venerdì 29 agosto 2025

Cattedrale di ombre (monologo)


Forse il tempo non è altro che un archivio di suoni e di omissioni, un flusso che non si lascia catturare dalle lancette né dagli orologi atomici, ma che si sedimenta in ciò che diciamo e, soprattutto, in ciò che scegliamo di tacere. La nostra memoria non registra i minuti né le ore: registra le parole. Quelle che ci hanno ferito, quelle che ci hanno salvato, quelle che non abbiamo avuto il coraggio di pronunciare. Ed è lì che il tempo diventa misura: non nel meccanismo che scandisce, ma nell’impronta che lascia la parola sul cuore.

Ogni frase detta è un ponte gettato tra noi e il mondo: è un gesto di fiducia, un’offerta, una ferita aperta che può guarire o infettarsi. Ma le frasi non dette non costruiscono ponti: scavano abissi. Si raccolgono dentro di noi, si accumulano come sedimenti in fondo a un mare, si fossilizzano, diventano roccia. E in quell’ammasso di silenzio ci perdiamo, ci muoviamo come esploratori ciechi in una cattedrale sotterranea, colma di eco che non appartengono a nessuna voce, di sospiri mai emessi, di pianti trattenuti.

Si dice spesso che il tempo è lineare, che tutto procede dal prima al dopo. Altri lo vedono ciclico, come il ritorno eterno delle stagioni o come il respiro della natura che si ripete. Ma quando proviamo a misurarlo con le parole, il tempo non è né linea né cerchio: è frammento. È un mosaico spezzato, in cui ogni tessera rappresenta una frase detta, e ogni vuoto, ogni lacuna, una frase taciuta. Il disegno finale non è mai armonico: è fatto di buchi, di fratture, di mancanze che gridano più forte dei pieni.

Pensiamo di avere il controllo quando parliamo. Crediamo che articolando un discorso possiamo trattenere il tempo, renderlo nostro, piegarlo alla logica che gli imponiamo. Ma le parole dette, per quanto possano sembrare solide, si dissolvono nell’aria come il fumo di un fuoco che non lascia traccia. Il tempo le inghiotte con la stessa voracità con cui divora le stagioni. I silenzi, invece, restano: aderiscono al corpo, si insinuano nei pensieri, si aggrappano alle viscere. Diventano veleno sottile che circola, malattia che non ha nome, rimpianto che corrode dall’interno.

E allora comprendiamo che il tempo non è una strada che percorriamo, ma una rete in cui siamo intrappolati. Non è una linea che ci guida, ma una ragnatela che ci trattiene. Ogni parola taciuta è un filo che si tende, ogni parola detta un filo che si spezza. E più ci agitiamo, più rimaniamo imprigionati. È una legge invisibile, un despota senza volto: il tempo si diverte a misurare la nostra vita in confessioni mai fatte, in sguardi che avrebbero potuto essere pieni di verità e invece sono rimasti muti, irrigiditi dalla paura o dall’orgoglio.

Camminiamo così, portando addosso la somma dei nostri silenzi. Li trasciniamo come catene. Ogni incontro umano diventa un terreno minato: cosa dire? cosa non dire? cosa lasciare al caso? E il tempo, indifferente, continua a scorrere, a costringerci a muoverci tra parole che si intrecciano come rami spinosi e silenzi che si spalancano come sabbie mobili. Ogni passo rischia di farci sprofondare. Ogni esitazione ci ricorda che il tempo non attende, non ha pazienza. Non ci lascia margini.

Alla fine ci rendiamo conto che la misura del tempo non è negli orologi, ma nelle occasioni perdute. Il tempo si rivela ogni volta che ci chiediamo: cosa sarebbe accaduto se avessi parlato? se avessi detto quella frase che ancora mi brucia dentro? se avessi avuto il coraggio di guardare negli occhi chi amavo e pronunciare una sola, fragile parola? Ogni volta che la domanda ritorna, il tempo si apre davanti a noi come una voragine. Non c’è calendario che possa richiuderla. Non c’è futuro che possa riparare quella ferita.

E così il tempo non è altro che un archivio di “se”. Un archivio che cresce, che ci sovrasta, che ci divora. Il fruscio delle foglie in un autunno lontano, il battito spezzato di un cuore che si domanda ancora cosa sarebbe successo: tutto diventa misura del tempo, non perché è accaduto, ma perché non è stato detto.

Forse ciascuno di noi porta dentro un archivio segreto fatto di parole mancate. È un archivio invisibile, eppure enorme, più vasto di tutte le biblioteche del mondo. Non lo sfogliamo con le mani, ma con i ricordi. Ogni volta che ripensiamo a un istante che avrebbe potuto cambiare il corso della nostra vita, apriamo una pagina di quell’archivio. E lì troviamo il vuoto. Un vuoto che non è muto, ma pieno di un rumore sotterraneo, come un tuono che non esplode mai ma continua a vibrare.

C’è chi conserva la memoria di una lettera mai scritta. Fogli rimasti bianchi, penne che hanno tremato e poi si sono ritirate nel cassetto. Non era paura di non trovare le parole: era paura di usarle, di lanciarle nel mondo e di dover affrontare la loro eco. E così il tempo ha registrato quel silenzio come una ferita. Ogni giorno che passa, quella lettera inesistente cresce d’importanza. Non è mai stata scritta, eppure pesa come se fosse mille volte stata letta e respinta.

Altri hanno negli occhi un ricordo diverso: quello di un incontro in una stazione, su un marciapiede, in una via affollata. Un attimo in cui lo sguardo avrebbe potuto farsi parola, dichiarazione, promessa. E invece il silenzio è scivolato tra i due come un velo invisibile. Nessuno ha detto nulla, e il treno è partito, o la folla è passata, o la vita semplicemente ha continuato la sua corsa. Da quel momento, il tempo non si è più misurato in giorni o settimane, ma in quell’unico istante non vissuto, rimasto sospeso come una goccia che non cade mai.

Ci sono poi i dialoghi mai nati, quelli che si sono fermati prima ancora di essere pronunziati. Frasi immaginate nella mente, provate davanti allo specchio, ripetute cento volte nel silenzio della propria stanza. Parole che avrebbero potuto aprire mondi, confessare segreti, guarire ferite. Ma la gola si è chiusa, il momento è passato, e il silenzio ha avuto la meglio. Quel silenzio non è neutro: diventa un veleno che si infiltra nel tempo, lo deforma, lo rende amaro.

Ed è così che comprendiamo meglio la natura del tempo: esso non passa soltanto fuori di noi, nello scorrere delle stagioni o nell’invecchiare dei corpi. Passa soprattutto dentro, nel crescere delle parole non dette, che diventano colonne, muri, volte di una cattedrale interiore. Una cattedrale costruita non da architetti ma da omissioni. Ogni arco è una frase mancata, ogni navata un discorso interrotto, ogni cripta un ricordo sepolto. E noi ci aggiriamo lì dentro, pellegrini smarriti, portando candele che non illuminano abbastanza.

A volte crediamo che il tempo guarisca le ferite, ma ci dimentichiamo che alcune non si sono mai aperte, perché non hanno mai avuto parola. Il tempo non le chiude, le amplifica. Ciò che resta taciuto non scompare: si moltiplica, si incide in profondità. Il tempo allora non è più un medico, ma un giudice severo che ogni giorno ci ricorda la nostra mancanza.

Eppure, nonostante questa crudeltà, continuiamo a vivere come se le parole potessero essere rinviate. Come se ci fosse sempre un domani per dire ciò che non osiamo dire oggi. Come se il tempo fosse generoso, disposto a concedere infinite repliche. Ma il tempo non concede repliche. Ogni giorno sottratto al coraggio di parlare diventa un giorno consegnato al silenzio.

Così ci ritroviamo a fare i conti con la logica spietata del tempo: ciò che non abbiamo detto, ciò che non abbiamo scritto, ciò che non abbiamo confessato, non resta fermo: cresce, cambia, si ingigantisce. E alla fine diventa più reale delle parole pronunciate. Diventa la nostra identità segreta.

Quanti amori si sono persi non per colpa dell’odio, ma del silenzio? Quanti legami si sono spezzati non per la violenza di una parola detta, ma per la mancanza di una parola mancata? La vita si misura qui: non nel fragore dei discorsi, ma nel vuoto dei silenzi. E quel vuoto diventa tempo, un tempo che non perdona, un tempo che continua a scorrere proprio perché resta incompiuto.

Il silenzio non è mai vuoto. Siamo noi a illuderci che lo sia. In realtà il silenzio è pieno, colmo di correnti sotterranee, di tensioni che non trovano voce. Ogni silenzio custodisce un potenziale infinito: potrebbe trasformarsi in parola, in grido, in confessione, in preghiera. Ma quando resta silenzio, diventa un’ombra che si allunga sul tempo, deformandolo.

Ci sono culture che hanno fatto del silenzio un valore, un segno di rispetto o di profondità. Il monaco che tace per anni, il guerriero che medita prima di agire, l’amante che sa contenere la propria passione. Ma nel nostro tempo il silenzio non ha più questo significato sacro. Il nostro silenzio è spesso paura, esitazione, vigliaccheria. È il linguaggio delle occasioni perdute, la grammatica dei rimpianti.

Pensiamo a un’amicizia spezzata. Non per un’offesa detta, ma per un silenzio prolungato. Due persone si scrivono ogni giorno, poi una delle due smette. Non è un litigio, non c’è una spiegazione. Solo silenzio. All’inizio sembra un dettaglio, un piccolo vuoto. Col passare del tempo, quel vuoto cresce, diventa muro, barriera. Quando finalmente ci si ritrova, le parole non bastano più: sono state divorate dal tempo. E ciò che resta è una distanza incolmabile, misurata non in chilometri, ma in parole mancate.

Oppure un amore, consumato più dai silenzi che dai conflitti. Quante coppie si perdono perché non trovano la forza di dirsi ciò che provano? Ci si abitua a convivere con la mancanza di parole, con frasi lasciate a metà, con sospiri che dovrebbero farsi dichiarazioni e invece restano sospiri. Finché un giorno ci si accorge che l’amore non è morto per stanchezza, né per tradimento, ma perché non è mai stato detto abbastanza. È stato divorato dall’assenza di voce.

Il silenzio lavora così: scava, erode, corrode. A volte sembra innocuo, quasi protettivo, ma in realtà prepara una voragine. Non gridiamo perché temiamo di ferire, ma il tacere ferisce più del gridare. Non diciamo per non rovinare, ma il non detto diventa veleno che avvelena lentamente.

E il tempo, in tutto questo, non perdona. Non ci dà tregua. Ogni giorno che lasciamo scorrere senza parola diventa un mattone nella cattedrale del silenzio. Una cattedrale che non crolla, che non si dissolve: resta lì, imponente, come un monumento invisibile che portiamo dentro. La attraversiamo di continuo, camminando tra navate fatte di frasi mancate, guardando vetrate che non filtrano luce ma oscurità. È una cattedrale che cresce con noi, più grande man mano che avanziamo nella vita.

Eppure, in rari momenti, ci capita di osare. Di dire la parola che avevamo taciuto troppo a lungo. A volte è una liberazione: il silenzio si spezza, il tempo sembra ricominciare a scorrere. Altre volte, invece, è troppo tardi: la parola arriva come una moneta spesa in una bottega già chiusa. Non ha più valore, non trova più orecchie disposte ad ascoltarla. Il tempo, ancora una volta, ha vinto.

C’è chi allora decide di scrivere. Di riempire quaderni e pagine di parole che non hanno più destinatario. Lettere che non saranno mai spedite, diari che non verranno mai letti. È un tentativo di strappare al silenzio almeno una parte del potere che esercita. Ma il tempo non si lascia ingannare: anche le parole scritte e mai condivise finiscono per entrare nell’archivio dei silenzi. Restano lì, prigioniere, come fantasmi che non hanno trovato pace.

Tutto questo ci porta a una verità più dura: il tempo non è misurato dalle stagioni che tornano, né dagli anni che scorrono. Si misura con l’infinita distanza tra ciò che è stato detto e ciò che è rimasto sospeso. Non con i compleanni, ma con i silenzi che ci abitano. Non con gli anniversari, ma con le parole che avrebbero potuto cambiare un giorno e non lo hanno fatto.

E allora, se il tempo è davvero questo, comprendiamo che non c’è strumento per arrestarlo. Non c’è orologio che ci salvi. Perché il tempo non scorre fuori di noi: scorre nelle nostre omissioni, nelle nostre esitazioni, nei vuoti che ci portiamo dentro. E ogni volta che ci chiediamo “cosa sarebbe successo se…”, il tempo ride, perché sa che quella domanda è la sua vittoria.

Il silenzio, quando non è meditazione ma paura, diventa un’abitudine che scivola addosso come una seconda pelle. È un cappotto pesante, che ti porti anche nelle giornate di sole. Ricordo una sera di gennaio, anni fa, in cui rimasi in piedi per ore davanti a un telefono fisso, con la cornetta che mi sembrava un oggetto alieno. Avrei voluto chiamare una persona a cui tenevo, ma rimasi immobile, senza il coraggio di comporre i numeri. Ogni squillo che non partì era un piccolo tradimento, un’occasione di vita che decidevo di non vivere. Quando, giorni dopo, ci incontrammo per caso, lui mi disse: “Pensavo che non volessi più sentirmi”. In quelle parole c’era la condanna e la verità. Non era lui a rifiutarmi: ero io che, con il mio silenzio, avevo costruito un vuoto che nessuno poteva attraversare.

Questo meccanismo si ripete spesso, in modi banali e quasi invisibili. Alla cassa di un supermercato, un sorriso che non esce. Sul tram, una parola di scusa che resta strozzata. Nei rapporti di lavoro, un’idea che resta chiusa nella mente perché “non vale la pena dirla”. Ogni non-detto è un granello che si accumula, fino a diventare una diga. E quando l’acqua preme da troppo tempo, la diga crolla all’improvviso: con una lite furiosa, con un gesto sproporzionato, con una fuga. Il silenzio non ci protegge mai davvero; ci prepara solo a esplodere nel momento sbagliato.

Eppure, quando la parola riesce a bucare quella membrana, anche nel modo più semplice, accade qualcosa che sembra miracolo. Un giorno, un amico che non vedevo da anni mi scrisse un messaggio: “Sei vivo?”. Solo due parole, quasi brusche, quasi offensive. Ma dietro c’era l’affetto, la nostalgia, la volontà di riaprire un varco. Risposi con altre due parole: “Ancora sì”. Da lì nacque un incontro che altrimenti non sarebbe mai avvenuto, un pomeriggio lungo e pieno di risate, con la sensazione di aver recuperato anni perduti. Tutto grazie a un frammento di linguaggio scabro, essenziale, che però aveva avuto il coraggio di esistere.

Molti rapporti finiscono non perché c’è troppo rumore, ma perché c’è troppo silenzio. Non i silenzi condivisi, quelli che sono pace e complicità, ma i silenzi che diventano muri. È come stare nella stessa stanza con qualcuno e, invece di guardarlo, fissare un punto alle sue spalle. Il corpo è lì, ma l’anima non passa. Ho visto coppie consumarsi così: non per tradimenti o grandi litigi, ma per la progressiva assenza di parole che dicessero “ti vedo”, “ti ascolto”, “ti riconosco”.

Il silenzio non pronunciato si insinua anche nelle famiglie. Nei pranzi della domenica, a tavola, le conversazioni che girano in cerchio, sempre sugli stessi argomenti di comodo: il tempo, il lavoro, la salute. C’è sempre un argomento taciuto, un pensiero che tutti conoscono ma che nessuno osa mettere in chiaro. È un tacito accordo: non disturbare l’equilibrio, non nominare l’elefante in salotto. Eppure quell’elefante resta lì, immobile, e con la sua massa ingombra ogni parola possibile. Tutti fingono di non vederlo, ma tutti ci inciampano dentro.

In queste piccole scene quotidiane, si capisce quanto sia difficile – e necessario – trovare la forza di rompere la catena. Parlare non significa sempre dire qualcosa di profondo o di definitivo: spesso basta pronunciare un “ci sono”, un “ti penso”, un “ti voglio bene” detto senza preavviso. Non è questione di eloquenza, ma di presenza. Perché, se è vero che il silenzio ha il potere di scavare abissi, la parola ha quello di costruire ponti. E i ponti, a differenza degli abissi, permettono di camminare.

L’umano non è mai soltanto ciò che pensa di sé, né ciò che appare agli altri. È un continuo processo di esperienza, un avvenire che si costruisce mentre accade. Non è una definizione, ma un movimento. A volte assomiglia a una corrente sotterranea che scava la roccia senza farsi vedere, altre volte a un’onda che si infrange con violenza e lascia schiuma bianca sulla riva. L’umano esperienziale vive di questa tensione, della frattura che continuamente lo rimette in discussione.

Non c’è mai un “arrivo”. Ci sono soste, certo, momenti in cui ci si illude di avere trovato un equilibrio. Ma è proprio allora che la vita, con la sua energia contraddittoria, ricomincia a muovere, a piegare, a spingere. Un incontro, una perdita, un desiderio inatteso, una paura che non si sapeva di avere: e l’ordine crolla. Ma in quel crollo nasce lo spazio dell’esperienza, l’occasione di trasformarsi.

L'esperienza umana non è quindi la somma delle esperienze già fatte, ma la capacità di lasciarsi plasmare da quelle che ancora non conosciamo. Non coincide con l’identità, che tende a fissarsi, ma con la disponibilità a restare porosi. È un esercizio di apertura, che non elimina la ferita ma la assume come parte del cammino. Perché ogni esperienza vera comporta una trasformazione: non si attraversa un dolore, un amore, una perdita senza che qualcosa si sposti per sempre.

Il rischio è confondere il fare esperienza con il collezionare episodi. Non si tratta di accumulare avventure, viaggi, prove: quella è solo cronologia. L’esperienza accade quando ciò che avviene riesce a intaccare la struttura intima, a incrinare l’abitudine. È quando ci si scopre diversi, senza sapere ancora bene in che direzione.

E allora l’umano si fa davvero esperienziale: non più misura, ma apertura; non più difesa, ma permeabilità. È lì che diventa vivo, fragile e potente nello stesso tempo.

C’è un momento in cui ci accorgiamo davvero di quanto il tempo sia fatto di parole e di silenzi, un momento che non possiamo prevedere, che non si annuncia. Accade in una mattina qualsiasi, mentre ci muoviamo tra corse e gesti abituali. Forse guardiamo qualcuno negli occhi e per un attimo vediamo tutto quello che non è stato detto: le parole trattenute, le frasi interrotte, i gesti mancati. È un istante di vertigine: il cuore batte più forte, e il mondo sembra espandersi e contrarsi nello stesso tempo.

In quell’istante comprendiamo che il tempo non è lineare, né ciclico. È l’insieme di tutte le possibilità, di tutto ciò che avrebbe potuto essere pronunciato e non lo è stato. Ogni persona che incontriamo porta con sé un frammento di questo tempo: sorrisi, silenzi, parole dette o negate, che si mescolano ai nostri, creando un intreccio unico e irripetibile. Camminiamo così, tra gli altri e dentro di noi, con la consapevolezza che ogni parola pronunciata costruisce ponti, ma che ogni parola taciuta lascia abissi.

E allora impariamo, lentamente, che la vera misura del tempo non sta nel cercare di dominarlo con discorsi perfetti o piani precisi, ma nel riconoscerne il ritmo segreto, nel rispettare le pause, nel permettere alle parole di emergere quando sono pronte. Non è facile. Spesso tremiamo prima di parlare, temendo di ferire o di sbagliare. Ma ogni volta che scegliamo di dire ciò che sentiamo, anche solo un frammento, il tempo sembra respirare con noi. Ogni parola diventa un passo, un gesto di presenza, un atto di coraggio.

E così, nella quotidianità più semplice, nei gesti più piccoli, si nasconde la possibilità di redenzione. Un sorriso condiviso, un “ti ascolto” pronunciato con sincerità, un abbraccio che parla più di mille frasi: tutto questo diventa testimonianza di vita, prova che il tempo può essere abitato senza rimpianti, che le parole possono fiorire nonostante anni di silenzio.

Alla fine, forse, il tempo si misura davvero in parole: non solo quelle dette, ma anche quelle che troviamo il coraggio di pronunciare, di lasciare emergere dall’ombra. E nelle nostre giornate ordinarie, tra corse, pause e incontri, scopriamo che la vita non è solo ciò che passa: è ciò che osiamo dire e fare, ciò che riusciamo a far entrare in contatto con l’altro, ciò che trasforma i silenzi in spazi condivisi, pieni di respiro e di possibilità.

Camminiamo così, con le nostre parole fragili e potenti, e scopriamo che il tempo non è un despota crudele, ma un compagno silenzioso che ci invita a parlare, ad ascoltare, a vivere davvero.


A piene mani: dono fastoso e dono perverso


Jean Starobinski, critico, filologo e storico della cultura tra i più acuti del XX secolo, ha lasciato un’impronta indelebile negli studi umanistici grazie alla sua straordinaria capacità di analizzare testi, simboli e dinamiche culturali con un approccio rigoroso e interdisciplinare. Il suo saggio "A piene: dono fastoso e dono perverso", pubblicato nel 1994, affronta un tema apparentemente semplice, ma che in realtà è carico di implicazioni sociali, filosofiche, religiose e psicologiche: il dono.

Starobinski parte da una constatazione universale: il dono è un gesto profondamente radicato nella storia dell’umanità, presente in tutte le culture, epoche e contesti. Dall’offerta rituale agli dèi nelle religioni antiche fino alla beneficenza moderna, dalle pratiche del mecenatismo rinascimentale alle dinamiche del mercato contemporaneo, il dono si presenta come un atto di generosità, ma nasconde sempre una dimensione ambigua, un doppio volto che lo rende al tempo stesso un atto di libertà e un meccanismo di vincolo e subordinazione.

Il titolo stesso del saggio gioca su questa ambivalenza: a piene mani suggerisce un gesto di generosità senza limiti, di abbondanza e prodigalità, mentre dono perverso allude alla capacità del dono di celare un’intenzione nascosta, di trasformarsi in un obbligo, in un debito, in una forma sottile di dominio. Attraverso un’analisi che spazia dalla filosofia alla letteratura, dall’antropologia alla teologia, Starobinski mostra come il dono non sia mai completamente disinteressato, ma implichi sempre un rapporto di forza, una relazione che può essere tanto armoniosa quanto conflittuale.


Il dono nella società: la triade dare, ricevere, restituire

Uno dei punti di partenza fondamentali del saggio è il celebre Saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1925, in cui il sociologo francese dimostrava come nelle società tradizionali il dono fosse regolato da una dinamica precisa e strutturata in tre fasi: dare, ricevere, restituire. Il dono, lungi dall’essere un atto gratuito e spontaneo, crea una relazione vincolante tra chi dona e chi riceve, una relazione che può essere di solidarietà, ma anche di dipendenza e obbligo.

Starobinski riprende questo modello per mostrarne le implicazioni nella storia della cultura occidentale. Se nelle società arcaiche il dono era una pratica rituale che regolava i rapporti tra individui e comunità, nelle epoche successive è diventato uno strumento di potere e affermazione sociale. Pensiamo alla pratica del potlatch, diffusa tra le popolazioni indigene della costa nord-occidentale del Pacifico: qui il dono non era solo un gesto di generosità, ma una vera e propria competizione tra i capi tribali, che cercavano di superarsi l’un l’altro nella capacità di donare (e persino di distruggere) ricchezze, al fine di affermare il proprio prestigio e la propria superiorità sugli altri.

Questo meccanismo si ritrova anche in ambito politico: nella Roma imperiale, per esempio, gli imperatori praticavano la largitio, distribuendo doni al popolo (grano, denaro, feste e spettacoli) per consolidare il proprio consenso e ribadire la loro autorità. Ma anche nel Medioevo e nel Rinascimento il dono era un elemento chiave della società: i sovrani e la Chiesa elargivano doni e benefici non solo per magnanimità, ma per sottolineare la loro superiorità e mantenere le gerarchie sociali ben definite. Il mecenatismo rinascimentale, per esempio, era un sistema in cui il dono serviva tanto a finanziare la produzione artistica quanto a vincolare gli artisti ai loro committenti.

Starobinski dimostra come il dono possa essere, quindi, un atto di libertà ma anche di costrizione. Se da un lato può creare legami di solidarietà, dall’altro può trasformarsi in uno strumento di potere e controllo.


Dono e potere: la generosità come strumento di dominio

Uno degli aspetti più affascinanti dell’analisi di Starobinski riguarda il modo in cui il dono è stato usato nel corso della storia per esercitare il potere. Il dono, infatti, non è mai completamente disinteressato: chi dona si aspetta sempre qualcosa in cambio, che sia gratitudine, riconoscenza, fedeltà o sottomissione.

Un caso emblematico è quello degli aiuti internazionali: spesso presentati come gesti di solidarietà tra nazioni, questi doni nascondono in realtà strategie politiche ben precise. Un paese che riceve aiuti economici o militari si trova inevitabilmente in una posizione di dipendenza nei confronti del donatore, che può esercitare su di esso un’influenza politica ed economica. Questo dimostra come il dono possa diventare una forma di soft power, una strategia sottile di dominio che si esercita attraverso la generosità piuttosto che con la coercizione.

Lo stesso meccanismo si ritrova nel mondo del mecenatismo culturale. Le grandi fondazioni e istituzioni che finanziano progetti artistici, accademici o scientifici non lo fanno solo per amore della cultura, ma spesso per affermare la propria influenza ideologica, ottenere vantaggi fiscali o consolidare la propria immagine pubblica. Il dono, dunque, è sempre inserito in una logica di scambio, anche quando appare completamente gratuito.


Il dono nell’arte e nella letteratura: creazione e sacrificio

L’arte e la letteratura sono ambiti in cui il dono assume una dimensione particolarmente intensa e drammatica. L’artista è colui che dona la propria opera al mondo, spesso senza ricevere nulla in cambio. Tuttavia, questo dono può essere rifiutato, frainteso o addirittura trasformarsi in una maledizione.

Pensiamo a Vincent Van Gogh, che ha lasciato in eredità un immenso patrimonio artistico senza ottenere in vita il minimo riconoscimento. O a poeti come Baudelaire e Rimbaud, il cui talento è stato un dono tanto straordinario quanto doloroso, un dono che li ha condannati all’emarginazione e all’incomprensione.

Anche la letteratura è piena di esempi di doni ambigui e pericolosi: nel Faust di Goethe, Mefistofele offre a Faust giovinezza e conoscenza, ma a un prezzo altissimo. Nel Re Lear di Shakespeare, il re decide di dividere il regno tra le figlie come un dono, ma questo gesto si rivela un tragico errore, che lo porterà alla rovina.

Starobinski ci mostra come il dono, anche quando nasce da un impulso di generosità e creazione, porti sempre con sé una tensione: chi dona si espone, si mette in gioco, si assume un rischio. E il dono, in quanto tale, può essere accettato, rifiutato o addirittura tradito.


Un’opera fondamentale per comprendere il paradosso del dono

"A piene mani: dono fastoso e dono perverso" è un saggio affascinante che costringe il lettore a ripensare il significato di un gesto che consideriamo naturale e spontaneo. Con una prosa elegante e un approccio multidisciplinare, Starobinski svela le insidie e le ambivalenze del dono, dimostrando come dietro la generosità si nascondano sempre dinamiche complesse di potere, vincolo e aspettativa.

Un libro imprescindibile per chiunque voglia approfondire il rapporto tra dono, società e cultura, e un’ulteriore dimostrazione della straordinaria capacità di Starobinski di illuminare le zone d’ombra della condizione umana con lucidità e raffinatezza.

Il dono come fondamento della civiltà

Jean Starobinski, con la sua consueta lucidità e vastità di riferimenti culturali, in "A piene mani: dono fastoso e dono perverso" costruisce un’analisi profonda e sfaccettata del dono, mostrando come questo gesto apparentemente semplice sia in realtà una delle strutture fondamentali della civiltà umana. Il dono è presente ovunque: nella religione, nell’arte, nella politica, nelle relazioni sociali, eppure non è mai un atto unidirezionale. È sempre un atto che lega due persone, due gruppi, due comunità, spesso in modi inaspettati e talvolta pericolosi.

Se nel mondo antico il dono era regolato da precise norme sociali, come il do ut des latino o l’etica dell’ospitalità greca, nel mondo moderno il significato del dono si è frammentato. Da un lato, il dono sopravvive nelle istituzioni filantropiche, nel volontariato, nelle forme di aiuto umanitario; dall’altro, è stato in parte inglobato dalle dinamiche capitalistiche, trasformandosi in uno strumento di marketing e fidelizzazione. L’ambiguità del dono è proprio questa: si muove tra gratuità e obbligo, tra generosità e manipolazione.


Il dono nella tradizione religiosa: tra sacrificio e grazia

Starobinski dedica ampio spazio al ruolo del dono nelle religioni, in particolare nel cristianesimo, nel giudaismo e nelle culture sacrali antiche. Uno degli aspetti più evidenti è la connessione tra dono e sacrificio: nell’Antico Testamento, il sacrificio animale è un’offerta a Dio, un dono che stabilisce un patto tra l’uomo e il divino. Anche nel mondo greco e romano, il sacrificio aveva la funzione di placare le divinità, di assicurarsi il loro favore, dimostrando che il dono religioso non è mai davvero gratuito, ma implica sempre un ritorno.

Il cristianesimo introduce un’idea nuova di dono: la grazia divina è gratuita e non può essere comprata né meritata. Tuttavia, come nota Starobinski, questa apparente gratuità genera un paradosso: se Dio dona la salvezza senza condizioni, chi la riceve si sente in debito, obbligato a vivere secondo un modello di purezza e santità. È il dilemma della teologia protestante: la salvezza è un dono, ma il credente è comunque spinto a dimostrarsi degno di essa.

Questo tema ha profonde implicazioni nella letteratura. In "I fratelli Karamazov", Dostoevskij esplora il peso psicologico del dono divino attraverso la figura di Ivan, che rifiuta un mondo costruito sulla sofferenza e sulla grazia incomprensibile di Dio. Anche in "Il grande inquisitore", il dono della libertà dato da Cristo all’umanità si trasforma in una maledizione, perché gli uomini non sanno cosa farne e preferirebbero esserne privati.


Il dono nell’economia e nella politica: tra mecenatismo e potere

Un altro aspetto cruciale che Starobinski esplora è la funzione politica ed economica del dono. Come aveva già evidenziato Marcel Mauss nel suo "Saggio sul dono", nelle società tradizionali il dono è regolato dalla triade dare, ricevere, restituire. Questo ciclo garantisce la coesione sociale, ma introduce anche una gerarchia: chi dona per primo assume una posizione di potere, perché chi riceve deve ricambiare e quindi entra in una forma di dipendenza.

Nel mondo politico, questa logica è onnipresente. Nell’antica Roma, gli imperatori distribuivano denaro e grano alla plebe con la pratica della largitio, rafforzando così il loro consenso. Nel Rinascimento, il mecenatismo non era solo una forma di sostegno alle arti, ma un modo per costruire alleanze, vincolare gli artisti ai potenti, consolidare il proprio status sociale. Michelangelo, Leonardo, Raffaello, tutti hanno lavorato sotto il patrocinio di papi e principi, e sebbene il loro talento fosse indiscusso, il loro destino era legato ai loro benefattori.

Nell’epoca moderna, il dono è diventato una strategia economica. Le aziende regalano campioni gratuiti per fidelizzare i clienti, le grandi fondazioni finanziano eventi culturali per rafforzare la loro immagine pubblica, le potenze globali offrono aiuti economici a paesi più deboli per esercitare influenza politica. Il dono, dunque, è sempre un’arma a doppio taglio: può essere uno strumento di solidarietà, ma anche un mezzo di controllo e subordinazione.


Il dono e la psicoanalisi: la generosità come forma di potere

Starobinski si sofferma anche sulla dimensione psicologica del dono, analizzandone le implicazioni attraverso la lente della psicoanalisi. Freud, in "Totem e tabù", suggeriva che il dono avesse radici profonde nella psiche umana, legandolo al senso di colpa e al desiderio di riparazione. Quando doniamo, spesso lo facciamo per placare un senso di colpa inconscio, per espiare un’ingiustizia, per bilanciare una relazione affettiva.

Jacques Lacan, invece, vedeva nel dono un atto profondamente ambiguo: chi dona esercita sempre un potere sull’altro, perché chi riceve si trova nella posizione di dover accettare o rifiutare, di dover rispondere. Il dono, quindi, non è mai innocente: può essere un gesto d’amore, ma anche un atto di manipolazione.

Nella letteratura, questa dinamica emerge in numerosi romanzi. In "Papà Goriot" di Balzac, il protagonista sacrifica tutto per le figlie, ma il suo dono si trasforma in una maledizione, perché le figlie si allontanano da lui, incapaci di sopportare il peso della sua dedizione. In "La leggenda del santo bevitore" di Joseph Roth, il protagonista riceve un dono inaspettato, ma il suo senso di colpa e la sua incapacità di accettarlo lo condurranno alla rovina.


Il dono e il tempo: un ciclo infinito

Starobinski conclude il suo saggio con una riflessione sul tempo del dono. Il dono non è mai un atto istantaneo, ma un processo che si sviluppa nel tempo: chi dona si aspetta un ritorno, chi riceve deve decidere quando e come ricambiare. Questo crea un legame che può durare anni, decenni, persino secoli.

Nella cultura giapponese, la pratica del dono è regolata da un rigido codice temporale: se si riceve un regalo, è obbligatorio ricambiare entro un certo periodo, con un dono di valore simile. Nella cultura occidentale, il dono di un’idea, di una scoperta, di un’opera d’arte può essere ricambiato anche a distanza di secoli, attraverso il riconoscimento, l’interpretazione, la celebrazione.

Il dono, insomma, è un nodo che lega passato, presente e futuro. È un atto che sembra gratuito, ma che costruisce relazioni, vincoli, aspettative. In "A piene mani: dono fastoso e dono perverso", Starobinski ci offre una riflessione magistrale su questo paradosso, dimostrando che il dono è uno dei motori nascosti della storia, della cultura e della psiche umana. Un libro imprescindibile per chiunque voglia comprendere le dinamiche sottili e affascinanti che regolano il nostro mondo.

Il dono nell’arte e nella letteratura: creazione, appropriazione e riconoscenza

Uno degli aspetti più affascinanti che Jean Starobinski esplora in "A piene mani: dono fastoso e dono perverso" è la relazione tra dono e arte. L’atto creativo può essere considerato un dono? Gli artisti donano la loro opera al mondo o, al contrario, la impongono, aspettandosi riconoscenza e gloria? La risposta, come sempre in Starobinski, è ambigua e sfaccettata.

Nel mondo classico, la creazione artistica era spesso associata al concetto di dono divino: il poeta era un tramite tra gli dèi e gli uomini, ispirato dalle Muse. Nell’Odissea, Demodoco, il poeta cieco, canta le gesta degli eroi senza alcuna pretesa di ricompensa, come se il suo talento fosse un’offerta spontanea. Ma questa idea romantica dell’artista come “dono per l’umanità” è stata spesso sovvertita: già Platone, nella "Repubblica", vedeva la poesia come un potenziale pericolo, qualcosa che poteva essere usato per sedurre e manipolare.

Starobinski sottolinea come la gratuità dell’arte sia sempre illusoria. Anche i grandi mecenati del Rinascimento non finanziavano artisti per pura generosità: il loro investimento serviva a costruire prestigio e immortalare il proprio nome. Michelangelo e Leonardo da Vinci lavoravano su commissione, e la loro libertà creativa era spesso subordinata ai desideri dei committenti. Lo stesso si può dire di Shakespeare, che scriveva per il teatro commerciale, o di Balzac, che produceva incessantemente romanzi per sfuggire ai creditori.

Eppure, esistono esempi di arte che si configura davvero come dono: pensiamo a Vincent van Gogh, che donava i suoi dipinti al fratello Theo senza mai aspettarsi un ritorno economico, o a Emily Dickinson, che scriveva poesie destinate a rimanere nascoste nei cassetti, senza alcuna volontà di pubblicarle. Anche in questi casi, però, il dono non è del tutto disinteressato: Van Gogh dipingeva con la speranza di essere riconosciuto, e Dickinson, pur nella sua solitudine, desiderava che la sua opera fosse letta un giorno.

Un altro aspetto interessante che Starobinski indaga è il ruolo della dedica nelle opere letterarie. Nei secoli passati, dedicare un libro a un principe o a un mecenate non era solo un gesto di omaggio, ma un vero e proprio scambio: l’autore offriva il suo lavoro in cambio di protezione, fama o sostegno economico. Ancora oggi, le dediche mantengono un valore simbolico: quando uno scrittore dedica un libro a qualcuno, sta compiendo un atto di riconoscenza, ma anche di legame, creando una sorta di vincolo affettivo e culturale.


Il dono e l’amore: seduzione, obbligo, possesso

Se c’è un ambito in cui il dono diventa un’arma potente, è quello dell’amore. Starobinski dedica pagine illuminanti alla dinamica del dono nelle relazioni affettive, mostrando come l’atto di donare possa essere tanto un gesto di generosità quanto uno strumento di potere e controllo.

Nella letteratura amorosa, il dono è spesso un simbolo di seduzione. In "Madame Bovary", Charles regala gioielli a Emma nella speranza di conquistare il suo cuore, ma il suo dono non fa altro che sottolineare la sua inadeguatezza rispetto agli amanti più passionali. In "Le relazioni pericolose", la marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont usano il dono come strumento di manipolazione: lettere, fiori, promesse vengono usate non per dare, ma per intrappolare l’altro in un gioco di potere.

Ma il dono amoroso non è sempre una strategia di conquista: può anche essere un’ossessione, un mezzo per possedere l’altro. In "L’amante di Lady Chatterley", il protagonista, Clifford, incapace di dare amore fisico alla moglie, cerca di compensare con doni materiali, quasi a voler comprare la sua fedeltà. Anche in "Il grande Gatsby", Gatsby inonda Daisy di regali, nel tentativo disperato di riconquistarla, dimostrando come il dono possa diventare una forma di compensazione per un amore impossibile.

Starobinski mette in evidenza anche il lato oscuro del dono amoroso: il ricatto affettivo. Quando un partner offre qualcosa con l’aspettativa implicita di ricevere in cambio amore o fedeltà, il dono si trasforma in una gabbia. Questo è il caso estremo della dote nelle società tradizionali: ciò che dovrebbe essere un dono per la sposa diventa invece un obbligo, un pegno che la vincola al marito.


Il dono nella società contemporanea: tra consumo e resistenza

Uno degli aspetti più originali del saggio di Starobinski è la sua analisi del dono nella società moderna, dominata dal capitalismo e dalla logica dello scambio. Se nelle culture tradizionali il dono serviva a creare legami comunitari, oggi sembra essere stato sostituito dal consumo: ciò che un tempo era gratuito è stato mercificato, e la gratuità stessa è diventata sospetta.

Pensiamo al modo in cui le aziende usano il dono come strategia di marketing: campioni gratuiti, offerte speciali, cashback, regali aziendali. Nulla è davvero gratuito: ogni dono commerciale ha lo scopo di fidelizzare il cliente, di spingerlo a comprare di più. Anche nel mondo digitale, il concetto di gratuità è ambiguo: le piattaforme online ci offrono servizi “gratuiti”, ma in cambio ottengono i nostri dati, trasformando la nostra attenzione in merce di scambio.

Ma esistono ancora forme di dono autentico? Starobinski guarda con interesse al fenomeno del dono collettivo, che si manifesta in movimenti come il software open source, Wikipedia, o il volontariato sociale. In questi contesti, il dono non è più un atto individuale, ma un processo condiviso, in cui la comunità crea e distribuisce valore senza aspettarsi un ritorno immediato.

Un esempio interessante è il crowdfunding: persone che donano denaro per progetti artistici, scientifici o sociali senza alcuna garanzia di successo. In un’epoca in cui tutto è mercificato, il crowdfunding rappresenta una forma di dono spontaneo, un tentativo di sovvertire la logica del profitto per sostenere la creatività e l’innovazione.


Conclusione: il dono come specchio della società

Jean Starobinski, con la sua straordinaria capacità di intrecciare filosofia, letteratura, antropologia e psicoanalisi, ci mostra come il dono sia molto più di un semplice gesto di generosità. È uno strumento di potere, un vincolo sociale, un’arma di seduzione, un atto di fede, una forma di resistenza contro la logica del mercato.

In "A piene mani: dono fastoso e dono perverso", il dono emerge come una forza ambivalente: può unire le persone, ma anche dividerle; può creare legami sinceri, ma anche manipolare e controllare. E soprattutto, il dono non è mai solo un gesto isolato: è sempre parte di un sistema più grande, che riflette le tensioni e i valori di una società.

Alla fine della lettura, ci rendiamo conto che ogni volta che doniamo qualcosa – un regalo, il nostro tempo, un’opera d’arte – stiamo partecipando a un gioco millenario di dare e ricevere, di libertà e obbligo, di generosità e potere. Un gioco che definisce chi siamo e come ci rapportiamo agli altri.

giovedì 28 agosto 2025

Edward Carpenter, o della disobbedienza amorosa. Sesso, classe e utopia tra corpo vissuto e rivoluzione silenziosa


“L’umanità ha fame di affetti liberi, di una tenerezza che non chieda permesso,
di una nudità che non sia umiliazione ma promessa.”


Nel tempo dell’industrializzazione feroce e dell’ipocrisia vittoriana, fra i vapori tossici di Sheffield e le liturgie severe di un’Inghilterra ancora irrigidita nei suoi codici morali e sociali, Edward Carpenter compiva — senza proclami, senza retoriche — una delle più singolari rivoluzioni della modernità: una rivoluzione che non passava per le barricate, ma per i corpi. Non per le istituzioni, ma per gli abbracci. Non per i manifesti politici, ma per le vite condivise. Era una rivoluzione fatta di gesti lenti, di orti, di sandali, di pagine scritte a mano e di carezze proibite. Una rivoluzione amorosa, sessuale, spirituale. Una rivoluzione che aveva il profumo della terra, del sudore, della tenerezza.


L’anomalia incarnata: nascere borghesi, diventare liberi

Edward Carpenter nasce nel 1844 a Hove, nel Sussex, in un’Inghilterra che ancora si specchiava compiaciuta nei suoi imperi coloniali e nei suoi codici penali. Terzo figlio di un banchiere, riceve un’educazione conforme: studia a Brighton e poi a Cambridge, dove si specializza in matematica. Ma sotto la superficie, qualcosa fermenta. Non è un genio ribelle, né un ribaltatore teatrale dell’ordine. È qualcosa di più inquietante: un uomo in ascolto. E ciò che sente, dentro e fuori di sé, è che l’intero sistema su cui si regge la sua società — lo sfruttamento del lavoro, la repressione dei desideri, l’odio verso la differenza — è non solo violento, ma falso. Irreale. Disumano.

Dopo aver preso gli ordini minori come ecclesiastico anglicano, si avvicina progressivamente al pensiero di Walt Whitman, il grande cantore americano del corpo, del maschile, del desiderio fraterno. È proprio da questa attrazione spirituale e sensuale che nasce un carteggio intensissimo, che dura anni e trasforma Carpenter. Whitman diventa per lui un faro: non tanto un maestro da emulare, quanto una chiamata a inventare un nuovo modo di vivere. Da quel momento in poi, tutto cambia. Carpenter lascia l’istituzione religiosa, rifiuta ogni carriera accademica, si immerge nello studio del sanscrito, del pensiero indiano, della Bhagavadgītā. E poi, ancora più decisivo: lascia la città. Sceglie la campagna. La vita comunitaria. Il lavoro manuale.


“Viviamo in ciò che amiamo”: Sheffield, la terra, il desiderio

È a Millthorpe, nei pressi di Sheffield, che Carpenter trova la forma concreta del suo pensiero. Qui si costruisce con le proprie mani una casa semplice, coltiva la terra, ospita amici, viandanti, artisti. Qui può finalmente amare. È qui che incontra George Merrill, un giovane operaio cresciuto nei quartieri più poveri della città, con il quale inizia una relazione che durerà tutta la vita. Nessun contratto, nessuna necessità di ufficialità. Ma un’intimità quotidiana, una vita vissuta come coppia, come famiglia, in pieno disprezzo delle norme sociali.

Ciò che colpisce nella figura di Merrill non è solo la sua biografia, ma il fatto che Carpenter non lo consideri mai “inferiore”, né da istruire né da salvare. Merrill diventa partecipe pieno dell’utopia vissuta. La loro unione — un borghese erudito e un lavoratore non alfabetizzato — sfida non solo l’idea vittoriana dell’amore, ma l’intero sistema classista inglese. Come scriverà Carpenter ne Il sesso intermedio:

“È evidente quanto spesso gli Uraniani di buona educazione siano attratti da tipi più rozzi… e spesso nascono in questo modo alleanze molto durature che […] hanno un’influenza decisiva sulle istituzioni sociali, sui costumi e sulle tendenze politiche.”

Qui emerge chiaramente il cuore della sua filosofia: l’eros omosessuale come strumento di sovversione, di mescolanza, di rottura dei confini tra caste e classi. In questo senso, Carpenter anticipa sia i movimenti libertari queer sia l’ecofemminismo, sia le comunità alternative del secondo Novecento, dai pacifisti americani agli squatter di Christiania.


Scrivere la libertà: una filosofia a piedi nudi

La sua opera è vasta, ma non sistematica. Carpenter non fu mai un accademico, né un teorico nel senso canonico del termine. La sua filosofia nasce dal vivere, non dall’astrarre. Towards Democracy (1883), il suo primo capolavoro, è un poema mistico e politico che canta l’interdipendenza tra gli esseri viventi. È un Vangelo laico. Love’s Coming of Age (1896), invece, esplora la sessualità non come peccato o diritto, ma come possibilità di liberazione personale e sociale.

Con The Intermediate Sex (1908), Carpenter dà uno dei primi contributi fondamentali alla storia della sessualità moderna. Anticipando Kinsey e Foucault, teorizza l’esistenza di “tipi intermedi” tra uomo e donna, e denuncia la costruzione culturale delle identità sessuali. Ma sempre con uno stile semplice, accessibile, radicalmente non elitario.

Ne Civilisation: Its Cause and Cure (1889) affronta invece la malattia delle società moderne: la sovrastruttura della città, della proprietà, della competizione, del patriarcato. La civiltà, scrive Carpenter, non è un’evoluzione, ma una malattia. La cura? Tornare alla semplicità, all’interiorità, alla sensualità del quotidiano. La cura è l’Eros.


Una genealogia silenziosa: da Forster a Gandhi, da Mieli a Butler

Carpenter non creò una scuola. Non fondò movimenti. Ma esercitò un’influenza trasversale e potente. E.M. Forster, che lo frequentò a lungo, si ispirò a lui per Maurice, uno dei primi romanzi omosessuali in lingua inglese. D.H. Lawrence ne recuperò l’intensità mistica e sessuale nei suoi scritti più visionari. Mahatma Gandhi lo visitò nel 1908: ne rimase profondamente colpito. Si dice che Carpenter sia stato una delle fonti principali dell’idea gandhiana di Swaraj (autogoverno), fondato sull’etica individuale e la comunità spirituale.

Negli anni Settanta, Mario Mieli ne riprese — con rabbia e ironia — le intuizioni erotico-politiche, reinterpretandole in chiave marxista. Judith Butler, pur senza citarlo direttamente, sembra proseguire la sua genealogia, quando afferma che il genere è performativo e l’identità sessuale un campo di lotta.


Un pensiero ancora pericoloso

Carpenter è stato dimenticato proprio per la sua pericolosità. Troppo mistico per i marxisti, troppo socialista per i religiosi, troppo omosessuale per gli eterosessuali, troppo spirituale per i materialisti. È un autore che sfugge, che non si lascia ingabbiare. Forse è per questo che oggi lo si riscopre con lentezza, con rispetto, con quel senso di stupore che si prova davanti a qualcosa di profondamente familiare ma dimenticato: come un profumo, un ricordo, un’utopia sepolta.

La sua visione non si limita alla liberazione degli individui, ma riguarda la trasformazione dell’intera struttura del vivere. Il suo sogno non era solo quello di poter amare liberamente, ma che quell’amore generasse una nuova economia dell’affetto, una nuova politica dei corpi, una nuova etica della coesistenza.

In Carpenter, la tenerezza è già insurrezione.


Epilogo: un’eredità che germoglia

Edward Carpenter muore nel 1929, sette anni dopo la scomparsa di George Merrill. Nessuna lapide celebrativa, nessun mausoleo. Ma nelle comunità queer, nei giardini autogestiti, nei collettivi transfemministi, nei testi performativi, nelle danze nudi sotto la luna, la sua voce — dolce, vibrante, gentile e radicale — continua a risuonare.

Le sue parole, oggi, non ci chiedono di seguirlo, ma di immaginarlo ancora. Di ritrovarlo tra le pieghe della realtà, nelle pratiche piccole, negli amori non normati, nei gesti che rifiutano la gerarchia. Carpenter ci insegna che la rivoluzione è un bacio dato in silenzio. Un tè offerto senza aspettativa. Un desiderio vissuto come scelta di mondo.

E allora non basta conoscerlo. Bisogna vivere con lui.
Leggerlo, sì. Ma soprattutto abitarlo.

Come una casa aperta, come un campo da coltivare, come un amore da difendere.

mercoledì 27 agosto 2025

"Pascoli maledetto" di Francesca Sensini: un ritratto totale del poeta


Quando si parla di Giovanni Pascoli, l’immaginario collettivo tende a fissare l’immagine del poeta innocente, quasi infantile, custode di un mondo perduto e ideale. La sua poesia, spesso ridotta a semplici liriche nostalgiche, sembra celebrare l’infanzia, la famiglia e il ritorno al nido. Francesca Sensini, nel suo saggio Pascoli maledetto (Il Melangolo, 2020), capovolge questa prospettiva consolidata, restituendo a Pascoli una dimensione europea, inquieta, maledetta. Il libro non è solo un ritratto biografico, ma un’analisi critica che intreccia vita, opere, contesto storico e riferimenti letterari continentali.

Il saggio parte dalla vita di Pascoli, scavando negli aspetti meno noti: il consumo di laudano, l’alcool, la sofferenza interiore e le dinamiche complesse con le sorelle, in particolare con Maria, figura centrale sia affettivamente che simbolicamente. Questi elementi non vengono trattati come scandali o dettagli morbosi, ma come chiavi interpretative per comprendere la sua poetica. L’inquietudine del poeta, la sua propensione al dolore e alla riflessione sulla morte diventano così motori della sua creatività, elementi strutturali della sua visione del mondo.

La lettura di Sensini mette in luce una dimensione di Pascoli spesso trascurata: la sua ricerca linguistica e stilistica. Contrariamente alla semplificazione che lo vuole fanciullino e melodioso, Pascoli mostra un uso innovativo della lingua: alternanza di registri, giochi fonici, simbolismo raffinato, ritmo e musicalità delle parole. Questi aspetti fanno emergere un poeta profondamente consapevole della propria arte, capace di intrecciare lirica e modernità, nostalgia e tensione esistenziale.

Sensini insiste sull’inserimento di Pascoli nella tradizione europea dei poeti maledetti, come Verlaine e Baudelaire, mostrando affinità ideali e poetiche. La sua poesia, lontana da un sentimentalismo compiaciuto, oscilla tra fascinazione per la morte, ironia, sarcasmo e ribellione morale. In questa luce, la “maledizione” di Pascoli diventa un principio estetico e filosofico, un filo rosso che lega vita e opera, esistenza e scrittura.

L'autrice mostra come la vita di Pascoli sia indispensabile per comprendere le sue scelte poetiche. Le dinamiche familiari, la perdita del padre, il rapporto con le sorelle e l’isolamento sociale sono elementi che permeano i versi del poeta. Maria Pascoli, in particolare, emerge come interlocutrice costante e custode dei segreti poetici del fratello. La sua presenza influisce direttamente sulla costruzione di immagini poetiche e sul senso di protezione e vulnerabilità che caratterizza molte liriche.

Il consumo di laudano e alcool, evidenziato da Sensini, non è descritto come vizio, ma come espressione di tensioni interne e strumento per affrontare il dolore. Questo approccio permette di leggere i testi pascoliani con una maggiore consapevolezza dei processi psicologici e affettivi che li hanno generati. Pascoli non è dunque il poeta delicato e fragile, ma un uomo che lotta con le proprie ossessioni e le trasforma in arte.

Un altro punto di forza del saggio è il confronto con la poesia europea. Sensini evidenzia come Pascoli condivida con i poeti maledetti caratteristiche fondamentali: l’inquietudine esistenziale, la tensione verso l’oltre, la fascinazione per la morte e il dolore. Non è solo questione di stile o linguaggio, ma di una visione del mondo che rompe con la tradizione consolatoria e rassicurante. La malinconia, la sofferenza e l’ironia diventano strumenti di conoscenza poetica e di esplorazione interiore.

In questo contesto, Pascoli emerge come figura moderna e anticipatrice: non chiuso nella dimensione intimista italiana, ma aperto a dialoghi culturali e letterari con il continente europeo. L’analisi di Sensini porta a riscoprire analogie tematiche e stilistiche con Verlaine, come la musicalità dei versi, e con Baudelaire, come l’attenzione al simbolo e al lato oscuro della vita.

Sensini non si limita alla biografia: approfondisce anche la lettura di testi specifici, mettendo in evidenza la complessità e l’originalità della poesia pascoliana. La musicalità delle parole, l’uso di immagini simboliche e la tensione fra dolore e ironia vengono letti come tratti distintivi della sua poetica. Ad esempio, le poesie della raccolta Myricae mostrano come il poeta sappia combinare semplicità apparente e profondità filosofica. Ogni verso, ogni pausa, ogni suono è scelto per generare effetto emotivo e riflessione critica.

La capacità di Pascoli di trasformare esperienze intime e familiari in poesia universale viene analizzata con grande dettaglio. La morte del padre, la solitudine, le ossessioni quotidiane si riflettono nei temi ricorrenti: il nido, la casa, la natura come specchio di stati d’animo e simbolo di precarietà e vulnerabilità. Sensini riesce a coniugare lettura filologica e interpretazione critica, restituendo al lettore la complessità di un autore che ha troppo spesso subito riduzioni didattiche.

Il lavoro di Sensini è stato accolto positivamente dalla critica accademica. Francesco De Nicola sottolinea come il libro smonti il cliché del Pascoli lacrimoso e fragile, presentandolo invece come un poeta vivace, ironico e rivoluzionario. Alberto Fraccacreta, su Luigia Sorrentino, evidenzia la capacità del saggio di rendere giustizia alla modernità di Pascoli, restituendone la complessità e la sperimentazione consapevole.

L’opera viene apprezzata non solo per il rigore filologico, ma anche per la capacità di offrire una nuova prospettiva, integrando biografia, analisi dei testi e confronto europeo. In questo senso, Pascoli maledetto si colloca tra i contributi più significativi degli ultimi anni per la critica letteraria italiana contemporanea.

Pascoli maledetto non è semplicemente un libro biografico o critico: è un invito a rileggere Giovanni Pascoli nella sua interezza, a scoprire il poeta inquieto, tormentato, moderno e profondamente europeo. Sensini ci mostra un autore che, pur radicato nella tradizione italiana, dialoga con il continente, con la malinconia dei poeti maledetti, con la ricerca di senso e bellezza in un mondo complesso.

Il testo apre una nuova prospettiva su Pascoli: un poeta consapevole, audace, capace di trasformare dolore e inquietudine in arte. La sua poesia emerge come esperienza esistenziale, riflessione filosofica e sperimentazione linguistica. Pascoli maledetto è quindi una lettura indispensabile per studiosi, studenti e appassionati, offrendo strumenti per comprendere un autore che merita di essere riscoperto al di là dei luoghi comuni.

Disponibile sul sito dell’editore Il Melangolo, il libro rappresenta un contributo fondamentale alla critica letteraria contemporanea, capace di risvegliare l’interesse per uno dei poeti più complessi e sottovalutati della nostra tradizione.


martedì 26 agosto 2025

Paesaggi dell’io, cromatismi della cura: L’opera pittorica di Anthony Hurd tra astrazione emotiva e visibilità queer




1. Introduzione: una poetica della presenza

Anthony Hurd (n. 1985), artista queer statunitense nato nella Bay Area e oggi attivo tra Albuquerque e Los Angeles, ha costruito una traiettoria artistica che si distingue per l’intensità espressiva del colore, la forza affettiva delle immagini e una decisa attenzione al tema della rappresentazione. Pittore autodidatta nella pratica ma formato ufficialmente presso il California College of the Arts (BFA, 2009), Hurd emerge nel panorama dell’arte contemporanea americana con una voce autonoma, capace di coniugare introspezione emotiva e tensione politica.

La sua opera si sviluppa a partire da un’astrazione densa e psicologicamente stratificata, per poi evolvere verso una figurazione queer lirica e dichiarativa. Questo passaggio — tutt’altro che lineare — è frutto di una ricerca personale e di un’urgenza di visibilità che ha radici profonde nell’esperienza biografica e collettiva dell’essere queer in America. In un’intervista rivelatrice, l’artista ha affermato: *«I paint what I needed to see growing up»*¹.



2. Gli “Inner Landscapes”: astrazione come cartografia affettiva

Le prime opere di Hurd, da lui stesso indicate come “inner landscapes”, rappresentano tentativi di traduzione emotiva attraverso forme non referenziali: vortici, curve, masse di colore, linee spezzate, gradienti cromatici che evocano instabilità, mutamento, moltiplicazione. In questa prima fase, il linguaggio pittorico attinge a un’espressività interiore non mediata, dove il gesto astratto si fa equivalente della tensione psichica.

Il legame con l’espressionismo astratto americano è evidente, ma Hurd ne sovverte l’epica muscolare e virilista, riscrivendola in chiave vulnerabile e soggettiva. I suoi dipinti non hanno la monumentalità di un Pollock, bensì la densità emotiva di Joan Mitchell o le liriche cromatiche di Helen Frankenthaler. Allo stesso tempo, la sua pratica si avvicina a quanto Julia Kristeva ha chiamato il “semiotico” — una forma prelinguistica di comunicazione radicata nel corpo e nell’affettività².

La materia pittorica — prevalentemente acrilico, spesso stratificato con precisione — diventa così superficie emotiva, quasi cutanea, sulla quale il soggetto inscrive il proprio vissuto. L’assenza di figura non è privazione, ma scelta strategica: si evita la semplificazione dell’identità a favore di una rappresentazione complessa della coscienza, dove ogni elemento della composizione concorre alla costruzione di un paesaggio mentale.


3. La svolta figurativa: dichiarazioni visive e relazionali

A partire dal 2022, Hurd inizia a introdurre figure riconoscibili nelle sue opere. Il passaggio si consolida con la mostra personale Verified (Brand Library & Art Center, Glendale, 2023), che segna un momento chiave nella sua carriera. In questa nuova fase, il soggetto queer diviene protagonista della scena pittorica: volti, corpi, mani, coppie, animali simbolici, paesaggi naturali vengono rappresentati con una nuova intensità visiva.

La figurazione non tradisce l’astrazione precedente, ma la ingloba, la sfuma, ne eredita la forza affettiva. L’uso del colore resta centrale, ma assume una funzione ulteriormente narrativa. Il gesto non è più solo introspezione: è presa di parola, apparizione, affermazione. I titoli delle opere di questo periodo — Love Is A Protest, Refuge, We Are All Worthy of Love — hanno la funzione di dichiarazioni poetiche e politiche. Il corpo queer, spesso marginalizzato o escluso dall’iconografia canonica, viene qui non solo rappresentato, ma celebrato³.

In questo senso, la pittura di Hurd si inserisce nella linea di una figurazione queer contemporanea che include artisti come Salman Toor, Louis Fratino, Shona McAndrew o Doron Langberg, accomunati dalla volontà di riscrivere un immaginario visivo in cui corpi, affetti e desideri queer non siano né eccezionali né trasgressivi, ma semplicemente reali e presenti.


4. Natura, comunità e utopia visiva

Un tratto distintivo della fase figurativa di Hurd è la presenza costante della natura: cieli stellati, alberi, lune, campi fioriti, colline. La natura non è mai sfondo passivo, ma partecipe, materna, viva. Le figure umane — spesso nude, spesso accoccolate l’una all’altra — vi sono immerse in maniera quasi osmotica. Questa compenetrazione tra corpo e paesaggio può essere letta come un ritorno al “romanticismo queer”: un’estetica in cui l’intimità e la vulnerabilità diventano forme di bellezza e resistenza.

In tale visione, il paesaggio assume la funzione di spazio utopico, come teorizzato da José Esteban Muñoz nel suo Cruising Utopia⁴. La pittura diviene un luogo in cui ciò che è negato nella realtà può esistere: la coppia queer che si abbraccia in pubblico, il corpo non conforme che si espone senza paura, la comunità affettiva che si riconosce nello sguardo dell’altro.

Queste immagini, lungi dall’essere idealizzate, sono radicalmente politiche: come afferma bell hooks, *“love is an act of will, the intention to nurture one’s own or another’s spiritual growth”*⁵. Nella visione di Hurd, l’amore — sia romantico, che familiare, che comunitario — non è mai banale, ma pratica trasformativa. E la pittura ne diventa testimone.


5. Tra digitale e pittura: un’estetica dell’ibrido

Pur essendo pittore tradizionale per formazione e pratica, Hurd utilizza strumenti digitali — AI generativa, software di composizione — come parte del processo creativo. Questo non ne fa un “artista digitale”, ma un autore consapevole della complessità mediale dell’immagine contemporanea. Le bozze digitali, infatti, vengono poi trasposte in pittura acrilica su tela o su legno, con una cura che restituisce alla materia la sua forza tattile.

Questa tensione tra virtuale e reale, tra idea e corpo, tra schermo e superficie, si riflette nella composizione: figure nitide e colori saturi si mescolano a sfondi eterei, nebulosi, attraversati da luci oniriche. Il risultato è un’estetica dell’ibrido, dove si incontrano pittura, illustrazione, grafica, spiritualità e desiderio. In questo senso, Hurd contribuisce a una rinegoziazione del medium pittorico nel XXI secolo, senza nostalgie e senza rotture: piuttosto, con una visione fluida e inclusiva del fare arte.


6. Conclusioni: per una semantica queer dell’affetto

Anthony Hurd è tra gli artisti contemporanei che meglio incarnano una “semantica queer dell’affetto”, in cui il linguaggio visivo si mette al servizio della cura, della memoria e dell’immaginazione politica. La sua pittura non si limita a rappresentare soggetti queer, ma li mette in relazione, li riconosce, li ama. Essa parla della fatica di esistere e della gioia possibile, del trauma e della guarigione, della solitudine e della tenerezza.

Il valore della sua opera risiede proprio in questa capacità di tenere insieme vulnerabilità e visione, intimità e gesto pubblico, individualità e appartenenza. In un mondo ancora segnato da cancellazioni simboliche e violenze materiali, le tele di Hurd offrono non tanto una risposta, quanto un gesto: quello di chi, dopo il silenzio, si fa vedere, si lascia guardare, e — senza gridare — resta.


Note

  1. Intervista a Anthony Hurd, Painting Through Big Emotions: Celebrating Queer Representation and Learning to Be Happy, MakersPlace, giugno 2023: https://rare.makersplace.com/2023/06/19/painting-through-big-emotions-celebrating-queer-representation
  2. Kristeva, Julia. La révolution du langage poétique. Paris: Seuil, 1974.
  3. Vedi ad esempio le opere Love Is A Protest e Celebrating Existence, esposte a Thinkspace Projects, Los Angeles, giugno 2025.
  4. Muñoz, José Esteban. Cruising Utopia: The Then and There of Queer Futurity. NYU Press, 2009.
  5. hooks, bell. All About Love: New Visions. William Morrow, 2000.

Bibliografia essenziale

  • Ahmed, Sara. The Cultural Politics of Emotion. Edinburgh University Press, 2004.
  • Butler, Judith. Giving an Account of Oneself. Fordham University Press, 2005.
  • Jones, Amelia. Seeing Differently: A History and Theory of Identification and the Visual Arts. Routledge, 2012.
  • Lorde, Audre. Sister Outsider. Crossing Press, 1984.
  • Reckitt, Helena (ed.). Art and Feminism. Phaidon Press, 2001.
  • Taylor, Marvin J. (ed.). The Queer Art of Failure. Duke University Press, 2011.


Chris & Don: A Love Story




Christopher Isherwood nacque in Inghilterra nel 1904, in una famiglia che custodiva con fierezza il proprio retaggio militare e aristocratico. Suo padre cadde durante la Prima guerra mondiale, e quell’assenza si trasformò presto in un’ombra che segnò il giovane Christopher: gli eroi che morivano in trincea, osannati come martiri dell’impero, apparivano ai suoi occhi meno come esempi di coraggio e più come vittime di una catastrofe insensata. Cresciuto in un ambiente di disciplina, di aspettative e di obblighi, cominciò a intuire che la sua strada sarebbe stata quella della fuga, della ribellione, del racconto di sé come alternativa a una vita preconfezionata. Cambridge lo accolse solo per un tempo breve e distratto: non sopportava la rigidità accademica e preferì abbandonare l’università, primo segnale di una insofferenza che lo avrebbe accompagnato sempre. La scrittura e l’esperienza vissuta sarebbero state i suoi veri maestri.

Il destino volle che nel 1925 si riallacciasse a un compagno intravisto anni prima, Wystan Hugh Auden. Allora entrambi erano giovani, ma Auden portava già in sé la forza del poeta che sarebbe diventato. Fra loro nacque un rapporto ambiguo e fertile: amici, amanti occasionali, ma soprattutto complici in una stagione di esplorazione letteraria e umana. Auden gli affidava le proprie poesie in cerca di giudizio e di guida, mentre Isherwood ricambiava offrendo uno sguardo critico e un incoraggiamento costante. L’incontro con Auden fu decisivo perché lo introdusse a un mondo di giovani scrittori come Stephen Spender, animati dal desiderio di rompere con il passato, di sperimentare, di dare voce a un tempo nuovo. Erano gli anni in cui l’Inghilterra, pur scossa dalla guerra appena finita, restava aggrappata alle proprie convenzioni: quel piccolo circolo di poeti e narratori rappresentava una scintilla di irrequietezza.

Nel 1928 Isherwood pubblicò il suo primo romanzo, "All the Conspirators", storia antieroica di un giovane sconfitto dalla madre. Era un racconto che affondava direttamente nella sua esperienza, specchio del conflitto mai risolto con la figura materna. Lo stile, ancora vicino al pastiche modernista, mescolava influenze di Joyce e Virginia Woolf, ma lasciava intravedere una chiarezza narrativa che lo avrebbe distinto dai suoi contemporanei. La scrittura era già per lui uno strumento di liberazione: raccontare significava spezzare catene. In quello stesso anno, tuttavia, tentò un percorso diverso, iscrivendosi a medicina a Londra. Durò poco. L’esperimento fu interrotto quasi subito, e il richiamo di Auden, che lo invitava a Berlino, risultò irresistibile. Con quel viaggio cominciò una nuova vita.

Berlino alla fine degli anni Venti era un caleidoscopio. La Repubblica di Weimar viveva un periodo fragile e febbrile: l’inflazione, le tensioni politiche, i fermenti culturali, le avanguardie artistiche, i cabaret. Per Isherwood la città apparve come un paradiso di libertà sessuale. Egli stesso non ne fece mistero: era arrivato in cerca di ragazzi, e li trovò. Fra loro Heinz, che divenne il suo primo grande amore, un ragazzo fragile, bellissimo, la cui storia personale si sarebbe intrecciata tragicamente con la violenza crescente del nazismo. Berlino era, per lui, non solo un luogo di piaceri ma una scuola di vita. Frequentò ambienti clandestini, osservò il sottobosco della prostituzione maschile, partecipò a feste, relazioni, avventure. Ma non si limitò a vivere: scrisse, testimoniò, annotò. Nei suoi libri successivi, e nei commenti che lasciò agli editori, riconobbe in opere come "Der Puppenjunge" la verità di quel mondo che egli stesso aveva attraversato.

In quegli anni incontrò persone destinate a diventare icone letterarie attraverso la sua penna. Jean Ross, giovane aspirante cantante inglese, fu il modello da cui nacque la figura di Sally Bowles, con il suo trucco marcato e la sua sfrontata leggerezza. Gerald Hamilton, avventuriero ambiguo, divenne Mr. Norris, protagonista di un romanzo in cui la Berlino degli anni Trenta emergeva in tutta la sua ambivalenza. Le pagine di Isherwood, a partire da "Mr. Norris Changes Trains" (1935) fino a "Goodbye to Berlin" (1939), fissarono un’epoca che stava per svanire. Il crepuscolo della Repubblica di Weimar, con i suoi cabaret scintillanti e le sue ombre minacciose, sopravvive oggi soprattutto attraverso lo sguardo di Isherwood. Da quelle pagine nasceranno adattamenti teatrali e cinematografici: il dramma "I Am a Camera", poi il musical "Cabaret" e il film di Bob Fosse. Pochi scrittori videro la propria esperienza personale diventare, decenni dopo, un mito culturale di portata mondiale.

Nel 1931, durante un ritorno a Londra, avvenne un incontro decisivo: quello con E. M. Forster. Già autore di romanzi celebri, Forster riconobbe in Isherwood un talento da sostenere. Fra i due nacque un legame profondo, fatto di confidenze e di incoraggiamento. Forster, che aveva scritto "Maurice" ma lo teneva nel cassetto per paura dello scandalo, vedeva nel giovane Christopher la possibilità di una libertà che lui stesso non aveva osato vivere. Il secondo romanzo di Isherwood, "The Memorial" (1932), con il suo tema del conflitto fra madre e figlio, fu scritto proprio in quel periodo, con il sostegno morale del suo nuovo mentore.

Gli anni berlinesi furono anche segnati da un primo incontro con il cinema. Tornato a Londra, Isherwood collaborò con il regista Berthold Viertel, esperienza che divenne la base del romanzo "Prater Violet" (1945). Fu allora che cominciò a intuire come la scrittura potesse nutrirsi di più mondi: narrativa, cinema, teatro, diario. Intanto la situazione politica in Germania si faceva sempre più minacciosa. Con l’ascesa di Hitler, Berlino non era più la città della libertà, ma un luogo che si preparava alla persecuzione e alla guerra.

Nel 1939 Isherwood lasciò l’Europa e si trasferì negli Stati Uniti, stabilendosi a Hollywood. Qui cominciò una nuova stagione. A Los Angeles entrò in contatto con Gerald Heard, carismatico intellettuale che lo introdusse a un circolo di pensatori e artisti: Aldous Huxley, Bertrand Russell, Jiddu Krishnamurti. Grazie a loro si avvicinò al Vedanta, alla spiritualità indiana e all’insegnamento di Swami Prabhavananda. Per Isherwood, che aveva vissuto la vita come immersione radicale nella realtà, la spiritualità fu una nuova forma di ricerca, non un rifugio evasivo. Continuò a scrivere con la stessa limpidezza, ma arricchito da uno sguardo più ampio. La sua vita californiana lo mise in contatto con figure come Igor Stravinsky e Ray Bradbury. Con quest’ultimo l’incontro fu del tutto casuale, in una libreria di Los Angeles: un gesto di incoraggiamento da parte di Isherwood contribuì ad avviare la carriera dello scrittore di fantascienza, che gli restò grato.

Il 14 febbraio 1953, giorno di San Valentino, Isherwood incontrò sulla spiaggia di Santa Monica Don Bachardy, diciottenne, lui già quarantanovenne. La loro relazione, per molti scandalosa, si trasformò in un legame che durò fino alla fine della vita di Isherwood. All’inizio Bachardy fu giudicato con malizia, considerato da alcuni una sorta di “prostituta bambina”. Ma gli anni dimostrarono il contrario: la loro fu una storia d’amore autentica, che resistette al tempo e agli sguardi malevoli. Bachardy divenne un artista autonomo, un ritrattista di grande talento, autore di opere che raffigurarono celebrità e personalità pubbliche, fra cui il governatore Jerry Brown. I suoi ritratti più celebri restano forse quelli di Isherwood negli ultimi anni: volti scavati, intensi, che non nascondono nulla della malattia e del tempo che passa. Erano un atto di amore e di verità.

Negli stessi anni Isherwood insegnò scrittura creativa al Los Angeles State College. Non era un docente accademico nel senso classico: incoraggiava i giovani a scrivere di sé, a non aver paura di trasformare la vita in letteratura. Continuava a credere che l’esperienza fosse la vera materia dello scrittore. "The World in the Evening" (1954) nacque in quel periodo, scritto con la collaborazione pratica di Bachardy, che ne batté a macchina il manoscritto.

Isherwood morì nel 1986, a Santa Monica. Aveva attraversato gran parte del Novecento, trasformando la sua esistenza in un racconto che univa l’Europa e l’America, la vita privata e la grande storia, la sessualità e la spiritualità, la ribellione e la ricerca di armonia. La sua memoria sopravvive in una targa a Berlino, nella casa di Schöneberg dove aveva vissuto, ma soprattutto nei libri che hanno ispirato intere generazioni. E sopravvive anche nell’immagine di lui e di Bachardy, due uomini che, nonostante i pregiudizi, seppero vivere insieme tutta una vita, documentata con tenerezza nel film "Chris and Don".

Christopher Isherwood resta una figura luminosa e complessa: scrittore capace di guardare il mondo con occhi limpidi, cronista di epoche che stavano crollando, ma soprattutto uomo che trasformò la propria vita in un laboratorio di verità. Nei suoi romanzi, nei suoi diari, nelle sue confessioni, si percepisce sempre una tensione fra il desiderio e il tempo, fra l’individuo e la società. Non cercò mai di travestire la realtà, ma di dirla, anche quando sembrava scandalosa. Così ha lasciato un’eredità che non appartiene solo alla letteratura, ma alla storia della libertà.


lunedì 25 agosto 2025

Sul filo del cabaret: Isherwood, Sally Bowles e la fluidità queer tra storia e contemporaneità

Addio a Berlino, prima di essere una testimonianza storica, è un esperimento letterario unico: Christopher Isherwood decide di raccontare non tanto la propria vita, quanto un mondo che gli scorre davanti agli occhi e che, al momento stesso in cui lo osserva, è già un relitto in formazione. Non c’è linearità narrativa, non c’è un vero intreccio romanzesco, ma piuttosto un insieme di frammenti, di schizzi dal vivo, di personaggi che appaiono e scompaiono come se il narratore li catturasse solo nell’attimo in cui la vita li porta sulla sua strada. È una scrittura di superficie che, proprio perché non cerca di approfondire psicologie o biografie, restituisce con più forza l’immediatezza di un’atmosfera irripetibile. In questo senso, Isherwood diventa davvero “una macchina fotografica”, come lui stesso si definisce: registra, fissa, cattura volti e scene senza aggiungere troppa interpretazione, ma lasciando che sia il lettore a intuire ciò che si nasconde sotto quella patina di vitalità e leggerezza.

Eppure, proprio questa leggerezza porta con sé un peso enorme. Ogni personaggio che incontriamo – dalla celebre Sally Bowles, che diventerà il simbolo stesso di questo universo, fino alle figure minori di gigolò, piccoli truffatori, famiglie borghesi in crisi o proletari schiacciati dalla miseria – vive come se il futuro non esistesse. Ci si lascia trascinare dal piacere, dalla festa, dalla seduzione, o anche solo dalla lotta quotidiana per sopravvivere, ma sempre con l’impressione che tutto sia provvisorio, che nulla possa durare. La Berlino di Isherwood è infatti una città-limite, un luogo che sta già scivolando verso la catastrofe, anche se i suoi abitanti fingono di non accorgersene. Il nazismo è lì, appena dietro l’angolo: ancora citato solo di sfuggita, come una presenza lontana, ma percepibile come una minaccia che cresce. Questa sospensione – la vita che continua come se nulla stesse per accadere, mentre in realtà si è già oltrepassata la soglia – è la vera forza del libro. Isherwood riesce a rendere tangibile quella sensazione di ballare sull’orlo dell’abisso, di godere mentre il mondo va in pezzi.

Quando Bob Fosse decide di portare questo materiale sullo schermo, non fa una semplice trasposizione: compie una metamorfosi. Il musical Cabaret prende spunto da Addio a Berlino e da altre opere di Isherwood, ma le rielabora attraverso un linguaggio spettacolare che unisce musica, danza e allegoria. Il Kit Kat Klub non è solo un locale notturno, ma diventa un microcosmo simbolico: dentro le sue mura si concentra tutto ciò che nella città è frammentato. La sensualità, la libertà sessuale, il gioco con i generi e le identità, l’ironia corrosiva, ma anche la crudeltà e la deformazione, si fondono in un unico spettacolo. E questo spettacolo, a sua volta, riflette il mondo esterno, lo commenta e lo deforma. I numeri musicali non sono semplici intermezzi, ma vere parabole visive: ognuno di essi lascia intravedere il volto oscuro della realtà che avanza.

Il maestro di cerimonie – reso indimenticabile da Joel Grey – diventa così una figura archetipica: con il suo sorriso esagerato e inquietante, è allo stesso tempo seduttore, clown e demone. La sua presenza, che scandisce ogni passaggio del film, rende evidente ciò che Isherwood lasciava solo intuire: l’orrore è già dentro la festa, l’abisso è già iscritto nei sorrisi e nei corpi che danzano. Fosse costruisce un linguaggio in cui il cabaret si fa specchio deformante della storia: un gioco di luci e ombre che smaschera la follia collettiva. E proprio in questo consiste la sua grande intuizione: se Isherwood ci dà la fotografia di un mondo che scivola verso il baratro, Fosse ci mostra la tragedia di un’umanità che applaude mentre la catastrofe si prepara dietro le quinte.

Il passaggio dal libro al film è dunque un passaggio di tono e di prospettiva. Nel libro, la tragedia è accennata, come una nota di sottofondo che accompagna i ritratti dei personaggi; nel film, diventa tema dominante, messo in scena con una potenza iconica che non lascia scampo. Laddove Isherwood preferiva restare in superficie, offrendo immagini rapide e quasi impressionistiche, Fosse affonda la lama e trasforma ogni scena in un’allegoria politica. Non si tratta solo di raccontare la Berlino dei primi anni Trenta, ma di mostrare, attraverso un gioco teatrale, come l’umanità intera possa farsi complice della propria rovina.

È per questo che, alla fine, sia il libro che il film non sono semplici cronache del passato, ma parabole universali. In entrambi i casi, ciò che rimane al lettore o allo spettatore non è la sensazione di aver appreso un pezzo di storia, ma quella di aver assistito a una verità che parla a tutte le epoche: la fragilità delle libertà, la facilità con cui una società si lascia sedurre dal divertimento mentre la violenza si insinua, la tentazione di voltarsi dall’altra parte mentre il potere si prepara a cancellare tutto. In questo senso, Addio a Berlino e Cabaret sono due versioni della stessa tragedia: il racconto di un mondo che continua a ballare mentre l’abisso si spalanca sotto i suoi piedi.


Partiamo da lei, Sally. Nel libro di Isherwood non è la protagonista assoluta, ma una figura tra le tante: una ragazza inglese frivola, con ambizioni artistiche piuttosto modeste, tratti spesso ridicoli, ingenuità infantili e una vitalità che si consuma in sé stessa. È descritta come un’attrice mancata, una cantante mediocre, una giovane che più che vivere recita la vita. Isherwood ne coglie i difetti senza pietà, ma anche con una sorta di compassione distaccata: Sally è un frammento di quell’umanità precaria che popola la Berlino degli anni Trenta, un sintomo della leggerezza disperata con cui molti tentavano di evadere dal presente. Nulla lascia pensare, in quelle pagine, che diventerà un’icona.

Eppure, il teatro e poi il cinema ne faranno proprio questo: un mito. Nell’adattamento teatrale di I Am a Camera (1951), e soprattutto nel musical Cabaret (1966) di Kander e Ebb, Sally Bowles assume una centralità assoluta. Quando poi Bob Fosse porta tutto al cinema nel 1972, affidando la parte a Liza Minnelli, la metamorfosi è completa: da personaggio letterario un po’ meschino diventa un’eroina pop. Minnelli non interpreta la Sally fragile e squallida di Isherwood, ma una creatura esplosiva, magnetica, ambigua e irresistibile. Il suo caschetto nero, i collant, la voce roca e le canzoni (“Maybe this time”, “Cabaret”) hanno fissato un’immagine che travalica il contesto storico: Sally diventa la maschera della libertà sessuale, della sfrontatezza, della ribellione contro i conformismi.

Questa metamorfosi non è solo un dettaglio di adattamento, ma un fenomeno culturale di enorme portata. La Sally Bowles di Minnelli, infatti, ha segnato l’immaginario queer internazionale. Negli anni Settanta, mentre esplodevano i movimenti di liberazione sessuale, la sua figura incarnava un’energia androgina, un eros sghembo, un desiderio di vivere senza freni in un mondo che invece chiedeva ordine e disciplina. Il suo modo di cantare, di ballare, di guardare la macchina da presa con ironia e sfida, ha trasformato un personaggio letterario marginale in un’icona della cultura pop. E proprio per questo, paradossalmente, la Sally di Fosse-Minnelli è molto meno “realistica” di quella di Isherwood, ma molto più “vera”: ha saputo incarnare un bisogno collettivo di libertà.

Qui si inserisce la differenza tra il libro e il film. Addio a Berlino è una cronaca che, pur nella sua trasfigurazione letteraria, resta incollata al dettaglio, alla realtà minuta. Sally è una voce in quel coro, non diversa dalle altre. Cabaret, invece, prende quella voce e la trasforma in un urlo. L’arte di Fosse sta proprio in questo: aver compreso che il musical non poteva limitarsi a illustrare un’epoca, ma doveva amplificarla, darle corpo, trasformarla in mito. Il Kit Kat Klub, con i suoi numeri spettacolari, diventa un teatro nel teatro, un’allegoria politica in cui il desiderio di divertirsi è inseparabile dal precipizio che si prepara.

Ed è così che si crea il cortocircuito: mentre Sally e i suoi compagni continuano a cantare, ballare, bere, amare, la Germania si consegna al nazismo. La forza del film sta nell’aver reso questo contrasto visibile, musicale, inevitabile. Nel libro lo si avverte come una vibrazione sotterranea; nel film esplode a ogni scena, fino alla famosa sequenza del canto “Tomorrow belongs to me”, che mostra in modo lancinante come la giovinezza e l’innocenza possano essere assorbite da un’ideologia mortifera.

Il confronto tra Isherwood e Fosse, dunque, non è solo un confronto tra letteratura e cinema, ma tra due modi diversi di guardare al passato. Isherwood scrive da esule, da osservatore che già sa cosa accadrà e lo lascia trasparire senza mai gridarlo. Fosse, invece, parla a un pubblico degli anni Settanta, che si trova di fronte ad altre crisi (il Vietnam, Watergate, i movimenti giovanili, le lotte per i diritti civili) e sceglie di urlare il messaggio: attenzione, il divertimento può diventare complicità, la leggerezza può trasformarsi in tragedia.

Il risultato è che Addio a Berlino rimane un documento letterario prezioso, un mosaico fragile che ci restituisce l’atmosfera di un’epoca al tramonto; Cabaret diventa invece un mito popolare, un avvertimento politico e un’icona culturale. Non a caso, mentre il libro rimane confinato nel mondo della letteratura e della critica, il film ha invaso la cultura di massa, l’immaginario queer, il teatro musicale e persino la moda.

E alla fine, proprio questo sdoppiamento fa la loro forza. L’uno senza l’altro sarebbe incompleto: senza il libro, non avremmo l’istantanea reale della Berlino di Weimar, con le sue strade, le sue pensioncine, le sue miserie; senza il film, non avremmo l’icona universale che ha trasformato quella cronaca in una leggenda, una parabola che parla ancora oggi a chiunque viva sulla soglia tra libertà e minaccia, tra festa e catastrofe.


Quando Isherwood pubblicò Addio a Berlino nel 1939, il libro fu letto e apprezzato soprattutto come testimonianza sulla Germania di Weimar e come tassello di un genere allora in auge, quello della narrativa-reportage. Certo, Isherwood aveva già un suo ruolo nella scena letteraria inglese, e il libro fu accolto bene dalla critica, ma non era destinato a trasformarsi in un fenomeno popolare. Era considerato un’opera raffinata, una cronaca dalla forza documentaria e letteraria, che trovava la sua collocazione tra i lettori colti e in un pubblico sensibile alle vicende europee. Nonostante la vivacità dei personaggi, Sally compresa, nessuno poteva immaginare che quelle figure sarebbero diventate simboli universali.

Il primo salto avviene con l’adattamento teatrale I Am a Camera di John Van Druten (1951), che portò sul palcoscenico la figura di Sally Bowles. Lo spettacolo ebbe successo a Broadway e contribuì a far circolare il nome di Isherwood in un pubblico più vasto, ma era ancora lontano dal mito. Fu con Cabaret, il musical di Kander e Ebb del 1966, che la metamorfosi prese davvero forma: la Sally interpretata da Jill Haworth, e poi da Liza Minnelli nel film del 1972, divenne una creatura esplosiva, un’icona che travalicava la pagina scritta.

E qui accade qualcosa di straordinario: la fama del film rimbalza all’indietro e illumina retroattivamente il libro. Addio a Berlino, fino a quel momento conosciuto soprattutto negli ambienti letterari, diventa improvvisamente la “fonte” di un mito popolare. Le vendite crescono, le traduzioni si moltiplicano, e il nome di Isherwood viene associato sempre di più a Sally Bowles e alla Berlino di Weimar. Di fatto, Cabaret ridisegna la percezione dell’autore, facendone non solo uno scrittore di qualità, ma una sorta di testimone privilegiato di quell’epoca.

Ma non si tratta soltanto di un aumento di notorietà. La ricezione di Cabaret ha un effetto decisivo anche sulla collocazione di Isherwood nella storia della cultura queer. Negli anni Settanta, infatti, Isherwood è ormai apertamente gay, vive negli Stati Uniti con Don Bachardy, il suo compagno di lunga data, e ha iniziato a raccontare sempre più esplicitamente la propria esperienza omosessuale. Il successo del film di Fosse, con la sua carica erotica ambigua, con la rappresentazione di amori fluidi e identità in trasformazione, ha spianato la strada a una nuova lettura del libro: non più solo come cronaca di un’epoca, ma come documento di una sensibilità queer in anticipo sui tempi.

In altre parole, Cabaret ha funzionato come lente retrospettiva: ha reso visibile, in controluce, la modernità di Isherwood. Ciò che negli anni Trenta era apparso come una cronaca di costume, negli anni Settanta diventa una testimonianza su desideri, identità e relazioni che solo allora cominciavano a trovare spazio nella cultura di massa. La figura di Sally Bowles, ma anche quella del narratore distaccato e osservatore, vengono reinterpretate alla luce della liberazione sessuale e dei movimenti gay. È come se Fosse avesse “rivelato” ciò che nel libro era presente in modo carsico: l’idea che la Berlino di Weimar fosse stata non solo un luogo di crisi politica, ma anche un laboratorio di libertà sessuale e identitaria.

Da quel momento, Isherwood non è più semplicemente uno scrittore inglese emigrato in America. Diventa un autore di culto, un punto di riferimento per la memoria queer internazionale. Le sue opere successive, come Christopher and His Kind (1976), vengono lette come un’autobiografia senza veli, in cui l’autore racconta con maggiore libertà la sua vita omosessuale a Berlino e altrove. E qui il cerchio si chiude: ciò che era stato velato o trasfigurato in Addio a Berlino, ciò che era stato trasformato in mito da Fosse, ora Isherwood lo rivendica in prima persona. È un passaggio fondamentale per la letteratura gay del Novecento: un autore che, dopo decenni di autocensura e di narrazione indiretta, può finalmente parlare di sé apertamente, anche grazie al fatto che Cabaret aveva preparato il terreno, rendendo la sua esperienza parte di un immaginario condiviso.

Insomma, la ricezione del film non ha solo accresciuto la fama di Isherwood: ne ha cambiato lo statuto. Da scrittore di nicchia, conosciuto per i suoi reportage letterari, diventa un testimone universale; da cronista della Berlino di Weimar diventa una voce queer riconosciuta e ascoltata. E tutto questo è accaduto non perché il film fosse fedele al libro, ma perché lo ha tradito creativamente, trasformando Sally Bowles in un’icona e trasformando l’ambiguità del cabaret in un’allegoria globale.


Prima di Fosse, la Berlino degli anni Venti e Trenta era conosciuta come un luogo di sperimentazioni artistiche, avanguardie e decadenza, ma era soprattutto materia da storici o da appassionati di cultura mitteleuropea. Con Cabaret quella memoria diventa immagine concreta, codificata, e soprattutto spettacolare. Non leggiamo più soltanto che c’erano locali notturni, travestitismi, ambiguità sessuali: li vediamo, li ascoltiamo, li respiriamo attraverso la macchina da presa. La Berlino di Weimar diventa, per milioni di spettatori, sinonimo di piume, guanti neri, caschetti di capelli lucidi, ombre di fumo e desiderio, un mondo di libertà sessuale e di ironia feroce, ma anche di imminente rovina.

Il film ha avuto, sotto questo aspetto, un impatto che non si può esagerare. Non solo ha definito l’iconografia di quel periodo, ma l’ha esportata ovunque. Negli anni Settanta e Ottanta, la moda recupera sistematicamente il look di Liza Minnelli: il caschetto corto e geometrico diventa simbolo di modernità androgina, gli abiti da cabaret si fondono con lo stile punk e new wave, e artisti come David Bowie, Klaus Nomi o Grace Jones rielaborano quell’immaginario in chiave glam e postmoderna. La Berlino di Cabaret diventa così un modello estetico che influenza le passerelle di Yves Saint Laurent e Jean Paul Gaultier tanto quanto le copertine di dischi e i video musicali.

Anche il cinema ha continuato a inseguire quell’immaginario. Film come Bent (1997), ispirato alla pièce di Martin Sherman sulla persecuzione degli omosessuali nei campi nazisti, devono molto all’estetica di Cabaret nel modo di raccontare l’ambiguità di Weimar come luogo di desiderio e tragedia. Persino serie televisive recenti — da Babylon Berlin a produzioni minori — non possono fare a meno di misurarsi con quell’eredità visiva: la città come un grande palcoscenico dove libertà e perdizione si mescolano fino a diventare indistinguibili.

Ma forse il lascito più importante è stato quello nel mondo queer. La figura di Sally Bowles, così come il Maestro di cerimonie, sono diventati archetipi teatrali e performativi che hanno influenzato il drag, il cabaret contemporaneo e le pratiche artistiche della comunità LGBTQ+. Sally con il suo carisma ambiguo e autodistruttivo, il Maestro con il suo corpo che non appartiene mai a un solo genere, hanno fornito modelli di identità fluide e provocatorie, capaci di attraversare i decenni. Non è un caso che ancora oggi, nelle serate drag, vengano riproposti i numeri di Cabaret: non come semplice nostalgia, ma come riattualizzazione di un linguaggio che parla ancora della tensione tra libertà e repressione.

E qui sta il punto cruciale: Cabaret non è mai rimasto confinato alla rappresentazione storica. Ha trasformato la memoria della Berlino di Weimar in una parabola globale, valida per ogni epoca in cui le libertà individuali rischiano di essere soffocate. Ogni volta che il mondo si trova davanti a una crisi politica o sociale, quell’immaginario ritorna: il palco, i riflettori, la risata che maschera l’abisso, il corpo che danza mentre la violenza si avvicina. È diventato un linguaggio universale del pericolo, ma anche della resistenza.

E se Isherwood aveva registrato con sobrietà quel mondo che già sapeva perduto, e Fosse l’aveva teatralizzato con potenza allegorica, la cultura successiva ne ha fatto un archivio di immagini da rielaborare, reinventare e vivere. La Berlino di Cabaret è ormai un mito che travalica la storia: un mito queer, politico, estetico, che parla tanto a chi cerca di comprendere il passato quanto a chi vuole immaginare un futuro diverso.


Oggi, Cabaret e l’opera di Isherwood non sono più letti soltanto come documenti storici o come intrattenimento teatrale e cinematografico: sono strumenti interpretativi per riflettere su temi universali come la precarietà, la fluidità delle identità e la resistenza culturale. Nelle arti visive contemporanee, per esempio, molti artisti queer traggono ispirazione dall’estetica del cabaret: la scenografia teatrale, il trucco marcato, il corpo performativo e la teatralizzazione della sessualità diventano elementi per costruire installazioni e performance che esplorano la vulnerabilità e la libertà del corpo in contesti sociali rigidamente normati. Alcuni lavori fotografici e video-racconti reinterpretano direttamente la figura di Sally Bowles, il suo caschetto geometrico, la gestualità teatrale e la sua ambiguità erotica, trasformandola in simbolo di resistenza contro stereotipi di genere e ruoli sessuali predefiniti.

Nella teoria queer contemporanea, il binomio Isherwood–Cabaret è spesso citato come esempio paradigmatico di fluidità identitaria e di precarietà esistenziale: il narratore di Isherwood, con la sua posizione di osservatore coinvolto ma distaccato, diventa modello di soggettività capace di navigare tra mondi e desideri contraddittori; Sally, con la sua energia contraddittoria e la sua autodistruzione, diventa emblema della possibilità di esistere al margine, senza essere normalizzati. Accademici e teorici queer evidenziano come l’opera permetta di riflettere su come la cultura dominante tenti di assorbire e disciplinare la libertà individuale, e di come l’arte, al contrario, possa creare spazi di resistenza simbolica e performativa.

Anche nelle performance teatrali contemporanee, il cabaret diventa un luogo simbolico in cui la precarietà della vita e la fluidità dei ruoli vengono celebrate e analizzate. Drag show, performance di teatro sperimentale e live art si rifanno spesso a quell’immaginario, reinterpretando le coreografie, le canzoni e le luci del Kit Kat Klub come strumenti per mettere in scena tensioni contemporanee: il corpo diventa medium politico, e la rappresentazione teatrale una pratica di sovversione culturale.

In sintesi, Cabaret e Isherwood oggi funzionano come ponti tra passato e presente: non solo ricordano la Berlino di Weimar, ma permettono di pensare la precarietà e la vulnerabilità della vita contemporanea, la libertà e la fluidità dei corpi e delle identità, e la possibilità di resistere culturalmente anche in tempi ostili. L’immaginario della festa sul precipizio, del sorriso che nasconde l’abisso, diventa così metafora di tutte le epoche e di tutte le comunità che si confrontano con oppressione e marginalità, e continua a parlare potentemente al presente.