Fino al 4 giugno 2025, le sale raccolte e austere della Courtauld Gallery di Londra si dischiudono come un diaframma interiore sull’abisso visionario e inclassificabile di Henri Michaux, poeta dell’invisibile, pittore dell’informe, cartografo delle derive coscienziali ed estatiche che frantumano ogni geometria razionale. La mostra Henri Michaux: Mescaline Drawings non è soltanto un evento espositivo: è una soglia aperta su uno degli esperimenti più radicali, eppure profondamente consapevoli, del secondo Novecento europeo. Per la prima volta dopo decenni, un nucleo compatto, rigorosamente selezionato e sapientemente orchestrato delle opere nate durante — o immediatamente dopo — l’assunzione della mescalina viene esposto in un percorso unitario, sensorialmente e intellettualmente destabilizzante. La Courtauld, in collaborazione con importanti collezioni pubbliche e private, ha composto un viaggio filologico e poetico che si propone di restituire l’esperienza integrale — seppure inevitabilmente parziale e inafferrabile — dell’immersione psichica che fu al centro della produzione visiva più audace di Michaux, quella in cui la pittura si fa organismo, la linea si fa linguaggio, il segno si fa vertigine.
Michaux non fu mai un artista alla deriva nel labirinto stupefacente del narcisismo lisergico, né un testimone compiaciuto del naufragio della forma. Nulla, nella sua ricerca, fu lasciato al caso o abbandonato all’estetizzazione naïve dell’allucinazione. Al contrario, affrontò l’esperienza con la mescalina come un vero e proprio progetto fenomenologico, un’indagine tanto metafisica quanto concreta, che cercava di interrogare la natura stessa della percezione, i limiti del linguaggio, la soglia mobile tra io e mondo, tra presenza e dissoluzione. Era una ricerca estrema e disciplinata insieme, volta a esplorare i punti di rottura della coscienza, a rendere visibile — o almeno tracciabile — l’irruzione dell’alterità nel campo del Sé. Il suo obiettivo non fu mai quello di “descrivere” la droga, ma di fare della scrittura e del disegno un sismografo interiore, capace di registrare le scosse, le fratture, i tremori della mente quando viene strappata alla sua abituale grammatica.
Il ciclo dei Mescaline Drawings prende avvio nel 1955, quando l’amico Jean Paulhan — figura centrale dell’editoria francese e già sostenitore di esperienze letterarie radicali — lo invita a sottoporsi a una serie di esperimenti con la mescalina in ambiente controllato, sotto supervisione medica. Michaux, che aveva già attraversato l’avventura poetica del surrealismo senza mai piegarsi alle sue derive ideologiche, che aveva scritto Un certain Plume come un sogno infranto sulla soglia dell’infanzia e della follia, che da tempo coltivava una profonda fascinazione per le spiritualità orientali, per il Tao, per le grafie cinesi, accetta la proposta come si accetta un rituale iniziatico. Non per evadere dal mondo, ma per entrare più a fondo nella sua trama segreta. Non per fuggire il dolore dell’essere, ma per disarticolarlo, per farlo parlare in un’altra lingua. Realizzerà otto esperimenti in totale, ciascuno annotato con la meticolosità di un esploratore che sa di trovarsi in territori instabili, pericolosi, privi di mappe. Accanto alle parole, nascono i disegni. O meglio: accanto alla scrittura razionale, prende forma una scrittura altra, fatta di segni, di torsioni, di esplosioni grafiche, come tentativi — sempre precari, sempre parziali — di dare figura a ciò che figura non ha. Come se l’esperienza psichica, una volta vissuta, cercasse ostinatamente un corpo visibile per continuare a esistere nel mondo.
Questi disegni, spesso eseguiti in inchiostro nero su carta bianca, si presentano come organismi vivi, pulsanti, agitati. Somigliano a calligrammi di un alfabeto alieno, o forse primordiale, non ancora codificato. Sono scritture che non vogliono comunicare, ma manifestarsi. Linee proliferanti, a volte fitte come sciami, altre volte isolate, come cellule sparse. Alcune sembrano nascere da un ritmo interno, da una coreografia biologica, come se il tratto fosse dettato da un impulso nervoso autonomo, non più volontario. L’idea di scrittura è costantemente evocata, ma non più come vettore di senso: piuttosto come testimonianza di un’urgenza, come emissione diretta del corpo-coscienza. Il disegno diventa così una zona di tensione fra l’informe e il segnico, fra il caos e l’ordine. E in questo spasmo continuo, in questa danza sempre sull’orlo della sparizione, si manifesta l’evento estetico: non come oggetto da contemplare, ma come evento da attraversare.
Michaux stesso ha riflettuto a lungo — e con profondità impietosa — su ciò che l’esperienza della mescalina gli rivelava. In testi come Misérable miracle (1956) e L’Infini turbulent (1957), egli cerca di restituire l’angoscia e l’incanto, l’eccesso e la lucidità che convivono nell’esperienza. Definisce la mescalina “una fucina di immagini che travolge ogni controllo”, “una potenza sublime e impietosa” che non concede tregua alla forma. La mostra londinese, consapevole di questa complementarietà, affianca ai disegni anche pagine manoscritte, appunti, stampe originali dei suoi testi, così che lo spettatore possa cogliere la continuità profonda — e mai scontata — tra linguaggio verbale e linguaggio visivo. Entrambi non sono che strumenti per cogliere l’invisibile, per accedere a ciò che si sottrae alla coscienza ordinaria.
Le immagini non sono illustrazioni, né decorazioni, e nemmeno semplici tracce dell’esperienza allucinatoria. Nascono da una necessità interna, urgente, quasi fisiologica: dare corpo all’irrappresentabile. Da qui, l’impostazione immersiva della mostra, che invita lo spettatore non a guardare, ma a entrare. Non ad analizzare, ma a esperire. Le categorie estetiche canoniche — composizione, armonia, bellezza — vengono sospese. Ciò che emerge è altro: un mondo disgregato, ma non privo di leggi. Un ordine interiore che si manifesta nella turbolenza. Le opere non si presentano come quadri compiuti, ma come tracciati, come mappe di una geografia psichica in continuo mutamento. Più vicine al diario clinico che al capriccio artistico, più prossime alla diagnosi che all’invenzione. Eppure capaci, proprio per questo, di aprire varchi nel visibile.
È importante sottolineare che Michaux non fu mai un entusiasta delle droghe. La mescalina, per lui, fu uno strumento: rischioso, provvisorio, necessario a un certo punto del cammino. Non un fine. Dopo il 1959, infatti, egli smette di farne uso, considerandola troppo invasiva, troppo devastante, troppo impura. Non rinnega l’esperienza, ma ne segna il limite. Rimane il corpus dei disegni, che non è un documento psichiatrico, ma una delle testimonianze artistiche più potenti e rare del secondo Novecento, capace di tenere insieme rigore formale, radicalità filosofica e tensione visionaria. Un’opera che non consola, ma interroga. Che non rappresenta, ma espone.
L’allestimento londinese restituisce questa complessità con finezza e misura: alternando sale intime, raccolte, dove lo sguardo può sostare sui dettagli minimi del segno, a spazi più ariosi, in cui la linea esplode, si moltiplica, si frantuma come un’eco della mente che l’ha generata. Una sezione è interamente dedicata al dialogo di Michaux con l’arte asiatica, in particolare con le calligrafie cinesi e giapponesi, che egli studiò e ammirò a lungo. Il gesto calligrafico, per Michaux, non è imitazione, ma epifania. È il punto in cui il pensiero si fa corpo, dove l’energia si traduce in traccia, dove l’invisibile si rende presente come vibrazione, come danza del segno.
In definitiva, la mostra non chiede di essere ammirata, ma abitata. Non si tratta di comprendere, ma di lasciarsi attraversare. Di sostare — anche solo per un istante — nella zona di turbolenza dove la coscienza si frantuma e si ricompone, dove la linea non è più contorno, ma destino. Un’esperienza non tanto estetica quanto esistenziale. Un invito a vedere ciò che non si può vedere. A leggere ciò che non è stato scritto. A percepire ciò che il pensiero, da solo, non può contenere.