All’inizio c’è una stanza. Una finestra aperta su New York, nel cuore dell’inverno. Sul tavolo, una pila di fogli dattiloscritti, le dita macchiate d’inchiostro, e un uomo che scrive come se dovesse trattenere la vita con le parole. È il 1992, l’anno della sua morte. Ma Richard Hall, in quella stanza che odora di carta e disinfettante, continua a scrivere come se il mondo non potesse finire, non ancora. Non per lui, non per gli amori che ha raccontato, non per quella comunità di uomini e donne che la Storia — maiuscola, impietosa — sta cancellando uno a uno, lasciando solo i loro libri, le loro fotografie, le loro assenze.
Prima di diventare uno dei più lucidi e sensibili narratori dell’esperienza gay americana, Hall era stato un ragazzo ebreo di Manhattan, cresciuto in una casa dove si parlava sottovoce. Si chiamava Richard Walter Hirshfeld, e portava con sé un cognome che presto la paura avrebbe trasformato. Dopo un episodio violento di antisemitismo, la famiglia decise di mutare il proprio nome in Hall, come se un nuovo suono potesse bastare a cancellare l’odio. Ma quel trauma rimase inciso sotto la pelle: la consapevolezza di dover cambiare identità per sopravvivere divenne la chiave di tutta la sua opera.
Cresciuto nella contea di Westchester, Hall imparò a osservare la distanza tra ciò che appare e ciò che si è. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti: un gesto che conteneva al tempo stesso patriottismo e fuga, bisogno di appartenenza e desiderio di invisibilità. Tornato a casa, studiò ad Harvard e poi alla New York University, e lì cominciò a comprendere che il linguaggio poteva essere una casa per chi non ne aveva una. Dopo gli studi, lavorò nella pubblicità e nelle pubbliche relazioni, imparando la lingua seducente delle menzogne professionali, per poi disfarsene in quella privata, più nuda e vera, della scrittura letteraria. Negli anni Settanta, accettò un incarico all’Inter American University di San Juan, a Porto Rico, dove insegnò scrittura creativa. Quel periodo caraibico, luminoso e malinconico, gli restituì una libertà interiore che avrebbe attraversato tutta la sua opera successiva.
Il debutto nel mondo letterario avvenne nel 1975 con The Butterscotch Prince, un romanzo che esplora i territori incerti tra desiderio, memoria e identità. Ma fu nei racconti che Hall trovò la sua forma più pura, la sua verità. Nelle raccolte Couplings (1981), Letter from a Great Uncle (1985) e Fidelities (1992), la sua prosa divenne il luogo dell’intimità e della rivelazione. Le sue storie non erano mai semplici cronache di relazioni gay: erano piccoli affreschi morali, studi di comportamento, confessioni senza sentimentalismo, scritte con una precisione che ricordava James Baldwin e la tenerezza controllata di E.M. Forster.
Parallelamente alla narrativa, Hall sviluppò una carriera di critico letterario e giornalista, collaborando con testate di rilievo come The New York Times, San Francisco Chronicle, The Village Voice e The Advocate. La sua scrittura saggistica era tagliente ma empatica, capace di leggere la letteratura come un organismo vivo, in cui le questioni di genere e desiderio diventavano categorie estetiche. Fu anche il primo critico apertamente gay ammesso al National Book Critics Circle — una conquista simbolica, ma immensa, in un’epoca in cui la critica statunitense ignorava o marginalizzava la cultura queer.
Hall, tuttavia, non era solo un osservatore. Era un autore profondamente teatrale, capace di trasformare la parola in gesto, in corpo. Con Three Plays for a Gay Theater (1983) — che comprende Happy Birthday Daddy, Love Match e Prisoner of Love — portò in scena la fragilità, l’erotismo e l’umorismo dell’esperienza omosessuale, con un linguaggio che oscillava tra il lirico e il quotidiano. Il suo teatro, più che rappresentare, testimoniava: era un atto di presenza.
Quando la crisi dell’AIDS travolse la comunità gay negli anni Ottanta, Hall reagì come sapeva: scrivendo. Non con la rabbia di un militante, ma con la calma dolorosa di chi conosce la perdita. Fidelities, pubblicato pochi mesi prima della sua morte, è una raccolta che sembra un addio ma è, in realtà, un giuramento di continuità. La fedeltà del titolo non riguarda solo gli amanti, ma la memoria, la scrittura, la vita stessa.
In Diamonds Are Forever, un fratello gay e una sorella sposata litigano per un cimelio di famiglia — un litigio che diventa una danza di rimproveri e incomprensioni, dove il vero oggetto conteso non è un gioiello, ma l’amore negato. Avery Milbanke Day racconta invece di uno scrittore settantenne che, di fronte al successo tardivo, sceglie di restare accanto al suo vecchio amante morente, trasformando la sua rinuncia in un gesto di profonda umanità. In Country People, l’ultimo racconto, Hall sfiora il soprannaturale: una coppia gay scopre, nella campagna, il mistero di chi li ha preceduti — un dialogo con gli spiriti del passato, con le generazioni cancellate dal silenzio e dalla vergogna.
Il libro fu accolto con grande rispetto. The Advocate lo definì “una lettura eccezionale”, ma le parole della critica non bastano a descrivere la tenerezza spietata che vi abita. Ogni storia è una variazione su un unico tema: l’amore come resistenza. Hall non cerca eroi, non costruisce martiri: racconta persone comuni, intrappolate nella bellezza e nel dolore della loro sincerità. Il suo sguardo è privo di sentimentalismo, ma intriso di pietà, nel senso più nobile e antico del termine.
Richard Hall morì il 29 ottobre 1992, nella sua città, New York, per complicazioni legate all’AIDS. Tre anni prima, nel 1989, aveva perso il suo compagno di lunga data, Arthur Marceau. La loro relazione, vissuta lontano dalle luci e dai proclami, fu la sostanza segreta della sua scrittura. La sua opera è una lunga lettera d’amore indirizzata all’assente: al compagno, agli amici scomparsi, alla gioventù perduta, a quel sé che aveva dovuto cambiare nome per continuare a vivere.
Nel 2005, il racconto Country People fu insignito postumo del Gaylactic Spectrum Award, a riconoscimento della sua intensità e della capacità di unire realismo e mistero, eros e metafisica. Il testo, ripubblicato nell’antologia Shadows of the Night (2004), ispirò nel 2019 un cortometraggio omonimo che restituì alle sue parole la loro forma visiva: il dialogo tra i vivi e i morti, tra ciò che si ama e ciò che si perde.
Oggi, rileggere Richard Hall significa ritrovare una voce limpida e coraggiosa in un’epoca in cui la scrittura queer lottava per farsi ascoltare. Le sue pagine non cercano l’effetto, ma la verità. Parlano di uomini che si amano, di donne che tacciono, di famiglie che non sanno più come restare unite. Parlano, soprattutto, della fedeltà come gesto etico: la fedeltà a se stessi, alle proprie parole, ai propri morti.
Non è difficile immaginare che, se fosse vissuto più a lungo, Hall avrebbe continuato a scrivere con la stessa voce lucida e malinconica, capace di unire eleganza e verità. La sua opera — sospesa tra realismo e confessione — è una mappa dell’animo umano, tracciata con la delicatezza di chi ha imparato che ogni amore, per essere vero, deve sopravvivere alla perdita.
C’è una stanza, all’inizio, dicevamo. Non sappiamo dove — forse New York, forse una città di passaggio, forse solo un luogo della memoria. C’è una finestra da cui filtra una luce invernale, e sul tavolo, accanto a un bicchiere e a una penna, una copia di Fidelities. Le pagine sono segnate, piegate, come se qualcuno ci fosse tornato sopra molte volte, cercando non una storia, ma un riconoscimento. È così che si entra nel mondo di Richard Hall: non da lettori curiosi, ma da sopravvissuti che chiedono alla letteratura un gesto di continuità.
Perché Fidelities non è soltanto una raccolta di racconti. È un coro di voci interrotte, un album di presenze che resistono al disfacimento del tempo. Pubblicato nel 1992, l’anno stesso della morte di Hall, il libro arriva come una confessione e come un testamento, ma anche come un atto d’amore verso quella tradizione di narrativa gay americana che da Baldwin a Isherwood, fino a Monette, ha trasformato la vulnerabilità in forma e la vergogna in canto.
Il titolo — “fedeltà” — non allude a un’idea morale, ma a una tensione ontologica: essere fedeli a chi si è, ai propri desideri, ai propri morti, persino alla propria perdita. “I think I am most faithful when I doubt,” scrive Hall in uno dei suoi appunti inediti: Penso di essere più fedele quando dubito. È questo il punto di gravità dei suoi racconti, e ciò che li distingue nella vasta costellazione della narrativa queer di fine secolo: l’essere scritti da un uomo che non si nasconde più dietro il simbolismo, ma che usa la chiarezza per dire il mistero.
In Diamonds Are Forever, forse il racconto più raffinato della raccolta, la lite tra un uomo gay e sua sorella per un gioiello ereditato è solo la superficie di una tensione più profonda: quella tra due persone che si sono ammutolite di fronte alla reciproca diversità. Hall non forza la scena — la lascia respirare in dialoghi corti, taglienti, pieni di quella grazia tragica che nasce dall’incomprensione:
“You never really saw me,” he says.
“I did,” she answers. “But you were always leaving.”
(“Non mi hai mai davvero visto,” dice lui.
“Ti ho visto,” risponde lei. “Ma stavi sempre andando via.”)
È un teatro dell’assenza, un duello affettuoso e devastante tra chi non sa più come appartenersi. La fedeltà, qui, è una forma di nostalgia: restare legati a ciò che ci ha resi distanti.
In Avery Milbanke Day, invece, Hall parla del tempo e della rinuncia con una dolcezza quasi classica. Il protagonista è uno scrittore anziano, dimenticato dalla critica, che sceglie di non partecipare alla celebrazione pubblica della propria carriera per restare accanto al suo amante morente. È una scelta etica e poetica insieme, un rovesciamento della logica del riconoscimento: “Fidelity,” scrive Hall, “is not what you promise, but what you stay to witness.” (La fedeltà non è ciò che prometti, ma ciò che resti a testimoniare.) Il racconto diventa una parabola sulla discrezione dell’amore, sull’invisibilità come virtù.
E poi Country People — la storia più inquieta, quella che più di tutte attraversa il confine tra il reale e il soprannaturale. Qui Hall usa il linguaggio della ghost story per parlare di storia collettiva, di eredità spirituale: il protagonista, un uomo di città, va a vivere in campagna e comincia a sentire le voci di uomini e donne di altre generazioni, omosessuali dimenticati, esistenze sepolte sotto il linguaggio e la vergogna. È un racconto sulla comunione dei vivi e dei morti, un piccolo capolavoro del genere gotico queer, dove l’orrore è la rimozione. “They are not ghosts,” dice il narratore. “They are simply waiting to be spoken to.” (Non sono fantasmi. Stanno solo aspettando di essere interpellati.)
Il linguaggio di Hall in questi testi è misurato, quasi trasparente. Ogni frase sembra portare un peso emotivo che non viene mai esibito. È una scrittura “di pelle”, come quella di Baldwin, ma senza la sua oratoria: più contenuta, più fragile, più segnata da quella malinconia che è tipica di chi ha amato la vita solo per vederla dissolversi sotto la peste dell’AIDS. In confronto a Isherwood, Hall rinuncia al cosmopolitismo e alla distanza ironica: i suoi personaggi non viaggiano più, non si salvano con l’ironia. Restano. E restando, si consumano.
Rispetto a Monette, che in Borrowed Time o Love Alone trasforma la malattia in una sorta di eroismo intimo, Hall preferisce l’inapparenza. Nei suoi racconti non c’è denuncia, non c’è rabbia: c’è piuttosto una pietà ferita, un rispetto profondo per la complessità del dolore. Anche quando scrive di fantasmi o di eredità familiari, Hall rimane un moralista del sentimento, nel senso più alto del termine. Non giudica, ma osserva come le persone si tradiscano per amore e come, in quel tradimento, sopravviva una forma segreta di fedeltà.
Il suo stile, che alterna dialoghi sospesi e descrizioni minime, sembra costruito sulla sottrazione. È un modo di scrivere che sa quando tacere, e nel silenzio lascia vibrare l’emozione. In Letter from a Great Uncle (dalla precedente raccolta), Hall aveva già sperimentato questa voce distesa, ironica e tenera; in Fidelities la raggiunge come compimento, come se avesse trovato finalmente un ritmo che coincide con la sua stessa vita interiore.
La “fedeltà” diventa così la vera architettura del libro — non un tema, ma una grammatica. Ogni racconto è una variazione sul modo in cui gli esseri umani si tengono, si perdono, si ritrovano nei frammenti. L’oggetto ereditato, la lettera dimenticata, il ricordo condiviso: tutti diventano figure della sopravvivenza. L’AIDS, pur non sempre nominato, è la cornice invisibile di questa fedeltà: è ciò che rende ogni amore precario e ogni gesto definitivo.
Hall scrive come se sapesse di non avere più tempo, e questo conferisce ai racconti una calma vertiginosa. Nulla è urgente, tutto è necessario. Non c’è eroismo, ma dignità; non c’è disperazione, ma consapevolezza. Quando morì nel 1992, pochi mesi dopo l’uscita del libro, il suo compagno Arthur Marceau era già morto da tre anni. Fidelities rimane, dunque, un dialogo postumo: un libro che parla con chi non c’è più.
Nel panorama della narrativa americana, Richard Hall rimane un autore appartato, quasi dimenticato, ma essenziale. È il tramite tra la generazione di Isherwood e quella di Hollinghurst, tra l’eleganza morale del primo e la malinconia sensuale del secondo. Hollinghurst, in The Folding Star, scriverà qualcosa che sembra uscito da Hall: “The past is not what we remember, but what remembers us.” (Il passato non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda.) In Fidelities questo concetto è la spina dorsale: l’amore come memoria che continua a respirare.
Oggi, leggere Hall significa tornare a un linguaggio della sincerità. Significa riascoltare le voci di un tempo in cui dire la verità sul proprio desiderio era un atto politico e poetico insieme. E Fidelities, con la sua scrittura limpida e vulnerabile, è forse una delle ultime opere ad aver colto quel momento in bilico tra l’intimità e la perdita, tra la confessione e la forma.
Si chiude il libro, e resta una sensazione precisa: che la letteratura, quando è fedele, non consola, ma accompagna. Richard Hall, con la sua voce sommessa, ci ha lasciato proprio questo: un modo di restare umani nella distanza, di essere fedeli anche a ciò che è destinato a svanire.
Non c’è una fine, davvero, quando si parla di chi ha scritto per amore. Si può morire, sì, e il corpo diventare polvere, ma le parole restano in sospensione, in attesa di un nuovo respiro che le legga. Ogni volta che un libro come Fidelities viene riaperto, qualcosa risorge: un tono, una presenza, una promessa che non si è mai compiuta. È questa la vera fedeltà, forse: non il restare accanto a qualcuno, ma continuare a cercarlo nella distanza, dentro il tempo che scorre e dentro le parole che ci tengono ancora vivi.
Richard Hall non è mai stato un autore che gridava, né un profeta. Non ha incarnato la rabbia di un’epoca, ma la sua dolcezza spezzata. È stato un uomo che scriveva per capire cosa restasse di sé nei giorni che finivano troppo presto. Nei suoi racconti non c’è mai un gesto eroico: c’è solo la tenerezza dell’umano, la fragilità del desiderio, la pazienza di chi sa che anche la sofferenza ha bisogno di essere trattata con rispetto. Quando descrive un corpo malato, una conversazione taciuta, una stanza vuota, lo fa con un pudore che ha la forza di una rivelazione.
La letteratura gay americana gli deve molto proprio per questo. Hall è il ponte invisibile tra la confessione morale di Baldwin e la malinconia estetica di Hollinghurst, tra la lucidità di Isherwood e la ferita di Monette. Ma non è soltanto una mediazione: è una voce autonoma, quasi monastica, che si sottrae al clamore per difendere il valore dell’intimità. In un secolo che ha chiesto agli scrittori queer di essere testimoni, Hall ha scelto di essere custode. Custode delle sfumature, delle pause, delle mezze frasi che dicono più di un manifesto.
C’è un momento, in Fidelities, in cui la parola “fedeltà” smette di essere sostantivo e diventa verbo, azione: to be faithful — essere fedeli. Ma fedeli a cosa? Non a un credo, non a un’ideologia. Fedeli alla propria interiorità, al ricordo di chi ci ha amato, al linguaggio stesso che ci ha permesso di sopravvivere al silenzio. È una fedeltà quotidiana, domestica, che si esercita nei piccoli gesti: chiudere una finestra che batte, stendere una coperta, scrivere una lettera che non sarà mai spedita. È una fedeltà che non pretende di essere ricambiata.
Chi legge Hall oggi lo percepisce subito: il suo tempo era un tempo che non prometteva futuro. Gli anni Novanta della crisi dell’AIDS erano una soglia, un deserto. Gli amici morivano, i compagni sparivano, e la memoria era diventata un atto di resistenza. Scrivere significava impedire che l’oblio avesse l’ultima parola. Hall, in questo senso, non è solo un narratore ma un veggente della tenerezza, un cronista dell’invisibile. Nei suoi racconti la morte non è mai un evento improvviso, ma una presenza discreta, un’ombra che si muove tra le righe come una carezza che non si può più restituire.
Eppure, in mezzo a tanto dolore, Hall continua a scrivere con una serenità che disarma. Come se avesse scelto, consapevolmente, di non permettere al lutto di deformare la bellezza. “Beauty,” annota in un suo taccuino, “is what remains when everything else has left.” (La bellezza è ciò che resta quando tutto il resto se n’è andato.) È un’estetica della sopravvivenza, e insieme una morale della memoria. Fidelities è il suo modo di restare umano di fronte all’inaridimento del mondo: una liturgia privata, un canto basso per chi non è tornato.
Quando lo si rilegge oggi, il libro non sembra invecchiato. Anzi, appare come una forma di resistenza all’obsolescenza. Le sue storie, così precise e contenute, parlano ancora a chi vive il bisogno di fedeltà in un tempo di frammenti, di connessioni instabili, di amori che evaporano nel linguaggio dei messaggi. Hall ci insegna che la fedeltà non è il contrario del cambiamento, ma il suo ritmo segreto: il modo in cui si attraversano le metamorfosi restando fedeli a ciò che ci ha formati.
È curioso come la parola “fedeltà” rimandi, etimologicamente, al latino fides, cioè fiducia, credenza, promessa. Ma in Hall la promessa non è mai mantenuta — e proprio in questo tradimento si nasconde la verità più dolce. Essere fedeli non significa mantenere, ma ricordare. Non possedere, ma accompagnare. Forse la fedeltà è una forma d’amore che non chiede più nulla, e che proprio per questo continua a vivere anche quando tutto è finito.
Alla fine, Hall ci lascia una domanda più che una risposta: come si può essere fedeli a ciò che cambia, a ciò che muore? E la sua opera sembra suggerire che la risposta sia nel gesto stesso della scrittura. Scrivere è un modo di restare — non per gli altri, ma con loro. Ogni parola è un altare, ogni frase una preghiera laica, ogni racconto un frammento di fedeltà al mondo, anche quando il mondo non la merita.
Oggi che la memoria queer si intreccia con nuovi linguaggi, nuove tecnologie, nuove forme di solitudine, Fidelities suona come una partitura ancora attuale. Ci ricorda che la memoria non è mai un archivio: è un corpo che respira, una relazione che continua, un atto di presenza. E che l’amore, quando sopravvive alla scomparsa, non è un fantasma, ma un riflesso della nostra stessa umanità.
Richard Hall non è stato un autore minore. È stato un autore necessario — uno di quelli che, come una voce sommessa in una stanza buia, parlano a chi non può più rispondere. E forse è proprio questo il destino di ogni scrittore fedele: non essere compreso subito, ma tornare, decenni dopo, a consolare chi non sapeva di aver bisogno di lui.
Quando chiudiamo Fidelities, il silenzio che segue non è vuoto. È un respiro condiviso. È la fedeltà che, dopo tante parole, finalmente si riposa.
Nota finale
Scrivere di Richard Hall, dopo averlo attraversato, è come ricordare qualcuno che si è conosciuto solo in sogno ma di cui si sente la mancanza nella veglia. C’è in lui una grazia malinconica, un pudore assoluto che diventa linguaggio, e una precisione che pare dettata da chi sa che non avrà tempo per riscrivere. Hall appartiene a quella genealogia di scrittori che non urlano, ma lasciano che la lingua tremi. La sua voce, limpida e dolorosa, sembra provenire da un luogo dove il desiderio non si spegne ma diventa un archivio segreto, una fedeltà appunto — a un’idea di amore, di verità, di sopravvivenza morale.
In Fidelities ogni racconto è una ferita lucida, scavata nel quotidiano con la delicatezza di chi teme di distruggere ciò che tocca. Non c’è nessuna retorica, nessuna rabbia travestita da orgoglio: solo il silenzio dell’intimità, e il tentativo disperato di conservarla. La morte, l’AIDS, la memoria, la solitudine: tutto è scritto come se Hall sapesse che il suo corpo lo sta tradendo ma la parola può ancora salvarlo per qualche pagina. C’è un senso di continuità tra i vivi e i morti, tra i fantasmi dell’amore e i suoi resti. In Country People la campagna è un luogo simbolico, dove il tempo si sospende e il passato diventa una presenza tangibile. È il suo modo di dire: “non siamo scomparsi, siamo ancora qui, solo in un’altra forma di luce”.
Leggerlo oggi significa guardare l’ombra di un’epoca che non ha smesso di parlarci. Hall non è mai stato un autore militante, eppure la sua stessa esistenza lo era. Scrivere d’amore da uomo a uomo, con tenerezza e intelligenza, in un mondo ancora ostile, era già una forma di rivoluzione. Nelle sue pagine non si grida, si respira piano. Ogni frase è un atto di resistenza emotiva, un modo per non lasciarsi annullare dalla paura o dalla malattia. Hall capì che la fedeltà non è soltanto verso una persona, ma verso la verità del sentimento, anche quando la vita lo nega.
Mi piace pensare che quando scriveva, Richard Hall sapesse che qualcuno — anni dopo — avrebbe raccolto la sua voce come un piccolo testamento di dolcezza e lucidità. La sua morte, nel 1992, non chiude un capitolo ma lo apre. Ci obbliga a ripensare la letteratura gay non come “letteratura di tema”, ma come un’esperienza umana radicale, dove la diversità diventa forma poetica. La sua lingua è elegante e ferita, ma mai arrendevole. Nella morte del suo compagno, nella malattia, nella paura, Hall trova la misura per raccontare l’invisibile, il gesto minimo che rivela tutto: una mano che stringe un’altra, un dialogo interrotto, una promessa non mantenuta ma non dimenticata.
Rileggere Fidelities è un modo per ricordare non soltanto uno scrittore, ma un modo di stare al mondo. È accettare che la bellezza possa convivere con la perdita, che l’amore sia anche una forma di lutto, e che scrivere significhi, in fondo, restare fedeli a ciò che ci ha resi vulnerabili. Hall lo sapeva: si può morire di una malattia, ma si vive finché qualcuno, altrove, trova ancora una parola che risuona del nostro nome. E in quelle parole — sottili, precise, luminose — Richard Hall non ha mai smesso di vivere.