limite: la pittura come corpo che si disfa, che implode nel proprio stesso movimento.

Ma non è solo una questione di espressività: è una visione politica. Perché in entrambi il gesto coincide con la libertà. Tintoretto sfida le regole del decoro e della prospettiva rinascimentale per affermare una libertà interiore, una visione mistica ma inquieta dell’uomo. Vedova, nel suo secolo, trasforma il gesto in un atto di rivolta contro il conformismo estetico e sociale.
Il gesto è il luogo della disobbedienza. In entrambi è l’elemento che rompe l’ordine del potere – che sia quello della Chiesa veneziana del Cinquecento o quello della società borghese del dopoguerra.

L’allestimento della mostra, volutamente non didascalico, sembra restituire proprio questa idea del gesto come urgenza e come crisi. Non c’è continuità rassicurante, ma un dialogo di scontri, di rifrazioni. La verticalità dello spazio museale, con le sue luci che salgono e precipitano, accentua questa sensazione: lo spettatore non contempla, ma partecipa. È risucchiato dentro un confronto tra tempi e linguaggi che non cercano conciliazione, ma memoria e tensione.

In questo senso, Vedova e Tintoretto diventano i poli di una stessa necessità storica: il rifiuto della pittura come rappresentazione e la sua rifondazione come esperienza. Due secoli diversi, un’unica esigenza: restituire alla pittura il diritto di essere gesto, urto, rischio.

In Tintoretto la luce non è mai pura. È violenta, diseguale, scissa. Non rischiara: rivela ferendo. Ogni suo fascio di luce sembra tagliare la tela come un colpo di spada, aprendo nello spazio una dimensione non più umana ma teatrale, in cui il corpo diventa epifania e dissoluzione insieme. Non c’è una logica della chiarezza: la luce tintorettesca è un trauma, un evento che abbatte ogni simmetria. È il principio stesso della modernità visiva, che nasce quando la pittura smette di essere equilibrio per farsi tensione.

Vedova eredita questo trauma, lo internalizza e lo traduce nella sua epoca di rovine. Anche la sua luce, se di luce si può parlare, non illumina mai del tutto. È un bagliore interrotto, un lampo che fende la materia nera, la stratificazione di segni e impasti che costituisce la superficie delle sue tele. Non una rivelazione, ma un’implosione: il momento in cui il mondo brucia, non per mostrarsi ma per distruggersi.
In entrambi, la luce è l’elemento del rischio: ciò che introduce il disordine, ciò che apre la visione all’imprevedibile. E in entrambi essa si lega a una dimensione spirituale che non ha nulla di consolatorio.

Tintoretto non celebra la luce divina; la evoca nel suo farsi e disfarsi, nell’impossibilità di sostenerla. La sua pittura non parla di salvezza, ma del limite della visione umana di fronte al divino. La luce è abbaglio, non certezza. È l’impossibilità di contenere il mistero.
Vedova, a sua volta, rifiuta ogni luce “esterna”. La sua è una luce che nasce dal gesto, che scaturisce dalla materia stessa del colore, come una combustione interiore. È una luce politica perché non scende dall’alto: esplode dal basso, dal corpo, dalla storia. È la luce del sopravvissuto, del testimone, dell’uomo che cerca nel buio una via per dire ancora qualcosa.

Ecco perché il dialogo tra i due non è solo formale, ma esistenziale. La luce, in entrambi, non è un attributo tecnico, ma una metafora del destino umano. In Tintoretto, è la distanza tra l’uomo e Dio; in Vedova, tra l’uomo e la Storia.
L’uno affronta il mistero del divino come abisso, l’altro quello del tempo moderno come catastrofe. Ma in entrambi il gesto pittorico diventa un atto di fede nel visibile, una scommessa sul fatto che, nonostante tutto, la materia possa ancora farsi visione.

Questo aspetto, a Palazzo Madama, si percepisce più che si vede. La luce che attraversa lo spazio espositivo non serve a illuminare le opere: serve a metterle in crisi. Gli angoli d’ombra, i riflessi, le inclinazioni imprevedibili della sala torinese restituiscono un senso di instabilità che è pienamente coerente con l’essenza dei due artisti. Non si tratta di un allestimento neutro, ma di una drammaturgia: lo spazio stesso diventa un attore, un elemento che partecipa al conflitto.

Eppure, ciò che colpisce non è la somiglianza visiva, ma la comunanza di tensione. La luce, per entrambi, è l’elemento del dubbio, non della certezza. È il linguaggio della crisi. Ed è in questo che Tintoretto e Vedova si parlano davvero: non attraverso lo stile, ma attraverso l’inquietudine.

Vedova aveva intuito che ogni pittura veramente viva è una lotta contro l’oscurità. Ma non contro il buio del mondo — contro quello dell’anima. E Tintoretto, a modo suo, aveva già posto quella stessa domanda: come rappresentare ciò che non si può rappresentare, come rendere visibile l’invisibile?
Forse è per questo che i due sembrano riconoscersi oltre il tempo: perché entrambi hanno creduto che il compito dell’arte non fosse spiegare il mondo, ma attraversarlo.

Ogni pittura autentica nasce da una sfida con il tempo. In Tintoretto e in Vedova questa sfida si trasforma in un principio costruttivo, quasi fisico: il tempo non è lo sfondo dell’opera, ma la sua sostanza. Entrambi concepiscono la pittura come un organismo che muta, che si consuma mentre si compie, e che nell’atto stesso di nascere già porta in sé il proprio dissolversi.

In Tintoretto il tempo è vortice. È la spirale invisibile che trascina i corpi, li deforma, li sospinge oltre la scena. Ogni suo quadro è un istante che implode, un fotogramma di una rivelazione che non può essere fissata. Non c’è mai quiete: la luce e i gesti dei personaggi ruotano come mossi da un vento che non appartiene alla terra. È un tempo teologico e teatrale, che sfugge al calendario per entrare nella dimensione dell’attimo eterno — quella del miracolo, o della caduta.
In Vedova, il tempo si secolarizza: diventa storia, memoria, ferita. È il tempo del dopoguerra, della città distrutta, del corpo collettivo in cerca di ricomposizione. Ma anche qui non si tratta di un tempo lineare. La pittura di Vedova vive di stratificazioni, di accumuli, di cancellazioni. Ogni gesto nega il precedente e al tempo stesso lo conserva, come una cicatrice. La tela non è mai finita: è un palinsesto di tracce, un archivio di tentativi falliti e rinascite.

Tintoretto anticipa la modernità nel momento in cui mette in scena il tempo come conflitto. Vedova la compie portando quel conflitto nel cuore della contemporaneità. Entrambi comprendono che la pittura non può più essere la memoria del tempo, ma il suo corpo vivente.
Ecco perché il loro incontro, in questa mostra, ha un valore simbolico profondo: rappresenta il ritorno del tempo nella pittura, dopo decenni di anestesia estetica e concettuale.

Ma in questo conflitto c’è anche un desiderio di sopravvivenza. Vedova, che pure sembra distruggere la forma, in realtà tenta di salvarla dal consumo del mondo moderno: la salva rendendola instabile, instancabile, sempre in fuga. Tintoretto, allo stesso modo, fa sopravvivere la figura umana alla dissoluzione della grazia rinascimentale, non idealizzandola ma gettandola nel caos. In entrambi, l’arte è ciò che resta quando tutto il resto è perduto.

Il tempo, dunque, non è solo un tema, ma una postura etica. È la consapevolezza che ogni gesto pittorico è irripetibile, e che solo attraverso la tensione, il rischio e l’eccesso può continuare a esistere.
Quando Vedova afferma che la pittura è “una situazione in atto”, sembra rispondere direttamente a Tintoretto: anche per lui ogni quadro era un evento in corso, mai definitivo, un’esperienza che sfuggiva alle categorie della bellezza e della misura.

La curatela torinese coglie bene questo punto: non tenta di costruire una genealogia, ma una continuità d’urgenza. Non ci sono filiazioni dirette, ma una linea sotterranea che attraversa la storia dell’arte veneziana come una corrente elettrica: la consapevolezza che dipingere significa combattere con il tempo, non imitarlo.
E in questo senso, l’accostamento di Vedova e Tintoretto non è un gioco museale, ma un atto politico: riaffermare la centralità del gesto, della materia, della durata, in un’epoca che tende a sostituire l’esperienza con l’immagine.

Così, l’intero percorso espositivo diventa una riflessione sulla resistenza del tempo dentro la pittura — un tempo che non si lascia archiviare, ma che continua a parlare, a bruciare, a pretendere presenza.

C’è un aspetto profondamente politico nel dialogo fra Vedova e Tintoretto, e non nel senso contingente o ideologico, ma in quello più radicale, originario: la politica come gesto di esistenza, come scelta di campo nell’arena del visibile. Entrambi, infatti, portano nella pittura la consapevolezza che ogni immagine è un atto di potere, un intervento nel mondo. Non si dipinge mai nel vuoto. Tintoretto si misura con l’autorità religiosa e civile della Serenissima, ma ne sconvolge i canoni visivi con un linguaggio che destabilizza la gerarchia tra cielo e terra, tra divino e umano. Vedova, quattro secoli dopo, dipinge contro la restaurazione delle coscienze e dei linguaggi, contro l’ipocrisia del dopoguerra che voleva la pittura astratta come consolazione formale.

In entrambi, il gesto è una forma di rivolta. La linea non descrive, ferisce. Il colore non abbellisce, aggredisce. È un linguaggio che non si concede al piacere, ma che lo trasfigura in tensione. E qui la mostra assume un significato che travalica ogni didattica curatoriale: diventa un’alleanza fra due forme di urgenza, fra due idee di Venezia che coincidono nella febbre.
Tintoretto, il “furioso” dell’arte rinascimentale, e Vedova, l’artista che fece della pittura un campo di battaglia contro la retorica del progresso, condividono un’identica necessità di rompere, di sporgersi oltre il limite. Entrambi dipingono come se il mondo li bruciasse da dentro.

Ma ciò che più sorprende è come Palazzo Madama riesca, attraverso il confronto, a rimettere in discussione la stessa nozione di modernità. Tintoretto non appare più come un pittore del passato, ma come un contemporaneo anomalo, anticipatore di una sensibilità espressionista ante litteram. Vedova, a sua volta, non è più solo l’artista del trauma novecentesco, ma l’erede di una tensione antica, che lega la pittura veneziana al fuoco e all’acqua, alla spiritualità e alla materia.
L’operazione della mostra non consiste dunque nel “modernizzare” Tintoretto o nel “storificare” Vedova, ma nel mostrare che il gesto, quando è autentico, non conosce tempo. È la stessa mano che continua, attraverso secoli di distanza, a cercare il limite della visione, a incendiare la superficie per liberare ciò che non può essere detto.

E in questo senso, Vedova e Tintoretto si incontrano proprio nell’urgenza del loro gesto. Entrambi dipingono come se non ci fosse un domani, come se la pittura fosse l’ultimo linguaggio possibile. Tintoretto lo fa nell’epoca in cui la pittura è ancora una lingua dominante e pubblica; Vedova lo fa quando la pittura è già un linguaggio morente, quasi accusato di irrilevanza. Ma proprio lì, nella resistenza di entrambi, c’è il loro atto politico: la pittura come sopravvivenza, come ultima voce contro l’entropia del visibile.

A Palazzo Madama questa urgenza non viene ammansita. Non si offre come spettacolo, ma come tensione. La luce delle sale, la scelta dei ritmi, la disposizione spaziale delle opere – tutto suggerisce una domanda più che una risposta: cosa significa oggi dipingere? E soprattutto: cosa significa guardare? La mostra non celebra due maestri, ma interroga lo spettatore, costringendolo a prendere posizione.

Perché il vero punto di contatto fra Tintoretto e Vedova non è la Venezia che li unisce, ma la responsabilità dello sguardo. In entrambi, guardare è un atto che espone, che compromette, che chiede di partecipare. Non c’è distanza contemplativa: c’è urgenza, c’è rischio. Il visitatore, davanti a questo dialogo, non può restare neutro. È chiamato dentro la lotta.

In entrambi, il gesto pittorico non è un mezzo: è un rito. È l’azione attraverso cui la materia si trasfigura e diventa linguaggio dello spirito. Tintoretto e Vedova — due nomi che, messi insieme, sembrerebbero inconciliabili — si scoprono invece uniti da un’identica ossessione: come rendere visibile ciò che si agita dentro la carne della realtà. Non cercano la rappresentazione, ma l’epifania.

Tintoretto, figlio di una Venezia dominata dal potere delle immagini sacre, intuisce che la pittura non può più limitarsi a illustrare la Bibbia: deve ricrearla, riscriverla, incarnarla. I suoi santi non sono più figure ideali ma corpi che precipitano, si contorcono, vengono travolti da una luce che li annienta. È il sacro come esplosione, come crisi della forma.
Vedova eredita questa visione e la trasporta nel secolo delle macerie: il Novecento. Per lui il sacro non è più una trascendenza religiosa, ma un’urgenza etica, un senso di responsabilità verso la storia. La pittura diventa allora una liturgia della sopravvivenza: gesto e materia coincidono, il nero si fa carne, la pennellata un atto di fede nel linguaggio quando tutto sembra crollare.

Questo legame tra gesto e spiritualità è ciò che la mostra a Palazzo Madama riesce a evocare senza mai didascalizzare. Le opere non parlano di fede, ma la mettono in atto. È come se si assiste a due liturgie parallele: quella rinascimentale e quella novecentesca. In entrambe, la pittura è un’esperienza del corpo e del tempo. Tintoretto lavora con la velocità del lampo, con quella furia che gli valse il soprannome di “il fulmine”. Vedova, allo stesso modo, dipinge in trance, nel ritmo della respirazione, lasciando che la tela diventi spazio di collisione fra vita e memoria.

C’è qualcosa di profondamente antropologico in questa urgenza: il gesto, prima ancora di essere arte, è linguaggio originario, traccia dell’essere nel mondo. Tintoretto lo compie per affermare la presenza dell’uomo davanti a Dio; Vedova lo ripete per riaffermare la presenza dell’uomo davanti alla Storia, dopo Auschwitz e Hiroshima. Il loro gesto è lo stesso: una sfida all’oblio.
Ecco perché questo dialogo non è accademico, ma vitale. Non si tratta di confrontare tecniche o poetiche, ma di riconoscere nella pittura un atto di sopravvivenza, un modo per dire: “Siamo ancora qui”.

Vedova, del resto, ha sempre rivendicato la pittura come corpo a corpo con la realtà. Il suo “in continuum” non è solo un titolo, ma una dichiarazione ontologica: la pittura non finisce mai, non si chiude, non diventa mai oggetto. È un flusso, un movimento, un respiro. Lo stesso respiro che anima i grandi teleri tintoretteschi, dove ogni figura sembra attraversata da un’energia centrifuga che la spinge oltre i bordi della tela.
In entrambi, la pittura non rappresenta, ma avviene. È evento, incarnazione, fenomeno. È qualcosa che accade davanti a noi e che ci riguarda.

Forse è proprio questa la lezione più profonda che la mostra di Palazzo Madama suggerisce: la pittura, quando è autentica, non appartiene al passato né al presente. È un organismo che respira nel tempo, che si riattiva ogni volta che qualcuno la guarda. Il gesto di Tintoretto continua a vibrare in quello di Vedova, e il gesto di Vedova, a sua volta, rimette in moto quello di Tintoretto. È un dialogo che non finisce mai, come un’eco che attraversa i secoli.

Entrare nella mostra significa essere catturati dentro un ritmo, più che in un percorso. Non si attraversano semplicemente delle sale, ma una progressione di energie. Palazzo Madama, con la sua architettura stratificata, diventa un corpo: un organismo che respira, che amplifica le tensioni, che le riverbera. Le pareti non sono fondali neutri, ma membrature sensibili, pronte ad accogliere e restituire la vibrazione dei due gesti.
Tintoretto e Vedova, separati da quattro secoli, sembrano dialogare non attraverso il tempo ma attraverso la luce. La mostra diventa così un laboratorio sensoriale, un teatro della pittura dove l’occhio non contempla, ma partecipa.

L’esperienza del visitatore è di immersione e di urto. Da Tintoretto riceve la vertigine barocca dell’invenzione, la spirale che trascina, la luce che schiaccia e libera; da Vedova, il respiro corto del presente, la brutalità della materia, la velocità del gesto che lacera. Non c’è conforto, non c’è nostalgia. C’è piuttosto un’oscillazione, un continuo essere risucchiati e respinti. È una mostra che chiede di “stare dentro”, di accettare la perdita dell’equilibrio, come davanti a un mare agitato.

Il gesto pittorico, in questa esperienza, non è soltanto ciò che vediamo, ma ciò che ci attraversa. La mostra diventa un dispositivo percettivo: la luce, i vuoti, i silenzi, i contrasti tonali fra le sale creano un ritmo quasi musicale, una partitura visiva. L’occhio si muove come una mano: tasta, sfiora, si ritrae. È una coreografia percettiva, dove ogni movimento dello sguardo corrisponde a un respiro dei due artisti.
Si ha l’impressione che Palazzo Madama si trasformi in una bottega alchemica, dove la materia della pittura – il colore, la tela, il segno – si trasforma in energia. In questo senso, il visitatore diventa parte del gesto: la sua presenza completa l’opera, come se Tintoretto e Vedova lo avessero atteso da secoli per continuare il proprio atto.

C’è anche, in tutto questo, una dimensione teatrale che non va sottovalutata. Tintoretto aveva concepito la pittura come scena, come dramma in cui la luce è regista. Vedova, da parte sua, ha sempre inteso l’opera come spazio performativo, come accadimento. La mostra li unisce su questo terreno comune: la pittura come teatro del mondo, ma anche come spazio di coscienza.
Non si tratta di un semplice allestimento spettacolare, ma di una drammaturgia visiva che restituisce il senso di una tensione viva, di un’azione che continua a svolgersi sotto i nostri occhi. È la pittura come presenza, come corpo che si muove nello spazio, come voce che ancora parla — anzi, grida.

In questa intensità percettiva, la mostra compie un atto radicale: restituisce alla pittura la sua fisicità. La strappa al museo e la riporta nel corpo. Guardare, qui, non significa soltanto vedere: significa essere toccati, sporcati, feriti dalla materia visiva. È un’esperienza che rovescia la passività dello spettatore contemporaneo, abituato a consumare immagini lisce, digitali, innocue.
Tintoretto e Vedova, invece, non consentono neutralità: ti chiedono di assumerti la responsabilità del tuo sguardo. Ti mettono di fronte al fatto che ogni immagine è anche una ferita, e che guardare significa lasciarsi attraversare.

C’è una parola che attraversa sotterraneamente questa mostra e che potrebbe riassumerne la portata: resistenza.
Resistenza come volontà di restare nella materia, di difendere il gesto contro l’omologazione, di continuare a credere che la pittura possa ancora dire ciò che il linguaggio non sa più dire. In un tempo in cui tutto tende alla smaterializzazione dell’immagine, al dominio del digitale e alla velocità senza corpo, l’incontro fra Tintoretto e Vedova appare come un atto di insubordinazione. Due pittori che rifiutano di ridurre il mondo a rappresentazione, che rivendicano la potenza del corpo, la necessità dell’imperfezione, la sacralità della mano.

Entrambi ci ricordano che la pittura è un atto umano, troppo umano: sudore, errore, rischio. Tintoretto lotta con la forma per avvicinarsi al divino; Vedova la distrugge per restituirle verità. E in questo paradosso — in questa tensione che non si risolve — sta il nucleo pulsante della loro eredità. La pittura, per loro, non è mai un linguaggio pacificato. È conflitto, dissonanza, vertigine.
Palazzo Madama, scegliendo di farli incontrare, non propone un dialogo di cortesia ma una collisione: due urgenze che si urtano e si riconoscono. È come se la mostra dicesse: non serve l’armonia, serve la frizione. Solo nel conflitto nasce il senso.

L’urgenza del gesto — quel titolo che sembra racchiudere entrambi i secoli — è allora un invito, quasi un monito. Dipingere, per Tintoretto come per Vedova, è un atto di libertà che implica una responsabilità. Non si tratta di rappresentare il mondo, ma di rispondergli. Ogni segno, ogni colata, ogni torsione del colore è una forma di testimonianza. Ed è proprio questa la differenza fra il gesto artistico e l’immagine di consumo: il primo è irripetibile, il secondo infinitamente replicabile.
In un’epoca in cui l’immagine è diventata fantasma, icona algoritmica, l’incontro fra questi due veneziani riafferma il valore della presenza. L’arte, qui, non consola: resiste.

Eppure, la mostra non si limita a un esercizio di memoria o di analogia. Ci parla direttamente, con urgenza, con rabbia, con amore. Ci dice che ogni generazione deve reinventare il proprio modo di guardare. Che il gesto, se è autentico, non può essere ereditato: va rifondato, ogni volta, come un atto di nascita.
Tintoretto lo sapeva quando rompeva le regole della Serenissima; Vedova lo sapeva quando rifiutava le accademie del moderno. Entrambi hanno pagato un prezzo: la solitudine, la marginalità, la fatica. Ma proprio in questa distanza hanno trovato la libertà.

Palazzo Madama, con questo incontro, restituisce al gesto la sua urgenza civile. Non è una mostra che insegna: è una mostra che interroga, che brucia. Uscendo, si ha la sensazione di aver assistito non a un evento espositivo, ma a un corpo a corpo con la pittura stessa.
E si capisce che il vero soggetto non sono loro — Tintoretto e Vedova — ma noi, spettatori del presente, chiamati a scegliere se vogliamo ancora credere nel potere di un gesto.

Forse è questo, alla fine, il senso più profondo del loro dialogo: ricordarci che ogni epoca ha bisogno dei suoi pittori furiosi, dei suoi eretici della luce. Che la pittura, quando nasce da un’urgenza, non appartiene mai al passato: è sempre, ostinatamente, oggi.

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Vedova e Tintoretto in dialogo a Palazzo Madama (Torino, fino al 12/01/2026) è più di una mostra: è una dichiarazione di guerra contro l’anestesia visiva del nostro tempo.
Nel cuore della Torino più austera e barocca, due pittori veneziani — divisi da quattro secoli ma uniti da una stessa febbre — tornano a ricordarci che la pittura non è un linguaggio decorativo, né un reperto museale. È un corpo, una lotta, un modo di abitare il mondo.

Tintoretto e Vedova, in questo dialogo orchestrato con sobria intensità, si affrontano come due forze cosmiche. Non c’è un maestro e un discepolo, non c’è continuità stilistica: c’è l’urto. La mostra mette in scena un confronto fra due idee di visione — quella rinascimentale, ancora animata dal desiderio di catturare il divino, e quella novecentesca, segnata dall’impossibilità di farlo — e mostra come, in entrambi i casi, il gesto pittorico diventi un atto di fede nell’imperfezione.
Tintoretto cerca la rivelazione nella velocità, nell’abisso della luce; Vedova la cerca nel caos, nell’oscillazione tra vita e rovina. Sono due gesti che si oppongono al tempo stesso e si rispecchiano, due energie che si riconoscono nella comune urgenza di non arretrare di fronte all’abisso.

Visitare questa mostra significa attraversare una tensione: la tensione fra la nascita e la fine dell’immagine, fra il sacro e il secolare, fra la pittura come promessa e la pittura come residuo. In un’epoca dominata dalla virtualità, dal consumo infinito dell’immagine senza traccia, Vedova – Tintoretto in dialogo restituisce allo sguardo la sua dimensione carnale.
Davanti a queste opere, l’occhio non può restare spettatore neutro: deve farsi corpo, deve accettare la propria vulnerabilità. Guardare diventa un atto morale. E in questo senso, il progetto curatoriale di Palazzo Madama compie qualcosa di raro: riporta l’esperienza estetica a una dimensione di rischio, di urgenza, di contatto.

Perché l’arte, quando è autentica, non consola mai. Ferisce, scuote, chiede di prendere posizione.
Tintoretto lo fa nell’età in cui la fede e la politica si intrecciano nella magnificenza di Venezia; Vedova lo fa in un’epoca in cui la storia non promette più salvezza. Ma entrambi rifiutano la quiete, la retorica, la resa. Entrambi credono che la pittura non serva a rappresentare, ma a resistere. La loro è una pittura che non celebra, ma interroga. È una pittura che non vuole sopravvivere al mondo: vuole trasformarlo.

Ecco perché questa mostra è tanto più necessaria oggi, in un’epoca che ha sostituito il gesto con il clic, il corpo con l’immagine, la presenza con la proiezione.
Tintoretto e Vedova ci insegnano che il gesto non è mai soltanto un fatto estetico: è una presa di posizione nel mondo. Ogni segno, ogni pennellata è una decisione morale. È il rifiuto di scomparire nella passività. È il dire: io sono qui, anche quando il tempo si disfa, anche quando la storia si frantuma.

Palazzo Madama diventa allora non il contenitore di una mostra, ma il luogo di una resistenza. Un tempio laico in cui la pittura riafferma la propria vitalità contro la dispersione del visibile. Camminando tra le sale, si percepisce che qualcosa ancora pulsa, ancora combatte: la materia non è morta, il gesto non è finito.
Tintoretto, con la sua luce che incide, e Vedova, con il suo nero che divora, sembrano ricordarci che la pittura è, prima di tutto, un modo di dire no: no all’indifferenza, no all’inerzia, no alla menzogna del presente.

E quando si esce — dopo aver respirato quell’aria carica di passato e di futuro, di urgenza e di rovina — si ha la sensazione di essere stati guardati, non di aver guardato.
Si comprende allora che l’arte non è un ricordo da custodire, ma una forza da sostenere. Che la pittura, come il corpo, deve essere difesa dalla sua dissoluzione.
Vedova e Tintoretto, ognuno nel proprio secolo, ci affidano la stessa eredità: quella di non smettere di credere nel gesto.

Un gesto che, ancora oggi, può incendiare il mondo.
Un gesto che chiede di essere compiuto — qui, ora, da noi.