Fin dagli inizi — e non serve nemmeno partire da In-Cubo, benché sia lì che il discorso si articola in modo manifesto — Fabro lavora come un anatomista dello spazio. Ogni opera è una sezione, un’incisione chirurgica che mostra la circolazione interna di tensioni, pesi, equilibri, visioni. Un sistema vivente, con nervi scoperti. E la teoria — mai ancella né cornice — diventa parte del corpo, sangue che alimenta ogni gesto plastico. Lo si vede sin dallo pseudo-Bacone del 1963: ogni lavoro successivo risponde a quello, lo interroga, lo prolunga. Non è un’origine mitica ma un nodo permanente.
Nella discussione del 1981 alla Casa degli Artisti, per i lavori alla Certosa di Garegnano, Fabro dice: non si tratta di occupare uno spazio, ma di procurarlo. Il verbo è rivelatore: procurare, cioè generare, dare accesso, far avvenire. Ecco il punto d’appoggio. Da qui parte una nuova geografia dell’arte, che non costruisce contenitori ma innesca esperienze, spostamenti, vertigini. Come ne Il Buco, con i suoi vetri a specchio che scompongono la percezione in mille rifrazioni e spingono il corpo dell’osservatore fuori centro. È un omaggio e una deviazione da Fontana, che Fabro evoca nei titoli (Concetto Spaziale, Io), ma piegandone la lezione verso una nuova drammaturgia ambientale.
Ogni elemento — il vetro trasparente, le aste, i tubi, i tondi, la ruota — partecipa a questa creazione di relazioni, che non sono mai astratte. Sono tattili, gravitazionali, psicofisiche. È un’epica dell’instabilità: il sopra può essere sotto, ciò che è diritto si piega, lo spazio si torce come una coscienza inquieta.
In-Cubo marca una soglia decisiva. È il primo spazio abitabile non come architettura, ma come rivelazione di ciò che significa "stare". Le pareti di tela, la leggerezza dell’intera struttura, la possibilità di sollevarla, di calzarla — tutto concorre a creare un’interazione che non è metafora, ma realtà viva. Non è l’oggetto che si offre allo sguardo, è il corpo che si trasforma entrando. È la costruzione di un ambiente sensibile, non impersonale: ogni centimetro misura il rapporto tra l’opera e chi la esperisce. Non è un luogo: è una tensione.
Fabro, in questo, non costruisce "installazioni", ma campi elettromagnetici. Lo afferma chiaramente nel testo per Essen: l’obiettivo è mantenere viva la corrente tra tutte le parti. Non ci sono zone inerti. Ogni punto deve vibrare. Ed è proprio la trasparenza — intesa non come proprietà ottica, ma come permeabilità sensoriale — a definire la qualità dominante degli spazi fabriani. Trasparente è ciò che ti attraversa, ciò che ti restituisce un’eco di te stesso mentre lo vivi.
L’ambiente di Aachen lo mostra con chiarezza: non c’è contatto tra soffitto e pareti, la luce filtra, la carta — opaca in sé — diventa trasmettitrice, snodo tra interno ed esterno. Anche qui, come in In-Cubo, non si guarda: si entra. E solo dentro si percepisce l’opera per quello che è. La trasparenza, dunque, è una soglia percettiva, non visiva.
In questa logica, persino l’elemento geometrico — presente in quasi tutti gli ambienti, da Roma a Rotterdam — perde la sua funzione ordinatrice per diventare pretesto, scintilla, partitura di un’esecuzione sempre nuova. La geometria, più che uno strumento, è una memoria: qualcosa che attraversa il lavoro ma non lo domina. Fabro la evoca, la lascia agire, ma poi la trascende nella dinamica viva dei materiali e delle esperienze.
Ciò che conta è che lo spazio, in Fabro, non è mai neutro. Non è uno sfondo da riempire né un volume da delimitare. È un interlocutore. Ogni opera è un modo per dialogare con esso, per disattivarne la prevedibilità, per renderlo urgente. E proprio nella trasparenza — che attraversa i lavori auratici di Essen, le stanze dorate di Pieroni, i cerchi incastrati di Rotterdam — si compie questa operazione radicale: lo spazio cessa di essere ciò che contiene e diventa ciò che accade.
In definitiva, lo spazio fabriano non è mai "dove" ma "come". Non si misura in metri ma in intensità. Non si delimita ma si ascolta. È una condizione, un evento, un linguaggio. E noi, entrando, diventiamo parte della sua grammatica.
In-Cubo
“In-Cubo”, concepita da Nagasawa nel 1971, è un’opera che travalica la dimensione scultorea per imporsi come una riflessione sull’abitare e sullo spazio interno come tensione e meditazione. Non è un "cubo" in senso geometrico né un "incubo" in senso psichico, ma un luogo interiore, concentrico, che si sottrae alla funzionalità. Nagasawa lo progetta come un antimonumento in cui si entra per sottrarsi, uno spazio che chiude per aprire. Costruito in legno, dalle superfici scabre e vive, l’In-Cubo non si limita a ospitare il corpo, ma lo mette alla prova. Ogni angolo, ogni soglia è pensata per costringere a un ritmo, a un gesto, a una postura. È l’abitare come esercizio, come resistenza, come vuoto attivo. In questo senso, l'opera dialoga profondamente con la tradizione zen e con la casa-mente del monaco itinerante. Il silenzio dell’In-Cubo è denso, carico di possibilità. Lontano da ogni monumentalità, si presenta come un modulo ascetico e percorribile, una soglia fra il fuori e il dentro, fra il gesto e il pensiero. È anche un modo per misurare il tempo: entrando nell’In-Cubo, si entra in una condizione rallentata, si assume una postura diversa, si partecipa a un rito dello spazio. Nagasawa costringe il visitatore a chinarsi, a flettersi, a riconoscere che l’abitare non è mai un’azione neutra. Il corpo diventa misura, l’opera diventa domanda. Ma non basta: l’In-Cubo agisce come una lente sulla propria interiorità. Il visitatore, nel compiere quel gesto di piegarsi, scopre la fragilità della propria presenza, l’instabilità del proprio equilibrio, il bisogno di trovare un centro. È come se ogni passo all’interno della struttura evocasse un cammino interiore, un pellegrinaggio nello spazio dell’essere. La materia, il legno non rifinito, vibra di una presenza arcaica, racconta il tempo e il tocco. L’In-Cubo è anche una camera d’ascolto: non del suono, ma del silenzio. In quel silenzio si manifesta la densità dello stare. Ogni attraversamento è una domanda e ogni permanenza un’attesa. L’In-Cubo diventa così un dispositivo percettivo, un campo energetico, una cella monastica urbana in cui l’individuo torna a misurare la propria esistenza attraverso la qualità dello spazio che attraversa.
L’ambiente di Aachen
Nagasawa, in Germania, entra in contatto con un milieu artistico profondamente segnato dal dibattito postminimalista e concettuale. L'ambiente di Aachen, gravitante intorno alla figura di Klaus Honnef e alle mostre internazionali curate dal Neues Museum, si presenta come un crocevia tra le tendenze più avanzate dell’arte europea e americana. È qui che l'artista inizia a elaborare una visione dello spazio non come mero contenitore, ma come condizione da trasformare. Aachen diventa così un terreno fertile in cui la memoria del vuoto e del paesaggio giapponese si confronta con l’intellettualismo tedesco e l’analisi sistemica del linguaggio visivo. Nagasawa assorbe questa tensione ma la ribalta, portando nella grammatica installativa un’idea di leggerezza, di sospensione. La città diventa per lui un laboratorio mentale. Osserva da vicino la ricerca di artisti come Beuys, Buren, Rückriem, ma vi si rapporta in modo del tutto personale. Non c'è provocazione in Nagasawa, bensì un'intenzione rarefatta, una ricerca di senso che scava nel gesto più che nell'oggetto. Aachen è anche il luogo in cui l'artista definisce una grammatica dell'assenza, un’attenzione per la soglia, per il vuoto come luogo abitato. Gli spazi della città – austeri, attraversati da un’idea di ordine – diventano per lui campi di risonanza spirituale. In questo contesto, la scultura perde i suoi connotati tradizionali e si fa esperienza di attraversamento. E non solo: Aachen lo mette in relazione con una riflessione più ampia sul concetto di presenza. L’arte, in questa città carica di stratificazioni storiche e tensioni intellettuali, non è mai una dichiarazione, ma una domanda che si sedimenta nel tempo. Nagasawa apprende che l’opera può essere anche una soglia temporale, una lente attraverso cui filtrare la memoria e il desiderio. L’esperienza tedesca, allora, non è soltanto un periodo formativo, ma una vera e propria iniziazione: qui l’artista impara a usare il vuoto non come assenza, ma come pienezza latente, come tensione percettiva. Lo spazio non è più una superficie da riempire, ma una vibrazione da abitare. Aachen, per Nagasawa, è il luogo dove la forma diventa domanda esistenziale.
Il rapporto con Lucio Fontana
Il rapporto con Fontana, pur non essendo direttamente biografico, è intellettualmente decisivo. Nagasawa ha ben presente la lezione spaziale del taglio, ma ne rigetta la violenza modernista. Se Fontana incide la superficie per aprire uno squarcio cosmico, Nagasawa la percorre, la piega, la fa respirare. Nei suoi lavori la superficie non viene ferita ma accompagnata verso un’altra dimensione. Il gesto si fa rituale, lento, quasi impercettibile. La materia non viene attraversata da una folgore, ma lavorata come una pelle che trattiene. La sua idea di scultura è un corpo che si muove con il tempo, in cui lo spazio non è il fine ma il medium. È anche nel vuoto fra queste due poetiche che si gioca il senso del suo “essere scultore”: uno che toglie per far accadere, uno che costruisce l’assenza come promessa di un altrove. In Nagasawa, il gesto artistico è simile a una preghiera, a un cammino di consapevolezza. Dove Fontana spalanca, Nagasawa accoglie. Dove l’uno taglia, l’altro accompagna. Il “vuoto” che entrambi cercano non è lo stesso: per Fontana è l’oltre, il futuro, la conquista spaziale; per Nagasawa è l’interno, il presente, il silenzio. Fontana, artista europeo, guarda il cielo. Nagasawa, artista dell’Estremo Oriente, ascolta la terra. In questo scarto si colloca una delle più fertili derive della scultura contemporanea. Ma vi è di più: la superficie, per Nagasawa, è un essere vivente, un confine permeabile, un punto d'incontro tra ciò che è manifesto e ciò che è latente. Non c’è solo un rifiuto del gesto aggressivo, ma anche un’adesione profonda a una poetica dell’impermanenza. Il vuoto non è mai puro, ma abitato da una qualità vibrante. Se Fontana opera per rottura, Nagasawa lavora per risonanza. La sua arte è una forma di respirazione lenta, una soglia fra il visibile e l’invisibile, dove la mano non impone ma rivela. Così la scultura diventa una forma di ascolto tattile, un atto di compassione formale, una meditazione incarnata sul tempo.
Habitat. Il dialogo con Bruno Corà
È nel lungo dialogo con Bruno Corà che Nagasawa elabora una delle sue nozioni più feconde: quella di “Habitat” come forma d’ascolto. Non si tratta di ambiente espositivo, né tantomeno di installazione immersiva. L’Habitat, in Nagasawa, è il modo in cui un’opera modifica il campo percettivo e relazionale di chi la incontra. È la porzione di mondo che l’opera “cura”, trasforma, mette in discussione. Con Corà, Nagasawa riflette su come la scultura non sia un oggetto nel mondo, ma un mondo nell’oggetto. Le sue installazioni diventano “habitat” nel senso arcaico del termine: non luoghi da abitare, ma luoghi che ti abitano. In questa prospettiva, l’Habitat non è un contesto fisico ma una condizione psichica. È il tempo che si rallenta, la soglia che si apre, il pensiero che si ritrae. L’opera diventa così un essere vivente, capace di agire sullo spazio e sull’osservatore. L’Habitat è il contrario dell’esposizione museale: non mostra, ma accoglie. Non espone, ma trasforma. Nagasawa e Corà condividono una visione etica dell’arte come pratica trasformativa, non decorativa. L’opera non deve abbellire, ma agire. L’habitat, allora, non è solo una cornice, ma una struttura di relazione. È la scultura che ti costringe a camminare diversamente, a respirare in un altro ritmo, a pensarti parte di un corpo più vasto. È questo il lascito profondo del dialogo tra artista e critico: un’arte che non si guarda, ma si vive. E ancora: l’habitat è uno spazio di coesistenza fra corpi, desideri, memorie. Non c’è centralità dell’opera, ma diffusione del senso. Ogni punto dell’habitat è un punto d’ingresso, un’interfaccia relazionale. Il fruitore diventa co-autore, interprete, nodo sensibile di un campo vivo. In tal modo, Nagasawa supera la dicotomia tra soggetto e oggetto, tra artista e spettatore. L’habitat diventa una pedagogia silenziosa, un insegnamento incarnato. L’opera non impone, ma dispone. E ciò che dispone è una nuova modalità di essere nel mondo: più lenta, più attenta, più porosa. Corà accompagna Nagasawa nel dare forma a questa visione, riconoscendone la radicalità e la necessità. Insieme elaborano una scultura che non solo interroga lo spazio, ma lo rigenera come possibilità etica ed esperienziale.
Conclusione critica
Il percorso delineato – dall’esperienza destabilizzante di In-Cubo all’immersione nell’ambiente stratificato e ferito di Aachen, fino al dialogo costruttivo e divergente con Lucio Fontana e all’elaborazione della nozione di Habitat in relazione al pensiero di Bruno Corà – converge in una visione organica, profondamente critica e insieme poetica, dell’arte come luogo di disvelamento e di tensione permanente. Non si tratta qui di un semplice susseguirsi di tappe, quanto piuttosto di un continuum pulsante, in cui ogni nodo esperienziale riattiva i precedenti, li reinveste di significato e ne modifica il peso specifico all’interno di un linguaggio che non cerca mai il compimento, ma l’apertura, l’irriducibile, la crisi.
In In-Cubo si manifesta con particolare intensità il primo atto di un teatro dello spazio inteso come soglia, come pressione interiore che si rifrange nell’esterno. Il gioco del titolo – tra “incubo” e “in-cubus”, ossia qualcosa che sta dentro ma preme, soffoca, si deforma – non è solo nominale, ma concettuale: l’installazione è costruita come un luogo impossibile, claustrofilico, dove la forma accoglie e insieme rifiuta. Lo spettatore non è spettatore, ma parte integrante della tensione spaziale: non entra nell’opera, ne è inglobato. È questo uno degli snodi fondanti della ricerca: l’arte non è contemplazione di una forma finita, ma esperienza fisica, attraversamento rischioso, contatto viscerale. Il cubo qui non è il luogo della purezza razionale, ma quello del disagio ontologico, dell’allarme interiore. È una stanza del trauma, un labirinto mentale fatto materia.
Il passaggio all’ambiente di Aachen non è, dunque, un cambio di scena, ma un passaggio di stato. La città, con la sua stratificazione di ferite storiche, di ricostruzioni postbelliche, di contraddizioni urbanistiche, si presta come terreno fertile per un’esplorazione che è al tempo stesso site-specific e antropologica. L’arte diventa qui uno strumento di lettura della città come corpo collettivo: le superfici urbane sono epidermidi segnate, i materiali diventano segni di una memoria che pulsa sotto la pietra. È in questo contesto che si accentua una sensibilità per la verticalità non come trionfo ascensionale, ma come affondo nel profondo. Le installazioni dialogano con le cattedrali gotiche, ma lo fanno spostando l’asse: non verso il cielo, ma verso l’interiorità compressa, verso il sottosuolo, verso una sacralità dolorosa e non redenta. Qui lo spazio si fa psichico: è una cartografia emozionale dove l’artista lavora come uno scavo, riportando in superficie ciò che la città rimuove.
Il confronto con Lucio Fontana – così centrale e al tempo stesso volutamente asimmetrico – si impone come un confronto genealogico, ma senza reverenza. Non si tratta di aderire a un’estetica del vuoto, né di riprendere il gesto del taglio come cifra epigonale. Al contrario, il legame con Fontana è esercizio critico, talvolta persino conflittuale. Dell’opera fontaniana si trattiene la forza inaugurale del gesto – il coraggio di aprire lo spazio pittorico all’ignoto, di interrompere la superficie come atto di fondazione – ma se ne rifiuta l’ascesi. In questa ricerca, lo squarcio non è mai levigato, mai puro. È ferita ancora sporca, è interruzione che lascia entrare l’informe, il residuo, il fallimento. Se Fontana apre alla dimensione cosmica, qui l’apertura è terrestre, contaminata, fatta di detriti, di fratture non risanabili. È, in un certo senso, una contro-cosmologia: non il tutto armonico, ma il frammento resistente, il margine che si ostina a non scomparire.
Proprio questa ostinazione a rimanere dentro il frammento, dentro l’incompiutezza dell’esperienza, si traduce con intensità nel concetto di Habitat così come elaborato nel fitto dialogo con Bruno Corà. L’Habitat, lungi dall’essere il luogo della quiete o dell’adattamento, diventa figura della crisi: un ambito relazionale aperto, instabile, continuamente messo alla prova dalla presenza del corpo e dalla sua fatica. In questo senso, la nozione di habitat non è mai naturalistica, ma profondamente etica. È lo spazio della coabitazione, del conflitto, dell’imprevisto. È la scena di una responsabilità: quella dell’artista nei confronti del visibile, e dello spettatore nei confronti del proprio sguardo. L’habitat non è ciò che contiene, ma ciò che interroga. Come ricorda Corà, “abitare un’opera” significa accettarne l’incompletezza, farsi carico della sua domanda. Ogni opera diventa così una soglia percettiva, una zona di attrito dove la forma si costruisce nella relazione – con l’ambiente, con il corpo, con l’altro.
L’intero percorso qui delineato sembra allora convergere verso una posizione teorica e politica ben precisa: l’opera come campo di forze, come nodo di resistenze e aperture, come dispositivo di pensiero che agisce nel reale. Non c’è nulla di decorativo, nulla di pacificato: ciò che conta è il movimento, la tensione, l’instabilità come valore. In questo senso, l’artista non si pone mai come demiurgo solitario, ma come mediatore instancabile tra le spinte che abitano il nostro tempo – la storia, l’architettura, la memoria, il trauma, la materia stessa. L’arte, così intesa, non rappresenta: agisce. Non propone soluzioni: apre varchi. Non illustra il mondo: lo incrina.
E proprio in questo gesto di incrinatura, in questa volontà di restare sul bordo, sull’orlo, sul margine, si intravede la radicalità di una poetica che non cede mai alla seduzione della forma compiuta, ma cerca ostinatamente la soglia. Là dove altri cercano la stabilità del linguaggio, questa pratica artistica cerca la sua instabilità fertile; là dove si cerca la chiarezza, essa cerca l’opacità eloquente; là dove si celebra l’unità, essa lavora con il frammento. È, infine, una forma di resistenza – estetica, politica, esistenziale – che pone la questione dello spazio non come dato, ma come domanda. Una domanda che ci riguarda tutti: dove siamo, veramente, quando stiamo dentro un’opera?