sabato 22 novembre 2025

Il centro perduto: tradizione, modernità e la febbre del nostro tempo


Da tempo mi trovo a osservare, quasi con stupore e insieme con una certa inquietudine, il modo in cui il mondo contemporaneo si è organizzato attorno a principi che avremmo potuto immaginare solo nei sogni o negli incubi di filosofi e sociologi. Le frontiere si dissolvono, le identità diventano flessibili, le comunità sono costrette a confrontarsi con mercati, algoritmi, flussi di informazione istantanei. Il neoliberismo ha raggiunto una pervasività totale: non solo nell’economia, non solo nelle istituzioni, ma nella stessa percezione della libertà individuale. Ciò che ci è stato promesso come emancipazione — la dissoluzione dei vincoli, l’apertura di possibilità infinite, la capacità di scegliere senza vincoli — si è spesso trasformato in precarietà, competizione costante e isolamento. Non è un caso che, in questo contesto, emergano con forza correnti di pensiero che parlano di radici, di ordine, di centro. Il tradizionalismo non è un semplice richiamo al passato, ma una reazione fisiologica: la società reagisce allo stress della libertà e della fluidità neoliberale cercando punti fissi, simboli, legami.

Guénon, Evola e i loro epigoni hanno dato forma a questa corrente, ma è cruciale ricordare che ciò che essi sistematizzano esisteva da sempre, in ogni angolo del mondo, in ogni epoca. Le civiltà antiche avevano le loro vie iniziatiche, le loro scuole esoteriche, i loro riti segreti, spesso riservati a pochi eletti, sempre in cerca di una verità che trascendesse la realtà materiale e contingente. I sufi, con i loro percorsi di purificazione interiore e comprensione dell’assoluto; i taoisti, con l’armonia tra microcosmo e macrocosmo; i platonici e neoplatonici, con la contemplazione delle idee e la ricerca della bellezza trascendente; gli egizi e gli indiani vedici, con i loro misteri e iniziazioni — tutti cercavano di condurre l’individuo a un centro invisibile, a un ordine interiore. Guénon non inventa nulla, ma dà struttura e un nome alla corrente, e proprio questa sistematizzazione permette ai successivi interpreti di trasformarla in strumento politico, di utilizzarla per legittimare visioni gerarchiche o autoritarie.

E qui sta il paradosso che mi affascina: il tradizionalismo nasce come ricerca autentica di senso, ma contemporaneamente diventa un apparato ideologico potente. La reazione alla modernità, al neoliberismo, alle disuguaglianze prodotte dalle società ipermoderne, trova nel richiamo al sacro, all’ordine, alla tradizione un terreno fertile. Ma il richiamo al sacro non resta neutro: viene catturato dalla politica, trasformato in strumento di consenso, in legittimazione di gerarchie e identità collettive. Ciò che nasce come esigenza umana diventa propaganda, e la spiritualità autentica viene ridotta a simbolo, spesso manipolato per fini autoritari.

Il paradosso si amplifica se guardiamo alla realizzazione pratica del marxismo da parte del neoliberismo stesso. Dissoluzione delle frontiere, emancipazione femminile, accesso globale alla produzione e al consumo: sono tutti obiettivi che il marxismo aveva pensato come strumenti di giustizia, di liberazione, di uguaglianza. Ma il neoliberismo li realizza per motivi completamente opposti: non per emancipare l’umanità, ma per massimizzare il flusso di capitali, di merci, di informazione. La libertà promessa diventa disponibilità, la dissoluzione dei vincoli diventa esposizione alla competizione, l’emancipazione femminile si traduce spesso in doppia fatica: lavoro produttivo e lavoro simbolico di presenza e immagine. È la vittoria materiale del marxismo senza la sua etica, il sogno rivoluzionario tradotto in macchina globale di mercato.

Ed è proprio qui che il tradizionalismo si inserisce come risposta fisiologica. La società avverte uno squilibrio: troppa libertà senza sicurezza, troppa fluidità senza radici, troppa emancipazione senza equità. L’individuo reagisce cercando stabilità, senso, ordine. Il tradizionalismo, quindi, non è solo ideologia, ma anche bisogno collettivo, risposta naturale a uno stress sistemico generato dalla modernità neoliberale.

Non si può comprendere questo fenomeno senza guardare anche alla storia del Sessantotto. Le rivendicazioni di libertà sessuale, di apertura, di sperimentazione culturale, hanno creato uno scenario che il neoliberismo ha poi metabolizzato e deformato. Emancipazione e dissoluzione dei confini comunitari si trasformano in precarietà, competizione, esposizione totale. Il tradizionalismo reagisce a queste derive, evocando miti, riti e simboli che promettono sicurezza, radici e centro, cercando di compensare l’ansia prodotta dall’eccesso di libertà.

E qui emerge una verità che non possiamo ignorare: il tradizionalismo autentico e il tradizionalismo strumentalizzato dalla politica non coincidono, anche se spesso si sovrappongono. Le correnti iniziatiche di tutte le culture non erano pensate per dominare o manipolare, ma per condurre alla conoscenza interiore, alla comprensione del sacro, alla trasformazione personale. L’appropriazione politica trasforma questa energia in ideologia, e allora ciò che era percorso di liberazione diventa vincolo, ciò che era centro diventa confine, ciò che era sacro diventa simbolo di potere.

Il tradizionalismo, in questo senso, è specchio e sintomo della nostra epoca. È la febbre di una società che ha perduto il centro e cerca disperatamente punti fissi. È la reazione a una modernità che prometteva libertà ma distribuisce precarietà, che dissolve confini ma moltiplica solitudini, che afferma emancipazione ma produce ansia. Capire questa dinamica significa riconoscere la crisi contemporanea nella sua complessità: non solo politica o economica, ma esistenziale, spirituale, simbolica.

Quando penso a Guénon, non posso fare a meno di percepire il peso di un uomo che, nel primo Novecento, sentì la modernità come un urto violento contro l’ordine cosmico. Egli non vedeva semplicemente un cambiamento sociale o tecnologico: percepiva la dissoluzione del centro, il collasso dei significati universali, la perdita di un punto di riferimento spirituale capace di dare senso alla vita. La sua opera, quindi, non è mai stata una semplice costruzione filosofica, ma un gesto di resistenza: catalogare, sistematizzare, indicare vie iniziatiche e archetipi universali. La Tradizione, per Guénon, era la rete invisibile che unisce tutte le culture, la struttura nascosta che permette di comprendere l’unità originaria del reale.

Eppure, proprio la sistematizzazione ha reso possibile ciò che, nelle culture antiche, era impensabile: la politica del sacro. Evola, con la sua penna feroce e la sua prosa scandita, prende questa eredità e la trasforma in battaglia. Non più percorso interiore, ma orientamento esistenziale e sociale: l’uomo superiore, l’élite iniziata, la gerarchia sacra. È qui che comincia il problema: ciò che nasce come resistenza spirituale diventa ideologia, ed è impossibile separare il piano del simbolo da quello del potere. Evola è chiaro: il mondo moderno è decadenza, e chi vuole salvarsi deve combatterlo, organizzarsi, assumere una posizione di comando. La spiritualità diventa mobilitazione, il sacro diventa strumento.

Non è sorprendente, allora, che questo patrimonio abbia trovato successori politici nei più disparati contesti contemporanei. Dugin in Russia, Bannon negli Stati Uniti, e molti altri pensatori o strategisti politici hanno attinto a questi concetti, reinterpretandoli per costruire narrazioni di identità e potere. Dugin, ad esempio, propone un Eurasianismo che mescola geopolitica, tradizione spirituale e identità nazionale, evocando un mondo in cui il centro esiste e va difeso contro la fluidità liberale occidentale. Bannon, in modo diverso, utilizza le stesse idee come strumenti di costruzione narrativa e di mobilitazione politica, traducendo miti e simboli in consenso elettorale. La tradizione diventa dunque non più percorso di conoscenza, ma materiale politico da plasmare, manipolare e vendere.

Eppure, dietro tutto questo, io continuo a sentire la realtà umana: la parte fisiologica della reazione. Non possiamo dimenticare che la modernità neoliberale ha davvero compiuto molte delle promesse del Sessantotto e del marxismo: frontiere più permeabili, emancipazione femminile, libertà di movimento, accesso ai beni materiali e culturali. Ma lo ha fatto secondo logiche completamente diverse: l’accesso diventa precarietà, la libertà diventa esposizione, l’emancipazione diventa integrazione nel mercato globale. L’individuo non è più libero nel senso etico del termine, ma completamente disponibile. In questo scenario, l’attrazione verso l’ordine tradizionale è naturale, quasi automatica: è un riflesso del corpo sociale, una risposta all’eccesso di fluidità e instabilità.

È qui che le correnti iniziatiche universali tornano in gioco come punto di paragone. Guardando alle società vediche, agli ordini sufi, ai platonici, ai taoisti, ci rendiamo conto che in ogni epoca l’uomo ha cercato strutture capaci di dare senso al caos. La differenza fondamentale tra queste esperienze e il tradizionalismo politico moderno è l’uso del simbolo: laddove in passato serviva a trasformare l’individuo, oggi serve a mobilitare masse o a legittimare potere. La spiritualità si piega alla propaganda, e ciò che era via di conoscenza diventa strumento di controllo.

Eppure, io non posso fare a meno di sentire, dietro tutto questo, la dimensione autentica dell’esigenza umana. Il tradizionalismo, anche quando viene manipolato, rivela un bisogno profondo: quello di centro, di stabilità, di radici. Non possiamo considerarlo solo un’ideologia reazionaria, perché sarebbe riduttivo; è piuttosto il sintomo di una società che ha perso punti fissi e cerca di reagire al trauma prodotto dall’iperlibertà, dalla competizione, dalle disuguaglianze.

Così, mentre osservo il mondo, vedo due tensioni che coesistono, spesso in modo contraddittorio. Da un lato, il neoliberismo realizza i sogni materiali del marxismo: mobilità globale, emancipazione apparente, circolazione dei beni e delle persone. Dall’altro lato, la stessa emancipazione produce isolamento, competizione, precarietà. Il tradizionalismo emerge proprio qui: come risposta, come febbre, come tentativo di recuperare un ordine che il mercato e la fluidità hanno disperso. La spiritualità diventa allora cartina di tornasole: laddove è autentica, indica un bisogno umano universale; laddove è catturata dalla politica, diventa strumento di dominio.

Non possiamo ignorare il paradosso. Ci troviamo in un’epoca che è simultaneamente ipermoderna e arcaica, liberale e autoritaria, fluida e gerarchica. Le società contemporanee hanno realizzato libertà e fluidità, ma al costo della solitudine e della disuguaglianza. La reazione tradizionalista non è quindi una regressione, ma una risposta fisiologica a ciò che la modernità ha prodotto. E questa consapevolezza ci permette di comprendere meglio i protagonisti e i movimenti che oggi agitano la scena politica: non sono semplicemente reazionari, sono anche il riflesso di un disagio profondo, di un bisogno di senso e di radici.

Osservando il mondo oggi, non posso fare a meno di pensare a quanto la spiritualità e la politica siano intrecciate in modi che spesso sfuggono a chi si limita a osservare i fenomeni dall’esterno. Il tradizionalismo non è solo una corrente filosofica o spirituale: è un organismo vivente che reagisce al trauma dell’ipermodernità. La sua energia nasce dal bisogno umano di stabilità, ma viene trasformata, piegata, talvolta manipolata da leader, ideologi, strateghi. Dugin, Bannon e molti altri non inventano nulla: raccolgono ciò che esiste da millenni, lo reinterpretano in chiave politica, lo adattano alle narrazioni del potere. Eppure, dietro la manipolazione, resta sempre visibile l’esigenza autentica: un centro, un senso, una radice che dia significato alla vita nel caos del neoliberismo globale.

Ci sono correnti iniziatiche che hanno attraversato il mondo e il tempo con la stessa funzione: dare all’uomo strumenti per comprendere il mondo e se stesso. Dai sufi che cercavano l’unione con l’assoluto, ai taoisti che seguivano il flusso armonico del cosmo, dai platonici che contemplavano le Idee ai misteri egizi e vedici, ogni tradizione offriva percorsi simbolici per navigare l’esistenza. La modernità, e soprattutto il neoliberismo, ha dissolto quei percorsi, sostituendoli con la fluidità dei mercati, la competizione, l’esposizione totale dell’individuo. Non sorprende allora che la risposta sia immediata e intensa: la società reclama radici, senso, un centro di gravità stabile. Il tradizionalismo moderno incarna questa risposta, ma spesso viene catturato, trasformato, strumentalizzato.

È un fenomeno che si manifesta in mille modi. Guardiamo ai movimenti identitari europei o nordamericani: essi parlano di patria, tradizione, valori spirituali, ma dietro la loro retorica c’è sempre un bisogno di sicurezza, un riflesso di disagio generato dall’iperlibertà del mercato globale. Lo stesso accade in Russia con l’Eurasianismo di Dugin: la sua narrazione attinge al tradizionalismo, ma lo adatta a un progetto geopolitico e identitario che pretende di restaurare ordine e centro in un mondo percepito come minaccioso. Qui, il confine tra ricerca autentica di senso e strumentalizzazione politica diventa sottile, quasi impercettibile.

E allora io penso al Sessantotto, alle sue promesse di libertà, sperimentazione e rottura dei vincoli. Quelle energie, idealistiche e utopiche, sono state metabolizzate dal neoliberismo in modi sorprendenti: emancipazione femminile come integrazione produttiva, dissoluzione dei confini come esposizione globale, apertura culturale come competizione permanente. La libertà si è trasformata in precarietà, l’emancipazione in disponibilità totale, il sogno rivoluzionario in macchina di mercato. Ecco perché il tradizionalismo emerge con forza: non è nostalgia, non è semplice reazione ideologica, è risposta fisiologica, esigenza umana di radici e centro di fronte alla precarietà globale.

Vedo il tradizionalismo anche nelle forme culturali e artistiche: il richiamo a simboli antichi, l’uso di miti universali, il recupero di riti e immagini sacre. Tutto questo è affascinante perché parla direttamente all’esperienza emotiva delle persone. Ma qui, come sempre, il rischio è che il simbolo diventi propaganda, che il rito diventi strumento di potere. La sfida oggi consiste nel riconoscere l’autenticità di queste tensioni, separare la ricerca spirituale dal suo uso politico, comprendere che il bisogno di centro non deve essere tradito da apparati di dominio.

Non posso fare a meno di percepire, nel tradizionalismo moderno, una sorta di febbre collettiva. È la febbre di una società che ha perso punti fissi, che ha accettato l’iperlibertà e ne paga il prezzo con solitudine, competizione e ansia. È febbre, ma anche specchio: ci mostra ciò che abbiamo costruito e ciò che abbiamo perso. Ci parla di radici, di ordine, di senso, ma anche di fragilità, di vulnerabilità, di tensione tra desiderio umano e manipolazione politica.

E infine, vedo in questo fenomeno una possibilità di riflessione più ampia sul nostro tempo: il tradizionalismo ci obbliga a guardare al paradosso della modernità. Il neoliberismo ha realizzato sogni marxisti senza Marx, ma li ha distorti; il Sessantotto ha aperto possibilità di libertà, ma ha lasciato spazio alla precarietà; il tradizionalismo risponde a questi squilibri, ma rischia di essere catturato dalla politica. Comprendere tutto ciò significa capire la società contemporanea nella sua complessità: economia, politica, cultura, ma anche bisogni profondi, desideri spirituali, tensioni esistenziali.

In conclusione, il tradizionalismo non è semplicemente passato, nostalgia o reazione. È specchio, febbre, risposta fisiologica a un mondo che ha ceduto alla fluidità e al mercato. È avvertimento e monito: ci ricorda che libertà senza radici produce ansia, emancipazione senza centro produce solitudine, fluidità senza ordine produce smarrimento. Leggere il tradizionalismo significa guardare allo specchio della modernità, riconoscere i traumi prodotti dall’iperlibertà e dal neoliberismo, e forse imparare a non lasciare che il sacro diventi mai strumento di potere.

E così io osservo, rifletto e cerco di capire: perché la storia si ripete e si trasforma, perché le correnti spirituali diventano ideologie, perché la ricerca di senso è insieme personale e collettiva, perché il mondo contemporaneo è insieme ipermoderno e arcaico, libero e vulnerabile, fluido e desideroso di centro. Il tradizionalismo, allora, non è la fine, ma il segnale di un equilibrio da ritrovare, di una domanda che continua a rivolgerci: come possiamo vivere, oggi, in un mondo che promette libertà ma distribuisce ansia, che dissolve confini ma moltiplica solitudini, che afferma emancipazione ma produce precarietà?