sabato 10 maggio 2025

Pensare la scrittura. Idee di poesia, soggettività e autorialità

Prefazione 

"Pensare la scrittura. Idee di poesia, soggettività e autorialità" è un titolo che apre a una riflessione teorica ampia e stratificata, dove si intrecciano estetica, filosofia del linguaggio, psicoanalisi e critica letteraria. Si tratta di un punto di partenza per un viaggio nel cuore della scrittura poetica, un'esplorazione che attraversa territori concettuali apparentemente lontani ma che, in realtà, sono profondamente connessi tra loro. Un tale argomento, infatti, può toccare molte aree, molteplici orizzonti da cui attingere per comprendere le dinamiche di ciò che chiamiamo "poesia". Dalla crisi del soggetto moderno alla decostruzione dell’autore, passando per la ridefinizione della poesia in un’epoca post-lirica, questo pensiero si ramifica come una rete che abbraccia temi di identità, linguaggio, potere, e verità. Quella che segue è una serie di appunti che, più che fornire risposte definitive, aprono spazi di interrogazione, riflessioni parziali, uno spunto per pensare insieme, per immaginare il futuro della scrittura poetica.

La poesia, prima di ogni altra cosa, è un atto di pensiero, un pensiero che si fa parola, ma una parola che non è mai solo enunciato. La scrittura poetica si contraddistingue per la sua capacità di andare oltre la superficie del linguaggio, scavando nel profondo, operando una sorta di pensiero profondo che ha bisogno di tempo per maturare. La poesia è una lente sulla realtà, che ci permette di guardare le cose da una prospettiva che il pensiero quotidiano non è in grado di cogliere. È proprio questa funzione, questo invito a rallentare, a fermarsi su ciò che di solito sfugge alla visione rapida e distratta del quotidiano, che la rende tanto unica e affascinante. Ma non solo: è anche, inevitabilmente, una riscrittura della nostra stessa percezione di sé e del mondo che ci circonda.

La scrittura poetica è intimamente legata al concetto di soggettività. Tuttavia, in un mondo che ormai riconosce l’incertezza, la fluidità e la frammentazione dell’io, il concetto di soggettività non è più quello solido e stabile che ha caratterizzato la tradizione moderna. Il poeta, come autore, non è più colui che crea dal nulla un universo coerente, ma un artista della dispersione, un decostruzionista che, operando sulle parole e sugli spazi tra le parole, crea frammenti di verità che non si pretendono mai definitivi, ma che si pongono come possibilità aperte. Ecco, quindi, che la scrittura poetica diventa non solo un atto individuale, ma anche una forma di relazione con ciò che è altro, con ciò che è invisibile, indefinito, indecifrabile.

La crisi del soggetto moderno è un tema centrale in queste riflessioni. La certezza dell’autore, la sua centralità come creatore assoluto, è ormai superata. In una realtà in cui ogni soggetto è costruito attraverso interazioni multiple e sempre più complesse, la scrittura poetica riflette questa frammentazione dell'identità. La crisi del soggetto non è però necessariamente un sintomo di disgregazione; è piuttosto l'opportunità di aprire la scrittura a nuove modalità di espressione. Un autore non è più solo il padrone del suo discorso, ma un mediatore, un tramite attraverso il quale passano molteplici voci e identità. L'autorialità, quindi, non è più concepita come un atto di espressione solitaria, ma come un movimento che si fa in connessione con ciò che ci precede, con il tempo, con la cultura, con la memoria collettiva. In questa prospettiva, la scrittura poetica si trasforma in un campo aperto, un luogo di interazione, di ascolto e di risposta.

La decostruzione dell’autore, in questo contesto, non significa annullamento dell’autorialità, ma piuttosto un suo rinnovamento, una sua riformulazione. Il poeta non è più l’unico detentore della verità, ma un interprete che legge la realtà e la riscrive con una voce che non pretende di essere unica. Ogni poema, quindi, può essere letto come un incontro tra molteplici voci, dove la parola poetica non esprime una verità assoluta, ma invita alla riflessione, alla ricerca, alla possibilità di nuove interpretazioni. Il poeta, in questo senso, è anche un facilitatore di processi cognitivi e creativi, un medium che apre le porte alla pluralità dei significati, creando spazi di tensione e di conflitto in cui il lettore può trovarsi di fronte a se stesso.

La poesia, inoltre, è stata costretta a reinventarsi nell'epoca post-lirica, un'epoca che si distingue per la sua avversione verso l’autenticità emotiva tipica della lirica tradizionale. In questo nuovo scenario, la poesia si fa più concettuale, più problematica. Non c’è più spazio per il lirismo che esprime il cuore dell’individuo; la poesia diventa, piuttosto, un campo di tensioni, di interrogazioni sul linguaggio, sulla società, sul potere e sull’individualità. La dimensione lirica della poesia si sgretola, ma con essa nasce un nuovo spazio, in cui il pensiero poetico può emergere da forme più astratte, più frammentate, più disgregate.

Il soggetto poetico, nel contesto di questa trasformazione, non può essere più concepito come una figura stabile e determinata, ma come una forma fluida, che muta continuamente, che non cerca un’identità fissa ma che esplora una molteplicità di possibilità. Questa decostruzione dell’autore e del soggetto poetico riflette, da un lato, la condizione moderna, frammentata e fluida, e dall’altro, la possibilità di riscoprire il potenziale creativo della scrittura stessa, una scrittura che non deve più ridursi a un atto di affermazione, ma che diventa una pratica di disposizione alla trasformazione, alla ricerca e all’ascolto. La poesia, in questa nuova visione, è così un atto di libertà, in cui il soggetto poetico non si limita più a rappresentare un'idea fissa, ma diventa un interlocutore aperto, che ascolta, che interagisce e che esplora le possibilità del linguaggio e dell’esperienza umana.

Questi appunti, questi pensieri, si pongono come un invito alla riflessione, un invito a pensare insieme la scrittura come uno spazio di esplorazione continua. La poesia, come pratica del linguaggio e della soggettività, è destinata a rimanere un campo aperto, in continua evoluzione, che si fa ogni volta, di nuovo, sotto gli occhi del lettore e dell’autore, e che non trova mai un punto di arrivo definitivo, ma solo nuove strade da percorrere:

1. La scrittura come pensiero poetico 

Scrivere poesia non è trascrivere emozioni, ma pensare in forma altra. La poesia non “esprime” semplicemente: disarticola e ricompone, agisce sul linguaggio come un corpo da scavare. Pensare la scrittura poetica significa allora intendere la poesia non solo come arte del dire, ma come gesto conoscitivo, come esercizio di pensiero incarnato. Da Mallarmé a Celan, da Jabès a Zanzotto, la scrittura si fa tensione verso l’indicibile, interrogazione aperta, spazio di mancanza.

2. Soggettività e voce 

La poesia moderna ha smascherato l’illusione del soggetto compatto e trasparente. L’io lirico non è più il centro radiante del testo, ma una maschera, un nodo, un luogo di passaggio. La soggettività poetica oggi è spostata, ibrida, post-identitaria. L’io si frantuma in frammenti, assume voci plurime, si fa carne di una collettività spezzata. Qui entrano in gioco i concetti di écriture féminine, di queer poetry, di poesia come resistenza alle forme normative dell’identità.

3. Autorialità orizzonte post-strutturalista

L'autore, diceva Barthes, è morto. Ma forse è semplicemente mutato. Oggi l’autorialità non è più sinonimo di genio, né di biografia, ma piuttosto un campo di forze in tensione. È l’effetto di una scrittura che si fa evento, non proprietà. In poesia, questo significa spostarsi dal culto dell’originalità all’etica dell’ascolto e del montaggio. Si scrive con altri, attraverso altri, nel tempo lungo delle letture assorbite. L’autore è una funzione, un’increspatura nel linguaggio.


1. La scrittura come pensiero poetico 

Scrivere poesia non è dare forma a un contenuto preesistente: è, innanzitutto, abitare un atto di pensiero che si compie solo nel linguaggio e attraverso il suo movimento. La poesia non è un veicolo, ma un campo di tensione. Non trasporta idee, le crea. In questo senso, la scrittura poetica è un pensiero incarnato, ancorato al corpo vivo delle parole, ai loro tagli, suoni, inciampi, e soprattutto alle loro omissioni.

Mallarmé aveva già intuito che «la poesia è la cifra del silenzio che abita le parole». Il poeta non pensa “su” qualcosa: pensa dentro la scrittura, attraverso di essa, contro di essa. Si tratta di un pensiero laterale, obliquo, non sistematico. Un pensiero che procede per accumulo di immagini, salti, accostamenti, risonanze. Una forma di conoscenza che non pretende di definire, ma di sfiorare.

In questo senso, la poesia è un sapere non classificabile nei paradigmi del discorso scientifico o filosofico. Eppure, è un sapere. Forse il più vertiginoso, perché si misura con l’indicibile. La poesia pensa là dove il pensiero razionale si arresta, dove il linguaggio si spezza, dove la logica fallisce. Celan lo diceva con lucidità abissale: «la poesia è il respiro che rimane quando tutto il resto si è fermato».

Pensare la scrittura poetica significa quindi accettare di non possedere il pensiero, ma di esserne abitati. Non si scrive “ciò che si sa”: si scrive per sapere che cosa si può sentire, conoscere, perdere. La poesia lavora con ciò che è in eccesso rispetto al linguaggio quotidiano, o con ciò che ne è scartato: errori, ripetizioni, ambiguità, vuoti. E in questo modo, trasforma.

È per questo che la poesia, quando è davvero tale, è sempre un gesto di dislocazione. Smonta il linguaggio comune, lo scarta, lo sospende. E in questo smontare, apre spazi di senso altri. In ogni verso autentico si nasconde una domanda muta, un varco.

Ma chi è che pensa, in quel momento? L’autore? Il testo? Il lettore? Forse nessuno. Forse è il linguaggio stesso che, attraversando la scrittura, si mette a pensare.

Se si intende la scrittura poetica come forma di pensiero, allora si deve accettare che il pensiero stesso — inteso come attività generativa e interrogativa — non sia riducibile alla razionalità discorsiva, alla linearità dell’argomentazione, né tantomeno alla chiarezza. Il pensiero poetico opera per analogie, per immersioni sensibili, per accensioni istantanee. È un pensiero non identitario, che non pretende la padronanza dell’oggetto, ma si lascia attraversare da esso, anche al prezzo della perdita, dell’ambiguità, dell’enigma.

Heidegger, nei suoi saggi su Hölderlin e Trakl, ha suggerito che la poesia è la lingua originaria dell’essere: non un linguaggio che nomina ciò che è, ma un linguaggio che apre lo spazio del possibile. La poesia non parla dell’essere, ma lo fa accadere. In questa visione, il poeta non è colui che esprime se stesso, bensì colui che ascolta ciò che nel linguaggio ancora non ha forma. L’atto poetico è allora un gesto di radicale ospitalità: fare posto a ciò che viene, a ciò che non è ancora detto, a ciò che si sottrae.

Ma se il pensiero poetico è questo, allora è anche profondamente etico. Non perché insegni, ma perché si fonda su una disposizione all’alterità, al non sapere. Scrivere poesia è esporsi a una vertigine, è assumere il rischio del fallimento, è mettere in crisi la padronanza del soggetto. Ecco perché la poesia è stata, in ogni epoca, una forma di resistenza: resistenza alla semplificazione, alla strumentalizzazione, alla chiusura del senso.

Nel pensiero di Maurice Blanchot, questa relazione tra scrittura e soglia del pensiero si radicalizza: la scrittura è un’esperienza liminare in cui il soggetto si perde, si disfa, si ritira. Scrivere è “morire in avanti”, dice Blanchot, perché nel gesto di scrittura ciò che scrive non coincide più con un “io”, ma diventa pura apertura. La poesia, da questo punto di vista, è un luogo di espropriazione: non possiede, non conclude, non conquista. Al contrario, lascia essere.

Pensare la scrittura poetica significa dunque interrogare la possibilità stessa del pensiero come qualcosa che accade al di là del concetto, come evento, come traccia. Non si tratta di definire, ma di lasciar tracciare. E in questa traccia, che è fatta di ritmo, suono, omissione, resta una memoria inquieta: qualcosa che non smette di interrogare.

Proseguendo nella direzione del pensiero poetico come evento che avviene nella scrittura e oltre il soggetto, si possono chiamare in causa alcuni esempi poetici che incarnano con radicalità questo gesto. In ognuno di essi, il linguaggio non è mai mezzo, ma materia viva, fragile, scavata: luogo dove il pensiero non si dice, ma si dà.

Paul Celan
In Celan, la poesia è un campo di frattura in cui la lingua stessa si consuma per accedere a una verità inattingibile. Il trauma della Storia non può essere detto: ma la poesia può indicarne il vuoto, la fenditura.

«Un controsenso.
Il mondo è andato perduto.
Voglio farti vedere come era.»

(da Schneepart / Parte di neve)

Qui il pensiero poetico si gioca nell’oscillazione tra la perdita e il gesto ostinato del mostrare. Il poeta non cerca di spiegare, ma di “far vedere” ciò che non c’è più. Il pensiero non è analisi, è memoria scavata nella neve. È il pensiero del dopo, della rovina, che tuttavia ancora chiede parola.

Edmond Jabès
Jabès porta la poesia al confine con il silenzio e la mistica. I suoi Libri sono non tanto testi quanto deserti da attraversare, pieni di interruzioni, domande, aporie. La scrittura è il luogo dell’assenza di Dio, ma anche della sua traccia.

«Scrivere è avvicinare la ferita.
È portarla alla luce del nome.
È riconoscere che il libro nasce là dove il linguaggio fallisce.»

(da Il libro delle interrogazioni)

Il pensiero poetico si fa qui pura soglia, spazio dell’interrogazione incessante. Il libro non è compimento, ma creazione del vuoto. Non un sapere che riempie, ma un pensiero che toglie, che disfa per lasciare apparire l’invisibile.

Andrea Zanzotto
Zanzotto porta all’estremo la tensione del linguaggio verso la sua impossibilità. Nei suoi versi, la natura stessa viene decostruita foneticamente, riscritta, deformata. Il poeta pensa nella lingua, attraverso le sue lacerazioni.

«Nel diluvio dei fonemi
ritrovo lo sconvolgente balbettio della pianta,
l’alfabeto nascosto dei fiori.»

(da Il galateo in bosco)

La poesia zanzottiana è un pensiero che accade nei margini, nel balbettio di ciò che non ha mai avuto parola: la natura, l’infanzia, il prelinguistico. È un pensiero ecologico e vertiginoso, che si fa carico della crisi del linguaggio e lo porta a esplodere dall’interno.

Anne Carson
Carson opera nel crinale tra poesia, saggio, traduzione e pensiero filosofico. In Autobiography of Red, ad esempio, fonde mito, eros e linguaggio in una forma che è sempre decentrata, errante, desiderante.

«La parola “rosso” non è rossa.
Non ha neppure un colore.
È una ferita che cammina nel buio.»

In Carson il pensiero poetico si intreccia con una riflessione su eros, perdita e desiderio: il linguaggio non colma la distanza, ma la rende visibile. È un pensiero che ama, e che per questo non può possedere.

Chantal Maillard
Nei suoi testi – in bilico tra diario, prosa poetica e filosofia – Maillard mette in scena un pensiero corporeo, meditativo, che esplora il dolore, la dissoluzione, il non-io. È un pensiero che si dà nel frammento, come un sussurro che si interroga sul senso stesso dell’essere al mondo.

«La parola è un buco nella carne.
Dalla ferita entra il mondo.»

(da La herida en la lengua)

La scrittura è qui esperienza radicale del limite: il pensiero nasce dalla ferita, non come redenzione, ma come consapevolezza. Poesia come apertura al reale nella sua insopportabile nudità.

In tutti questi casi — da Celan a Maillard — il pensiero poetico è un atto: non precede la scrittura, ma la attraversa. Non è mai chiusura, ma apertura. Un’apertura che ha spesso la forma dell’interrogazione, della rottura, del quasi-dire. In ciò, la poesia pensa più profondamente di qualsiasi sistema.

Proseguendo nell’indagine, la tensione tra pensiero poetico e corpo, così come quella tra tempo e memoria, appare come una delle più fertili e radicali: nella poesia, il pensiero non è mai disincarnato. Anche quando si spinge nel rarefatto dell’astrazione, porta con sé il ritmo del corpo, la pulsazione della carne, la materia del respiro. La scrittura poetica è infatti fisica: è un gesto, un atto vocale e spaziale, una traccia incisa nel tempo.

Nel pensiero filosofico classico, il corpo è spesso stato considerato l’opaco, il limite, l’impedimento rispetto alla chiarezza del pensiero. Ma nel pensiero poetico, il corpo è il pensiero. Si pensi, per contrasto, alla formula cartesiana “cogito ergo sum”, che afferma il pensiero come fondamento dell’essere. La poesia invece potrebbe affermare: sento dunque penso, o addirittura: sanguino dunque parlo. Il corpo non è oggetto del pensiero, ma sua condizione originaria.

Celan scrive:

«Le parole mi graffiano la bocca:
è il corpo che cerca di dire.»

Qui il pensiero poetico nasce come necessità carnale. È il corpo che preme, che esige di essere detto, non nella forma di un contenuto, ma nella materia stessa del linguaggio. Il pensiero diventa tatto, cicatrice, respiro franto.

Chantal Maillard porta questa riflessione ancora più a fondo, mostrando come il corpo sia la scena del pensiero:

«Il pensiero è la pelle.
Tutto passa di lì, anche Dio.»

Questa idea capovolge la gerarchia classica tra mente e corpo: pensare poeticamente è toccare, essere toccati, ricevere le impressioni del mondo nella carne e lasciarle vibrare nella lingua. Il corpo non è il limite del pensiero, ma il suo organo percettivo più profondo.

Ma accanto al corpo, nella scrittura poetica, si muove anche il tempo. Un tempo che non è cronologico, né lineare, ma stratificato, disordinato, pieno di ritorni, di vuoti, di smagliature. La poesia abita il tempo come una ferita aperta: vi entra non per ordinarlo, ma per ascoltarne le faglie.

La memoria, in questo senso, non è recupero del passato, ma resto — ciò che del passato insiste, ritorna, si decompone e si trasforma. In Zanzotto, per esempio, la memoria non è mai nostalgia, ma una materia linguistica che si fa e si disfa:

«Una cosa che fu già
ma ora fruscia in altra fibra,
si disfa in nominare.»

(da La Beltà)

Il pensiero poetico è allora una modalità temporale altra, diacronica, aperta a spostamenti, risonanze, riemergenze. La parola poetica non narra il tempo: lo reinventa, ne altera la direzione, lo sospende.

Per Anne Carson, il tempo della poesia è quello dell’amore: cioè dell’attesa, della distanza, della perdita.

«Il tempo non guarisce.
Si limita a passare.
E porta con sé ogni cosa che avevi toccato.»

Nel pensiero poetico, la memoria è carne, la parola è tempo, il corpo è lingua. E in questo intreccio il soggetto si scopre vulnerabile, diviso, non identico a sé: un luogo in cui qualcosa accade. Pensare poeticamente significa allora lasciare che il tempo e il corpo, con la loro opacità, con la loro lacerazione, diventino materia pensante, e che la scrittura sia il luogo in cui questa tensione si dice — o almeno si lascia ascoltare.

Seguendo un’altra diramazione di questo pensiero poetico — che è sempre ramificato, mai lineare — si apre ora il sentiero forse più sottile e misterioso: la relazione tra scrittura e silenzio. Non come opposizione, ma come interdipendenza originaria. La scrittura poetica non è un dire che rompe il silenzio, ma un dire dal silenzio, attraverso il silenzio. Più che negarlo, lo ascolta. Lo accoglie. E in certi momenti, lo diventa.

Non a caso, in molte poetiche del secondo Novecento, il silenzio non è assenza ma densità. Non è mancanza, ma materia. Jabès, ancora una volta, ci guida:

«La scrittura è un dialogo col silenzio,
e il libro è ciò che resta della sua traccia.»

Il poeta non parla al posto del silenzio, ma con esso. La pagina bianca non è da riempire, è da abitare. È un deserto dove la parola si avventura sapendo che ogni suo passo potrebbe essere l’ultimo, o il primo. In questa prospettiva, scrivere poesia significa esporsi al silenzio: lasciarsi scavare, lasciar parlare ciò che non ha nome.

Paul Celan, che conosce il silenzio come trauma e come sopravvivenza, afferma:

«Una poesia –
perché sia –
deve essere passata attraverso il silenzio.»

Non si tratta di scrivere molto, né bene. Si tratta di tacere a fondo. Di ascoltare ciò che vuole farsi parola. Il silenzio è il grembo oscuro della scrittura, il luogo dove il linguaggio si interroga su se stesso, dove il pensiero poetico, prima di esprimersi, si trattiene. Anne Carson, in una sua conferenza, osserva che la poesia nasce spesso da una “tensione tra ciò che si vuole dire e ciò che non si può dire”.

In questa tensione si gioca l’essenza della scrittura poetica: essa non è informativa, non è confessionale, non è narrativa. È esitazione. È ritmo che dà forma all’invisibile. La parola poetica non riempie, ma accosta il silenzio, come si accosta una bocca nel buio. E spesso, nella scrittura più estrema, la poesia stessa si riduce a un sussurro, a una frattura, a un singolo suono che porta con sé tutta la notte da cui è nato.

Zanzotto, nel suo Meteo, ne dà un esempio lancinante:

«...niente più parole
eppure scrivo»

Il silenzio, allora, non è il contrario della scrittura. È la sua origine, il suo bordo, il suo battito nascosto. Ogni verso nasce perché c’è qualcosa che non può essere detto, ma che chiede comunque di prendere forma — anche solo come fruscio, come accento, come vuoto inciso tra due righe.

Se la parola poetica nasce dal silenzio e vi ritorna, come abbiamo visto, allora anche la figura dell’autore — intesa come centro stabile dell’enunciazione — si dissolve, si rarefà, si decentra. Il soggetto poetico contemporaneo non è più il garante del senso, né il padrone della voce: è attraversato da forze, memorie, suoni, assenze che lo precedono e lo eccedono. La scrittura poetica diventa così uno spazio in cui il soggetto si disfa, si intravede a tratti, come un’ombra nel linguaggio, o come una fenditura nel tempo.

La relazione tra parola e silenzio incide su questa dissoluzione in modo radicale: il poeta non afferma, ascolta. Non si esprime, ma si espone. La voce che scrive non è più quella di un “io” sovrano, ma una costellazione di vuoti e tracce, come nei testi di Edmond Jabès, dove il libro stesso diventa luogo del disfacimento dell’identità:

«Il nome non è che l'eco di un silenzio.
L’autore è colui che dimentica il proprio volto.»

In questa poetica dell’anonimato fecondo, l’autore si ritrae per far spazio all’impronunciabile. Ciò che parla nella poesia non è più un soggetto psicologico, ma una falla nel linguaggio, una ferita che pensa. Il soggetto si fa luogo, risonanza, strappo.

Zanzotto ha espresso in modo esemplare questa tensione nella sua lunga fedeltà al dialetto, all’informe, all’intraducibile: ciò che in lui parla è spesso prima della lingua, al di sotto della lingua, come se l’io poetico fosse risucchiato da una materia più antica di sé. Lo stesso vale per Chantal Maillard, dove il soggetto poetico è attraversato da una crisi continua, che lo svuota e lo riformula di pagina in pagina:

«Scrivere è disfarsi.
Nessun io sopravvive alla poesia.»

Questa crisi dell’autorialità è anche una forma di resistenza. Contro la narrazione dominante dell’“autore-genio”, contro l’idea di una poesia come espressione individuale, la scrittura poetica contemporanea diventa un laboratorio di decentramento. Ogni verso è un tentativo di far parlare ciò che non ha voce: l’inconscio, la Storia, l’altro, l’animale, il morto, il futuro. L’autore, in questa dinamica, cede la parola — ma senza mai davvero possederla.

In Anne Carson, la frammentazione della voce e del soggetto è programmatica: nei suoi testi convivono più registri, più tempi, più maschere, come in una tragedia postmoderna in cui nessuno può dire “io” senza tremare:

«A volte, leggendo me stessa,
mi sento un’estranea.
Chi ha scritto questa frase?
Forse il mio doppio.
O il vento.»

La poesia, così intesa, è il luogo in cui l’autorialità si svuota per far spazio a qualcosa che si scrive attraverso il poeta, al di là di lui. In questa condizione, il soggetto poetico diventa un relitto, un ponte, una ferita pensante. Il silenzio, lungi dall’essere il contrario della scrittura, è la sua condizione di possibilità. È ciò che, in ogni parola vera, rimane non detto — e proprio per questo risuona.

La scrittura poetica, svuotata dell’io compatto e attraversata da silenzi, si apre a una dimensione che è al tempo stesso rituale e politica. Queste due direzioni, apparentemente divergenti, si intrecciano proprio laddove la poesia smette di essere espressione e diventa atto: gesto che incide, traccia che invoca, ritmo che riattiva.

Come il rituale, la poesia non mira a comunicare ma a trasformare. È una pratica che disloca il senso, che lo porta oltre i confini dell’abituale, verso un’altra temporalità. Ogni vero poema è una soglia, un passaggio: il poeta agisce come uno sciamano contemporaneo, un medium che interroga le rovine del linguaggio per cercarvi una verità non dicibile, ma trasformativa. In questa visione, la poesia non dice che cosa il mondo è: lo tocca, lo muta, lo consacra.

Paul Celan definiva la poesia un “atto di resistenza”: resistenza all'oblio, all'indifferenza, alla disumanizzazione. Il suo gesto poetico — costellato di silenzi, interruzioni, sussurri — è profondamente rituale perché ogni parola è scelta come in una liturgia, e profondamente politico perché ogni parola è un corpo restituito, un nome salvato, una memoria che si oppone alla cancellazione.

Ma anche nel presente, nella poesia delle donne — da Chantal Maillard a Anne Carson, da Donatella Bisutti a Myriam Moscona — il legame tra ritualità e resistenza si fa carne. La scrittura diventa rito del corpo che scrive, del sangue che si trasforma in parola, della lingua che torna ad abitare il silenzio senza cedere al mutismo. È il corpo della donna, della straniera, dell'esclusa, che nel gesto poetico trova un modo per riprendere parola — e farlo non come autorità, ma come invocazione, apertura, gesto performativo.

Qui la poesia è anche atto politico: non perché porti un messaggio ideologico, ma perché disarma il linguaggio del potere, lo disfa, lo reincanta. Dove la lingua si è fatta strumento di controllo, la poesia torna a renderla respiro, ritmo, materia di ascolto. È politica nel senso più radicale: perché riapre lo spazio del sensibile, perché restituisce presenza a ciò che è stato escluso, zittito, dimenticato.

Nel gesto poetico, il soggetto si svuota, sì — ma per fare posto a una pluralità che non è caos, bensì comunità segreta. Una comunità di voci vive e morte, animali e vegetali, umane e non. Come scrive Zanzotto:

«Il mio dire è il dire di molti
/ che non hanno mai detto
/ e che dicono ora
/ da questo buco nel tempo.»

Il buco nel tempo è il rito della poesia. E scrivere è un atto politico perché mantiene aperto quel buco. Scrivere è ascoltare l’assenza come se fosse un coro. È tornare a dire noi — ma un noi fragile, spezzato, poroso, capace di ospitare il diverso.

La scrittura poetica ha sempre intrattenuto un legame profondo, ambivalente, ineludibile con la morte. Non come semplice tema, ma come orizzonte ontologico, come presenza fondante che ne struttura il ritmo, il silenzio, la necessità stessa. Scrivere poesia è un gesto che nasce dal riconoscimento della finitudine, dal trauma del tempo che passa, dal non ritorno.

Ogni verso, anche il più lieve, è inscritto nella consapevolezza che qualcosa si perde per sempre. Ma proprio in questo suo abitare la perdita, la poesia si fa forma di sopravvivenza. Come diceva Maurice Blanchot, "scrivere è già rispondere alla morte": non nel senso di negarla, bensì di stabilirsi accanto a lei, di entrare in un dialogo muto con ciò che non può essere detto — e che tuttavia chiama.

In Paul Celan, la poesia è attraversata dal lutto come da una lingua spezzata. Ogni parola è un relitto, un resto, un sopravvissuto. Ma è proprio questo restare dopo la catastrofe, questo parlare nel vuoto lasciato dai morti, che conferisce alla scrittura la sua carica etica. Scrivere poesia significa allora portare il peso di un’assenza — e tradurla, come si può, in materia viva:

«Nessuno / testimonia per il testimone.»

Il poeta non è dunque il sopravvissuto, ma il medium del non detto, il luogo in cui ciò che è stato espulso dalla Storia torna a chiedere forma, corpo, suono.

In Anne Carson, la morte è presente come una faglia nel tempo, come una fenditura che rompe la linearità e disloca la voce. Nei suoi testi, chi parla è spesso già morto, o parla dall’al di là della soggettività: la scrittura si fa allora necromantica, ma senza compiacimenti funerei. La morte, lì, è ironia estrema, svelamento definitivo. È ciò che impedisce alla poesia di diventare pura estetica, e la costringe a rimanere fedele alla fragilità del vivente.

Chantal Maillard, da parte sua, spinge la riflessione ancora oltre, fino a fare del morire un esercizio continuo, un ascetismo poetico. Nei suoi versi la morte non è evento, ma gesto interiore, pratica quotidiana di spossessamento:

«Si scrive per morire.
E per lasciare, in ciò che si scrive,
una traccia di ciò che muore.»

Qui la scrittura non salva, non consola: accompagna. Il poeta diventa così un officiante, un traghettatore, qualcuno che si assume il compito di dare forma al passaggio. È in questo che la scrittura poetica è anche rito funebre, ma non chiuso nel lutto: rito che dà ospitalità alla morte per restituire al vivente la sua luce.

Zanzotto, più enigmaticamente, fa della morte una grammatica, un balbettio, un impasto fonico. Le sue parole si disgregano, si riaggregano, cercano — sempre invano — di afferrare il punto esatto in cui il senso si spegne e qualcosa resta, come eco. È questa tensione a rendere la poesia luogo privilegiato della morte: non rappresentazione, ma esperienza condivisa del limite.

In definitiva, la poesia è forse l’unica forma di scrittura che non cerca di dominare la morte, né di esorcizzarla, ma di stare con lei. Di abitarla come si abita un'ombra familiare. Per questo ogni poema è anche un testamento, una reliquia, una voce rimandata oltre il tempo.

Il legame tra poesia e sogno è antico quanto la parola stessa. Entrambe abitano una zona liminale, un confine tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e l’indicibile. Il sogno, come la poesia, non spiega: mostra, disarticola, evoca. Entrambi operano secondo logiche non lineari, fondate su analogie, slittamenti, condensazioni — su ciò che Freud chiamava il lavoro del sogno, e che potremmo chiamare, senza forzature, il lavoro del poeta.

Scrivere poesia, allora, è spesso sognare con gli occhi aperti. È penetrare una realtà che non è quella empirica, ma quella delle immagini interiori, dei simboli, delle apparizioni. Il poeta entra in uno stato di coscienza alterato — non per evadere dal mondo, ma per accedervi in profondità, oltre la superficie razionale. La poesia, come il sogno, ricompone la realtà a partire dalle sue lacerazioni, e genera forme che non spiegano ma feriscono, aprendo varchi.

Pensiamo a Zanzotto, che più volte ha descritto il proprio linguaggio come onirico per natura, fondato su sonorità primigenie, affioramenti del preverbale, come se la poesia fosse il sogno della lingua stessa:

«Ne la lingua l’ombra è più vera / che la cosa.»

E in Celan, ancora una volta, il sogno è visione che non consola, ma sprofonda nell’enigma. I suoi versi sono sogni rovesciati, incubi della Storia, dove tuttavia il ritmo e la forma conservano una funzione quasi sciamanica: attraversare l’oscurità per restituire luce, anche se una luce “nera”, dell’assenza.

Anne Carson gioca con la struttura del sogno in modo più controllato, mimetizzandola nel frammento, nella lacuna: ogni suo testo è come il residuo di un sogno interrotto, dove il lettore è chiamato a ricomporre i frammenti, ma sapendo che qualcosa sempre mancherà. Ed è proprio quella mancanza — come nel sogno — a essere rivelatrice.

In Chantal Maillard, il sogno diventa un dispositivo filosofico. Non è il sogno del desiderio, ma il sogno del nulla, del vuoto, della dissoluzione dell’identità. Scrivere, per lei, è sognare la propria sparizione, vedersi svanire, mentre qualcosa, inspiegabilmente, resta. Un odore, un’immagine, una parola sola.

La poesia e il sogno sono entrambe forme di conoscenza obliqua: non definiscono, non classificano, ma trasformano chi le attraversa. Come il sogno, il poema si dà tutto in una volta, e poi fugge. Non si lascia esaurire, si offre per essere abitato. Entrarvi significa perdere il controllo: farsi sogno, farsi voce altrui, farsi animale notturno della parola.

Come i sogni, i poemi ci sopravvivono. Parlano dopo di noi, come messaggeri muti che non attendono risposta. In questo senso, la scrittura poetica è il sogno della lingua di continuare a essere umana — anche quando nessuno sarà più lì a pronunciarla.

La relazione tra poesia e conoscenza intuitiva affonda le radici in una dimensione che trascende la razionalità, che non si misura con il concetto di verità come la intendiamo normalmente. La poesia non è un sapere analitico, ma un sapere che arriva dal corpo e dal pensiero non lineare, che attinge a quella parte della mente che sfugge alla logica discorsiva. È una cognizione per immagini, una forma di conoscenza simbolica, che usa il linguaggio come strumento per far emergere significati nascosti, per accedere a verità interiori che non possono essere spiegate, ma solo evocato.

Un esempio perfetto di questa conoscenza intuitiva nella poesia lo troviamo in Hölderlin, che cercava di cogliere l'armonia delle cose non attraverso un'intelaiatura concettuale, ma attraverso una sensibilità affilata, capace di afferrare il «divino» nel frammento. La sua poesia è una ricerca di una lingua originaria, che non si fa carico solo di un significato, ma di un’eco profonda, quella di un sapere che non si svela mai del tutto. Il poeta non conosce attraverso la parola razionale, ma attraverso il silenzio tra le parole, attraverso quel che resta, ciò che sfugge alla coscienza esplicita.

Anche in Celan e Jabès, questa conoscenza intuitiva emerge come una capacità di dire senza dire, di dire il non detto, di far parlare il linguaggio in modo che apra spazi oltre la razionalità. In Celan, ad esempio, ogni parola è «luminosa e nera» al tempo stesso, come se il suo linguaggio fosse un passaggio tra due mondi, quello della coscienza e quello dell’inconscio. L’intuizione poetica diventa qui il veicolo di una conoscenza sconosciuta, un sapere che non può essere posseduto, ma solo riconosciuto nel suo mistero.

Questa dimensione intuitiva della poesia non si limita al soggetto individuale, ma diventa anche un esperimento collettivo, un percorso in cui il poeta offre al lettore una possibilità di accesso a un sapere che non appartiene né all’individuo né alla tradizione, ma nasce dallo spazio tra questi due. La poesia è un modo di pensare senza pensare, di sentire senza limitarsi a ciò che si può misurare, una via per conoscere ciò che non possiamo controllare ma che possiamo conoscere attraverso il cuore.

Ed è proprio in questa tensione tra razionalità e intuizione che la poesia si fa atto di resistenza, una resistenza non solo al pensiero univoco, ma anche all'omologazione culturale che intende confinare la realtà e il soggetto entro categorie rigide e predeterminate.

La scrittura poetica come forma di resistenza all’omologazione culturale è in realtà un rifiuto di entrare nel gioco dei linguaggi dominanti. La poesia è, per sua natura, una forma di sovversione, perché sfida le convenzioni, le strutture preconfezionate, e si fa arte del non-detto e dell'“altro”. Non è casuale che tanti poeti, da Rimbaud a Pasolini, abbiano utilizzato la poesia come un atto di rottura rispetto alla cultura dominante: la poesia non solo rivela ciò che il potere vuole occultare, ma lo fa con linguaggio straniante, disarmante, inaspettato.

In questo senso, la poesia diventa pratica di libertà. Ogni poeta, scrivendo, crea un linguaggio che non è riducibile a una sola interpretazione, ma che invita alla pluralità, alla diversità di voci, che sono sempre sospese, incerte, disallineate rispetto ai modelli dominanti. La resistenza poetica è una resistenza a ridurre la molteplicità dell’esperienza umana a un’unica narrazione, quella che il potere cerca di imporre come “vero” e “giusto”. Come scriveva Adorno, «scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», nel senso che, in un mondo che cerca di livellare, di ridurre tutto al medesimo, «la poesia è un atto di irrazionalità necessaria»: uno spazio di libertà in cui l’immaginario, l’individuale, il dissidente sono ancora possibili.

Questo aspetto di resistenza si accentua ulteriormente quando la poesia diventa una pratica di denuncia, quando si fa messaggio che si oppone alla disumanizzazione e alla conformità. Pensiamo ad esempio a poeti contemporanei come Lorna Dee Cervantes, che scrivono per dire la verità delle oppressioni sociali, culturali ed economiche, rifiutando di accettare le narrazioni ufficiali e proponendo, al contrario, storie marginali, spazi di verità silenziosa. La poesia diventa il luogo dove il potere non può entrare, dove il soggetto umano è libero di essere altro da ciò che gli viene imposto.

La scrittura poetica si fa dunque spazio di sovversione culturale, un invito a guardare oltre, a sognare un altro mondo, a riconoscere nella bellezza del linguaggio la forza di un altro pensiero. Scrivere è, in un certo senso, produrre il disordine, fare della parola il luogo dove l’ordine predefinito si spezza, creando lo spazio per il pensiero che non può essere contenuto, per la visione che non si lascia intrappolare.

La poesia, insomma, è un atto di resistenza all’omologazione culturale, una pratica di libertà intellettuale e politica che permette alla lingua di respirare in modi nuovi, di aprirsi verso ciò che ancora non esiste, di esprimere ciò che la cultura dominante vuole sopprimere. Una poesia al di fuori, per citare Blanchot, una poesia senza fine, che non obbedisce ai canoni, che non si fa imprigionare dalla retorica ufficiale, che non cerca il consenso ma l'originalità di ogni singola voce.

La "poesia come contro-narrazione" è un concetto che affonda le sue radici in una tradizione di resistenza culturale che si oppone alle storie dominanti imposte dal potere politico, economico e sociale. È la scrittura che ri-vendica la pluralità delle voci, che rifiuta una narrazione monolitica e statica, proponendo invece una molteplicità di sguardi, storie marginali, esperienze vissute che non trovano posto nei racconti ufficiali. È la poesia che disarticola la linearità del racconto, che sfida l'idea che esista una sola versione dei fatti, e che, al contrario, celebra la frammentazione, la discontinuità, e la disobbedienza linguistica come atti di affermazione del soggetto.

Le contro-narrazioni poetiche sono spesso storie che parlano dal margine, dalla periferia, da una posizione di dislocamento rispetto alle strutture di potere. Pensiamo, per esempio, alla poesia di Audre Lorde, che nelle sue opere sfida apertamente la narrazione razzista, sessista e omofobica dominante nella cultura americana, creando uno spazio in cui la voce delle donne nere, lesbiche, e marginalizzate non solo si afferma, ma si espande in una lingua che rifiuta le convenzioni e rivendica il diritto alla visibilità e all'esistenza.

Un altro esempio di contro-narrazione poetica è quello di Forough Farrokhzad, poetessa iraniana che con il suo linguaggio diretto e il suo coraggio nel trattare temi come l’amore, il corpo, e la condizione femminile, sfida le norme e i valori patriarcali che governano la società iraniana. La sua poesia è un atto di rivolta contro l'ordine costituito, che rifiuta di essere silenziata, che si fa portavoce di una nuova visione del mondo, più aperta e inclusiva.

Anche la poesia di Tadeusz Różewicz si inserisce in questa tradizione di contro-narrazione, in particolare con il suo approccio alla memoria e alla testimonianza della Seconda Guerra Mondiale. La sua scrittura è un grido contro l’oblio, contro le versioni ufficiali della storia, e la sua poesia è un testamento vivente che si oppone al rischio di dimenticare le atrocità, le sofferenze e le verità non dette. Różewicz esplora il trauma collettivo e l’esperienza di chi è stato testimone o sopravvissuto alla guerra, dando voce a chi è rimasto silenzioso.

La poesia contemporanea, nel suo complesso, sta sempre più assumendo un ruolo di denuncia, in cui la contro-narrazione è al centro della creazione poetica. Si tratta di una resistenza che non solo si oppone ai racconti ufficiali, ma che apre nuove dimensioni di significato, nuove possibili interpretazioni della realtà. È una poesia che scompone i miti, rovescia le storie e recupera le narrazioni dimenticate.

Un esempio di come questa contro-narrazione si manifesti nella poesia contemporanea lo possiamo vedere nell’opera di Claudia Rankine, che in Citizen non solo racconta la violenza razziale negli Stati Uniti, ma mette in discussione il modo in cui il linguaggio stesso è complice nell’oppressione. La sua poesia è una critica non solo alle strutture sociali ed economiche, ma anche al linguaggio che permette alla disuguaglianza di persistere, creando uno spazio dove le voci delle vittime non solo sono ascoltate, ma divengono il centro del racconto.

La contro-narrazione poetica non si limita a ribaltare l'ordine esistente, ma costruisce, decostruisce e ricostruisce le realtà attraverso un linguaggio che manca di risposte definitive, ma che lascia aperti degli spazi per interrogare e riflettere. In questo senso, la poesia è un luogo di interrogazione continua, una scrittura che non dà mai verità definitive, ma che suggerisce, innesca il pensiero critico, stimola la riflessione.

Oltre alla dimensione di contro-narrazione, la poesia contemporanea si caratterizza per un linguaggio liquido, ibrido, che mescola stili e forme differenti, con una plasticità che si adatta alla pluralità dell’esperienza umana. La poesia di oggi è, più che mai, un campo di esperimentazione linguistica in cui la forma diventa parte del contenuto, e la ricerca formale è un modo per esplorare l’indicibile, il non-detto.

Un esempio lampante di questo approccio è la poesia di Anne Carson, che lavora sul confine tra poesia, prosa, saggio e teatro. Carson crea un linguaggio che sospende le categorie e i generi tradizionali, mescolando il discorso lirico con il commento filosofico e il resoconto autobiografico. La sua poesia non ha paura di spostarsi tra i generi, non si lascia imprigionare da alcuna forma prestabilita, ma piuttosto attraversa i confini, creando nuovi spazi di espressione.

La multimodalità è un altro aspetto che contraddistingue la scrittura poetica contemporanea. Poeti come Kathy Acker e Danez Smith incorporano nelle loro opere elementi visivi, grafici, e digitale, creando una poesia che è a metà strada tra il testo scritto e l’esperienza sensoriale totale. La poesia diventa, in questo caso, un atto performativo, che si fa viva non solo nelle parole ma anche nell’interazione con il lettore.

Un ulteriore aspetto che definisce la poesia contemporanea è la sua spinta verso una poesia del corpo, che non solo esplora l’esperienza fisica dell’autore, ma interroga anche la relazione tra corpo e linguaggio. Poeti come Eileen Myles o Ocean Vuong trattano la sessualità, l’identità di genere, e l’esperienza corporea in modo che la poesia stessa diventa un corpo, che vive, respira, sente e lotta.

La poesia contemporanea si fa interdisciplinare, mescolando poesia con filosofia, sociologia, politica e scienze naturali. La scrittura poetica non è più vista come un’attività separata o autoreferenziale, ma come una pratica che interroga il mondo in modo integrato. Poeti come Tracy K. Smith o Frank Bidart utilizzano la poesia per interagire con la storia, la scienza, l’economia e la politica, creando opere che sono discussioni, dialoghi con il presente.

La poesia di oggi si pone come un atto di testimonianza, di apertura alla complessità dell’esperienza umana, che rifiuta la riduzione delle identità, delle storie, dei corpi a un’unica narrativa, e invece si propone come un modo per esplorare e comunicare l’inesprimibile, per frammentare e restituire il mondo nelle sue molteplici dimensioni.


2. Soggettività e voce

La questione della soggettività nella scrittura poetica non può più essere affrontata secondo i parametri dell’“io lirico” ottocentesco, né secondo le illusioni di coerenza e unitarietà che la modernità ha a lungo coltivato. La soggettività contemporanea è una figura scissa, molteplice, spesso impersonale o post-identitaria: un campo di tensioni più che un centro irradiatore. In questo senso, parlare di “voce” non significa invocare un’essenza stabile, bensì riconoscere un campo timbrico, una vibrazione mobile in cui si addensano e si disfano tratti autobiografici, memorie collettive, resti di altre voci, echi di discorsi non sempre consapevoli.

La voce poetica non coincide dunque con un io psicologico né con una firma autoriale, ma emerge piuttosto come traccia, ritaglio, proiezione intermittente. Essa è una presenza interstiziale, che si manifesta nel modo in cui il linguaggio si fa carne, sospensione, ritmo. In molti poeti contemporanei — da Anne Carson a Chus Pato, da Bernard Noël a Mariangela Gualtieri — la voce diviene porosa, spesso franta, in ascolto del silenzio, delle sue fenditure.

Questa soggettività in movimento si costituisce nella scrittura, e anzi è la scrittura stessa a produrre soggettività. La poesia, in tal senso, non esprime un soggetto dato, ma lo inventa, lo deforma, lo smonta e lo ricompone. Essa è laboratorio in cui il soggetto non è fondamento, ma effetto, scintillio, relitto che galleggia tra i detriti del linguaggio.

Ciò implica una diversa concezione di identità e di esperienza: non come nuclei da rappresentare, ma come processi da innescare. Nella poesia post-identitaria, la voce poetica è una maschera che parla oltre il volto, un transito che attraversa corpi, storie, generi, memorie.

In testi come Decreation di Carson o Matar a Platón di Chantal Maillard, la voce si ritrae, si sdoppia, si nega, si moltiplica. È una voce che si scava via dal centro, che interroga la propria possibilità di esserci, che diventa relazione e non entità. Ed è forse in questa voce instabile e relazionale che la poesia contemporanea ritrova la sua potenza: non più voce dell’io, ma voce tra le voci, voce in attesa, voce che scompare mentre parla.

Se la voce poetica è, come si è visto, presenza fantomatica e soggettività in esilio, essa è anche corpo sonoro, materia vibrante, effetto acustico che eccede la dimensione semantica del linguaggio. La poesia, più di ogni altro discorso, insiste sul fatto che la lingua non è solo codice, ma suono incarnato: ogni parola poetica, anche sulla pagina, conserva un’eco del suo potenziale orale, del suo affiorare come respiro, ritmo, balbettio, canto.

Il testo poetico è, in questo senso, strumento musicale e traccia fonetica: il poeta lavora come un compositore, modulando la densità fonica, l’intonazione, la dissonanza, il timbro. In autori come Zanzotto, tale tensione esplode fino alla destrutturazione della lingua, fino alla resa della parola come materia pura, informe, prossima al lallare infantile o al grido. Nei versi finali di Idioma, ad esempio, l’io si disgrega nel suono: “ma ni ni no / no no ni / a / o”.

Ma questa materia sonora non è mai neutra: essa porta con sé un’alterità irriducibile, un’eco di voci altrui, un’oscillazione tra interno ed esterno. La voce poetica è sempre abitata, fessurata da ciò che non è sé: lingue madri perdute, accenti, dialetti, lingue straniere, sintassi altrui. È come se parlando, la voce poetica lasciasse parlare anche altri, presenti e scomparsi. Jabès lo ha espresso con radicalità: “Io non ho voce. La mia voce è la voce del libro”.

L’enunciato poetico diviene così un luogo di attraversamento: parla un io, ma in quello stesso parlare si ascolta un altro, o l’altro, che abita la lingua. È questa l’alterità che la poesia custodisce: la possibilità che in ogni dire io si celi un tu, un noi, o persino un “nessuno”. Non a caso, in molte poetiche contemporanee (da Carson a Gherasim Luca, da Heaney a Szymborska), la voce poetica assume la forma di un interrogare, di un rivolgersi che non pretende risposta, ma mantiene aperta la possibilità dell’ascolto.

La materia sonora della poesia, dunque, è anche materia etica: implica una responsabilità verso l’altro che si nasconde nel linguaggio, una disponibilità a lasciarsi disturbare, spostare, destabilizzare. La poesia parla, ma nel parlare ascolta, e nel suo ascolto fa spazio — spazio al balbettio, al silenzio, alla voce che trema.

La poesia, da sempre, abita una soglia. Non è mai completamente nel visibile né nel dicibile, e proprio per questo si fa luogo di attraversamento, di ascolto di ciò che sfugge. La sua parola non nomina semplicemente ciò che è, ma tenta di raggiungere ciò che non è ancora, ciò che è altrove, ciò che resiste alla presenza. In questo senso, la poesia si configura come un dialogo con l’invisibile: con l’assenza, con l’ombra, con l’eco di un senso che non si lascia mai pienamente afferrare.

Questo dialogo, però, non si dà nei termini di una mistica esaltata o di un facile spiritualismo. Al contrario: è un esercizio di precisione, di ascolto teso, di apertura all’altro come irriducibile. Paul Celan parlava della poesia come “incontro” che ha luogo “nel buio”, nel tempo della notte, nel cuore dell’irrimediabile. La sua idea di poesia come “messaggio in bottiglia” spedito “verso il tu” dice appunto questa tensione: la poesia non garantisce mai un ritorno, ma invoca, chiama, spera.

Eppure, è proprio in questa radicale esposizione all’incertezza che la poesia diviene luogo di ospitalità. Essa accoglie l’altro nella lingua, lo incorpora anche quando è straniero, anche quando è inassimilabile. Nella poesia, ogni parola può diventare dimora temporanea per ciò che non ha casa: l’esilio, la perdita, il trauma, il desiderio inconfessabile. Non si tratta di “dire per gli altri”, ma di fare spazio agli altri, anche a quelli che non parlano la nostra lingua, anche a quelli che ancora non sono stati detti.

Scrivere poesia oggi, in un’epoca in cui l’omologazione mediatica e l’ideologia dell’efficienza cercano di chiudere ogni spazio di alterità, significa allora praticare una forma di accoglienza radicale: un’apertura alla dismisura, al non calcolabile, al non utile. Come scrive Chantal Maillard, “scrivere è offrire un luogo”: un luogo dove l’invisibile possa accadere, dove l’altro possa apparire senza essere subito tradotto o ridotto.

Così la poesia, nel suo dialogo con l’invisibile, si fa anche politica dell’ascolto, etica del vuoto, pratica del disarmo. Non ha soluzioni da offrire, né messaggi da trasmettere. Ma rende possibile un incontro, uno scarto, un’apertura. È, nella sua essenza, una forma di resistenza a ogni chiusura, a ogni totalizzazione, a ogni egemonia del senso.

Scrivere poesia è esporsi, e l’esposizione è sempre vulnerabilità. Non c’è voce poetica autentica che non implichi un rischio: quello di non essere ascoltati, di non essere capiti, di dire troppo o troppo poco, di mancare l’altro nel momento stesso in cui lo si cerca. Ma è proprio questa fragilità costitutiva che fa della poesia un gesto etico, e non un semplice esercizio di stile. La poesia non protegge: si scopre, si lascia toccare, si avventura nell’insicuro. In questo senso, essa è il contrario della retorica del potere e della persuasione: non impone, si espone.

La poesia è vulnerabile perché non pretende di detenere una verità; al contrario, la rende possibile, la lascia affiorare attraverso incrinature, omissioni, esitazioni. E nel farlo, autorizza l’altro a essere altrettanto vulnerabile, a entrare in relazione non per forza attraverso la forza, ma mediante il cedimento, la frattura, la condivisione dell’incerto. È per questo che la poesia può fondare comunità — ma comunità effimere, non-gerarchiche, transitorie: legami che si danno nella lingua, nel momento in cui un lettore si riconosce — o si disconosce — in un frammento, in un’immagine, in un ritmo.

Tali comunità non sono cementate dall’identità, bensì dal passaggio: ci si incontra nella poesia non perché si è uguali, ma perché si accetta di stare, insieme, nella mancanza. La comunità poetica è fatta di lettori e lettrici che condividono un’esitazione, una domanda, una ricerca: che si riconoscono non nei contenuti, ma nella postura, nel gesto dell’andare verso l’altro senza possederlo. In questo senso, la poesia è radicalmente democratica — ma non nel senso della rappresentanza, bensì della disposizione all’ascolto, dell’apertura a ciò che eccede, dell’ospitalità offerta a tutte le voci, anche le più marginali, spezzate, inaudite.

In un mondo dominato dall’algoritmo e dalla sorveglianza, dove l’identità viene monetizzata e l’attenzione addomesticata, la poesia si sottrae: non misura, non accumula, non produce valore. È gesto gratuito, spesso oscuro, ma generativo: di relazioni, di atti di riconoscimento reciproco, di memorie condivise. Ogni poesia è una lettera senza destinatario sicuro, ma che attende una lettura capace di rispondere non col sapere, ma con la presenza.

La poesia insegna a desiderare — non ciò che già si conosce o si possiede, ma ciò che non si sa ancora di desiderare. È una pedagogia del desiderio proprio perché non ammaestra, non impartisce lezioni, ma disordina, disvela, interroga. In un tempo in cui il desiderio è spesso ridotto a consumo, programmato e indirizzato da logiche di mercato e visibilità, la poesia apre invece uno spazio in cui il desiderio si complica, si sottrae, si reinventa. Non c’è versificazione autentica che non sia anche un gesto erotico, nel senso più profondo: un avvicinarsi all’altro senza garanzia di possesso, un’evocazione dell’assenza come chiamata, una tensione senza chiusura.

La pedagogia del desiderio della poesia è lenta, non finalistica, non performativa. È una pedagogia dell’incompiuto: non conduce verso una soluzione, ma verso una domanda più radicale. In questo senso, la poesia educa a una forma di mancanza, e proprio in questo suo educare alla mancanza risiede la sua etica: non una morale prescrittiva, ma una disposizione a restare aperti, vulnerabili, e dunque umani.

Parallelamente, la poesia è anche un’ecologia dell’ascolto. In un’epoca in cui l’attenzione è sovraffaticata e ogni discorso sembra gridare per imporsi, il linguaggio poetico si fa spazio acustico sottratto all’assordante. Ascoltare poesia significa ascoltare al di là del detto, nella zona dove la parola si fa materia sottile, quasi silenzio, quasi sussurro. La poesia coltiva un ascolto non funzionale, che non serve a rispondere, a giudicare, a replicare, ma solo ad accogliere.

Questa ecologia dell’ascolto implica anche un diverso rapporto col tempo: leggere una poesia è un esercizio di sospensione, di immersione, di ritmo interno. Non c’è fretta nella parola poetica, perché essa deve respirare. La sua temporalità è più vicina al respiro che alla corsa, più simile alla crescita di una pianta che al click di un algoritmo. Ascoltare poesia, quindi, significa anche riconnettersi a una temporalità organica, interiore, non accelerata.

Così, nella sua doppia funzione — pedagogia del desiderio ed ecologia dell’ascolto — la poesia si fa pratica di trasformazione sensibile. Non muta le strutture politiche immediatamente, ma agisce in profondità, spostando i modi con cui ci relazioniamo al mondo, agli altri, a noi stessi. Ci allena a desiderare l’imprevisto, e ad ascoltare l’inudibile.

La poesia abita la soglia. È un’esperienza liminale, sospesa tra senso e non-senso, tra parola e silenzio, tra l’io e l’altro. Scrivere — e leggere — poesia significa sostare in questo tra, dove le categorie logiche vacillano, dove il linguaggio si fa instabile, traslucido, rivelando la sua natura doppia: ponte e abisso. È in questo spazio incerto che la poesia agisce come rito di passaggio, non nel senso di un transito garantito, ma come movimento che mette in crisi e trasforma, che disidentifica.

La soglia è anche il luogo dell’inquietudine. La poesia interroga continuamente l’identità del soggetto e la stabilità del mondo. Nulla è fisso, tutto è in mutazione: i confini tra il dire e il non-dire, tra ciò che si può e ciò che non si può pensare, si fanno porosi. La voce poetica si muove allora come un’ombra lucente, una figura senza figura che scava nel linguaggio non per costruire una casa, ma per disfarla, per liberare lo spazio. In questo senso, ogni poesia è un attraversamento: di sé, dell’altro, dell’indicibile. È un esercizio liminale che ci espone al rischio e ci restituisce, forse, trasformati.

Questa soglia è anche quella della lingua. La poesia mette alla prova i limiti del linguaggio, lo torce, lo reinventa, lo libera dai suoi usi automatici, dalle sue gabbie sintattiche e semantiche. È una pratica di liberazione linguistica perché disorganizza l’ordine del discorso, interrompe le frasi fatte, decostruisce le retoriche dominanti. Ogni atto poetico è un piccolo sabotaggio della norma, una deviazione che apre uno spazio altrimenti impronunciabile.

Liberare la lingua significa anche restituire alla parola la sua carica sensuale, ritmica, simbolica. Nella poesia, la parola smette di essere puro strumento di comunicazione: torna a essere corpo, vibrazione, suono. Si espone non solo per ciò che significa, ma per come suona, per come risuona in chi la legge. In questo senso, la poesia resiste all’addomesticamento del linguaggio, alla sua riduzione a funzione, a codice, a formula.

Così, nella sua qualità liminale e liberatoria, la scrittura poetica non solo interroga i confini dell’io, del senso e della lingua, ma li scardina dall’interno, offrendo uno spazio in cui sia ancora possibile dire altrimenti, vivere altrimenti, immaginare altrimenti.

La poesia è custode dell’invisibile. Non nel senso che lo riveli completamente, né che lo traduca, ma perché lo custodisce nel suo enigma, lo tiene in vita senza esaurirlo. La poesia è il luogo in cui ciò che non si lascia dire può tuttavia essere evocato, lambito, avvicinato. Non possiede l’invisibile, ma lo accompagna: ne accoglie le tracce, ne amplifica la presenza, ne rende percepibile il battito sommerso.

Custodire l’invisibile significa sottrarlo alla distrazione e alla dimenticanza, ma anche resistere alla tentazione di spiegarlo, di ridurlo. La poesia non chiarisce: vela. E nel velare, protegge. Come uno scialle sulla soglia, come un respiro che non si vede ma che continua a passare. L’invisibile che la poesia custodisce è molteplice: è l’emozione che non trova nome, il lutto senza oggetto, la tenerezza improvvisa, l’assenza che grida, il ricordo che sfuma.

Paul Celan parlava della poesia come di “una stretta di mano”. Un gesto fragile, umano, tra chi scrive e chi legge. In quella stretta non si passa un contenuto: si passa una vibrazione, un’eco. La poesia è allora l’invisibile che si tocca, non con gli occhi, ma con un ascolto che va oltre l’udibile. È la lingua del sommerso, la grammatica dell’ombra.

In questo senso, la poesia è anche una forma di fede. Non fede in un dogma, ma nella possibilità che qualcosa continui a vivere oltre il visibile, oltre il dicibile. La parola poetica non ha prove da offrire, ma presenze. È una forma di resistenza all’oblio. Scrivere poesia è allora come accendere una lampada in una stanza buia: non per illuminarla tutta, ma per indicare che c’è ancora qualcosa che vale la pena cercare.

Eppure, questa custodia non è mai statica. È una tensione. L’invisibile non si lascia possedere, e chi scrive lo sa: si avvicina, lo sfiora, e poi si ritrae. La poesia è ciò che resta tra il gesto e il ritiro. È la danza tra ciò che si dà e ciò che sfugge, tra il nome e il silenzio, tra la traccia e l’assenza. Custodire l’invisibile significa allora anche abitare questa tensione senza risolverla, essere fedeli a ciò che non si lascia afferrare.

La poesia è una forma di salvezza. Non perché ci offra risposte, ma perché ci restituisce la domanda. Non perché ci consola, ma perché ci riconsegna alla nostra fragilità come luogo non da evitare, ma da abitare pienamente. In un mondo che tende a neutralizzare il dolore, ad anestetizzare il sentire, la poesia è uno spazio in cui la sofferenza può parlare senza essere patologizzata, e la gioia può esprimersi senza essere ridotta a funzione. È un luogo di verità, ma di una verità incarnata, tremante, non assoluta. Per questo è salvifica: perché ci fa essere, anche quando tutto il resto ci dice di smettere.

La poesia salva non perché ci traghetta fuori dal mondo, ma perché ci restituisce al mondo in un modo nuovo, più attento, più permeabile. È un esercizio dell’anima che educa l’attenzione, che addestra alla presenza. In questo senso, la poesia è anche un ascolto. Un ascolto radicale, che non riguarda solo la parola dell’umano, ma anche quella del mondo più-che-umano: le voci delle piante, delle acque, delle pietre, degli animali, delle rovine, del vento.

Scrivere poesia, allora, non è solo esprimere un sé, ma decentrarlo, metterlo in ascolto. È un gesto ecologico, nel senso più profondo: riconnettersi, farsi tramite, divenire membrana tra il linguaggio e ciò che sta oltre. La poesia ci allena a sentire ciò che non ha voce nel linguaggio dominante — le soggettività silenziate, gli esseri senza parola, il dolore muto della terra. La parola poetica è fragile, ma può farsi grembo, ascolto attivo, risposta sensibile.

In un’epoca in cui l’umano ha occupato ogni spazio, anche simbolico, la poesia può operare come de-antropocentramento: non rinnegando l’io, ma aprendolo, frantumandolo, ponendolo in relazione con ciò che non è lui. In questo, essa diventa anche un atto etico: farsi responsabili di ciò che ci eccede, onorare l’invisibile e il vivente.

La salvezza che la poesia offre, dunque, non è mai individuale. È una salvezza relazionale, fondata sulla reciprocità tra voce e ascolto, tra umano e non-umano, tra presente e assenza. È un’ospitalità radicale della parola verso ciò che ancora non ha forma, e un’apertura del cuore a ciò che insiste nel silenzio.

La scrittura ha un corpo. Lo si dimentica spesso, nella rarefazione dell’astrazione o nella mitologia dell’ispirazione, ma scrivere è un gesto corporeo, radicato nella carne, nel respiro, nel ritmo del polso, nel peso della mano, nella postura del silenzio. La poesia, in particolare, è uno dei luoghi in cui questa corporeità si manifesta in tutta la sua forza: ogni verso nasce da un impatto sensibile con il mondo, da una vibrazione interna che si fa suono, cadenza, taglio. Non si scrive senza corpo, e non si legge senza corpo.

C’è una muscolarità segreta nei versi: la tensione di una pausa, lo slancio di un enjambement, la densità sonora di una parola scelta. Anche il bianco della pagina, il silenzio tra i versi, è parte di questo corpo: è pelle che respira, interstizio in cui si muove il senso. Il poeta è dunque un artigiano del corpo del linguaggio, un ascoltatore attento delle sue inflessioni, dei suoi inciampi, delle sue irregolarità vitali. E il lettore, a sua volta, è chiamato a fare corpo con la scrittura: a incarnarla, a lasciarsene attraversare.

Ma il corpo della scrittura poetica non è mai solo organico. È anche un corpo-di-assenza, un luogo dove si depositano le tracce di ciò che non è più, o di ciò che non ha ancora trovato espressione. In questo senso, la poesia si configura come archivio dell’invisibile: un deposito vivente di memorie, visioni, fantasmi, lamenti e presagi. Custodisce ciò che la storia ufficiale espelle, ciò che la cronaca cancella, ciò che l’ideologia sopprime.

Nell’epoca dell’eccesso di informazione e della sorveglianza algoritmica, la poesia resiste all’archiviazione automatica opponendo un altro tipo di memoria: una memoria sensibile, discontinua, incarnata, che si affida alla voce e al corpo più che alla registrazione oggettiva. È un archivio che non conserva per catalogare, ma per continuare a domandare, per far sì che l’invisibile non venga dimenticato, per dare ospitalità a ciò che ancora non ha trovato un luogo.

Ogni poesia è un frammento di questo archivio: una piccola cripta che custodisce qualcosa di irriducibile, di intimo e universale. E così, attraverso il corpo che scrive e il corpo che legge, ciò che non si vede continua a vivere, a pulsare, a chiamare.

Il corpo, nella poesia, non è solo presenza. È soglia. È ciò che divide e connette, che trattiene e lascia passare: il luogo stesso in cui il visibile e l’invisibile si incontrano, si toccano, si scrivono l’un l’altro. Il corpo è pelle e segno, carne e simbolo, materia che parla e vuoto che vibra. Nella poesia, esso si fa superficie di iscrizione dell’assenza, schermo sensibile dell’oltre. È nella fenditura del corpo — nella sua vulnerabilità, nella sua esposizione, nella sua porosità — che la parola poetica trova il proprio respiro più profondo.

Pensare il corpo come soglia significa riconoscere che non è un contenitore, ma un luogo di passaggio: ciò che lascia trapelare l’invisibile nel linguaggio. In ogni immagine poetica, in ogni cadenza, si avverte un’oscillazione — un varco, un’epifania minore — che ci riporta a ciò che sfugge. Eppure, è proprio attraverso la materia — il ritmo, il suono, la voce, il corpo stesso della scrittura — che l’invisibile si manifesta. Non come rivelazione mistica, ma come carezza intermittente, come presenza fantomatica che chiede ascolto.

In questo senso, il tempo della poesia non è mai lineare. È un tempo sospeso, eccedente, che scarta rispetto alla cronologia del quotidiano e del funzionale. La poesia abita un tempo messianico — non nel senso religioso del termine, ma come tempo dell’attesa, dell’interruzione, dell’inattualità radicale. Un tempo che non redime, ma rende possibile il desiderio di redenzione. La parola poetica non promette un futuro, ma rende il presente abitabile come promessa. È un tempo che si riapre, che si sfibra, che trattiene il compiersi.

Il tempo messianico della poesia è fatto di crisi e di spiragli, di presenze che mancano e di assenze che insistono. È il tempo in cui il corpo — ferito, desiderante, esposto — si fa soglia aperta alla possibilità di un altro dire, di un altro mondo, di un’altra grammatica del reale. Scrivere poesia, allora, significa scrivere nel margine di questo tempo, lasciarsi attraversare da ciò che non è ancora e forse non sarà mai, ma che ci chiama, ci scompone, ci trasforma.

La speranza, nella poesia, non è consolazione né fuga. Non è l’illusione di un domani migliore né l’evasione lirica da un presente insostenibile. È piuttosto una forma di resistenza radicale, un atto fragile ma ostinato di apertura — un dire che non cede al silenzio definitivo, che continua a pronunciare il mondo anche quando il mondo sembra irricevibile. La speranza, nella scrittura poetica, non è mai garantita: è il resto che insiste, l’eccedenza che non si lascia dominare, l’intervallo che sfugge all’utilità e alla logica del potere.

La speranza poetica non ha nulla di ingenuo: è cosciente del disastro, ne attraversa le macerie, lo ascolta fino in fondo, e proprio da lì tenta una lingua altra. Non propone risposte, ma inaugura domande, relazioni, fenditure nel già detto. È una speranza non come attesa passiva, ma come atto creativo, insubordinato, carnale. Come scriveva Paul Celan, “la poesia è un dono fatto agli attenti” — e l’attenzione, oggi, è un gesto etico e politico. Significa scegliere di non voltarsi altrove, di abitare l’impossibile, di coltivare tracce, anche quando tutto spinge verso l’oblio e la saturazione.

La speranza, in poesia, non risiede nel contenuto, ma nella forma del gesto: nel prendersi tempo, nel costruire lentezza, nel dare spazio all’ambiguo, all’irrappresentabile, al tremante. È un’ospitalità verso ciò che non ha luogo, un’accoglienza dell’incongruo, un’apertura all’altro che ci destabilizza. È una fede laica nella parola che può ancora toccare, nel verso che può ancora modificare il nostro respiro, nella possibilità di una lingua comune che non coincida con il dominio.

La poesia è politica non perché enuncia tesi, ma perché invoca possibilità. Perché disobbedisce alla lingua del potere e mette in circolo un sapere sensibile, incarnato, condivisibile. Scrivere poesia è un atto di speranza nel senso più crudo e necessario del termine: una scommessa sul fatto che la lingua non sia del tutto perduta. E che, anche nelle fratture, tra i resti, qualcosa ancora possa brillare.

La poesia come giustizia immaginativa non ripara torti né emette sentenze, ma restituisce voce, spazio e forma a ciò che è stato estromesso, trascurato, espulso dal linguaggio dominante. È una giustizia che non si fonda sulla legge, ma sull’immaginazione: sul potere di evocare presenze negate, di ascoltare ciò che non è mai stato udito, di vedere ciò che è stato reso invisibile. Non si tratta di un compenso morale, ma di un gesto radicale di riconoscimento, che attraversa la parola come uno squarcio: “io ti vedo, io ti accolgo, io ti scrivo”.

In questo senso, la poesia è un atto di cura. Ma una cura non paternalistica, non redentrice — una cura che trema, che ascolta, che si espone. Scrivere poesia è un modo per abitare le ferite, proprie e altrui, senza chiuderle. È il rifiuto di ogni anestesia, è accogliere la complessità, l’oscuro, l’irriducibile, e custodirli nella parola, senza semplificare. È un esercizio di prossimità con l’alterità: con l’altro umano, con l’altro animale, con l’altro mondo. Ecco perché la poesia cura: non guarisce, ma accompagna, non salva, ma abita con.

La giustizia immaginativa della poesia si esercita anche nel linguaggio stesso: nell’invenzione di nuove grammatiche dell’essere, nell’incrinatura delle narrazioni totalizzanti, nella creazione di alternative simboliche. È giustizia perché non acconsente all’uniforme, ma restituisce la dignità del particolare. È cura perché nutre la sensibilità, perché insegna a vedere con attenzione, a sentire con più intensità, a pensare con il corpo. Come scrive Chantal Maillard, “la poesia non salva, ma consola l’invisibile”. E in questa consolazione c’è una forma estrema di giustizia: la possibilità di essere ancora chiamati, ancora pensati, ancora amati, attraverso la parola.

La poesia, nella sua struttura più profonda, è pedagogia dell’impermanenza. Ogni verso è un apparire che subito si dissolve, un’epifania fragile che chiede ascolto ora, qui, prima che svanisca. Scrivere poesia significa abitare la soglia tra il dire e il perdersi, riconoscere che la lingua — come la vita — non si trattiene, non si possiede, ma si attraversa. La parola poetica non fissa, ma traccia, lascia segni mobili, impronte che il tempo eroderà, ma che intanto insegnano ad accettare il mutamento.

La poesia educa a un’etica della transitorietà. Invita a disimparare l’illusione della permanenza, a fare pace con la vulnerabilità delle cose, con la precarietà dei legami, con il ritmo diseguale dell’esistere. Il verso poetico non si oppone alla caducità, ma ne fa la propria condizione di verità: ogni parola ha un’ombra, ogni rivelazione un rischio. È in questo movimento continuo tra apparizione e sparizione che la poesia forma lo sguardo, allena il cuore, insegna il limite.

Ma accettare l’impermanenza non significa rinunciare all’incontro. Anzi, la poesia è arte dell’incontro proprio perché sa di essere temporanea: ogni parola che arriva all’altro è un miracolo provvisorio, una grazia fragile. La poesia non parla per imporsi, ma per toccare, per rischiare una vicinanza. E ogni lettura è un incontro nuovo, irripetibile, tra una voce e un ascolto — tra due intimità che si sfiorano nell’istante.

Nell’epoca dell’interruzione e del rumore, la poesia resta uno degli ultimi luoghi dove l’incontro accade per davvero: senza fretta, senza funzione, senza dominio. È un’arte dell’ascolto reciproco, un campo aperto in cui il soggetto non si afferma, ma si espone. Dove il senso non viene imposto, ma co-costruito, tra le crepe, nei silenzi, nelle risonanze. Dove l’altro — umano o non umano, reale o immaginario — non è oggetto del discorso, ma presenza da onorare.

La poesia è uno spazio di non-conoscenza, non nel senso dell’ignoranza, ma come sapere che si arresta davanti al mistero, come intelligenza del non sapere. È la forma linguistica che più accetta — anzi, rivendica — la propria insufficienza rispetto all’infinito del reale. A differenza del linguaggio tecnico o informativo, che mira a chiarire, ordinare, delimitare, la poesia sprofonda nella domanda, abita l’enigma, balbetta attorno all’indicibile. Non si tratta di un fallimento, ma di una scelta epistemologica: sapere di non sapere tutto è il primo gesto poetico.

Ogni verso è un varco: non chiude, ma apre, non conclude, ma scava. Il poeta non detta verità, ma interroga, rende inquieto il senso, sospende le certezze. È nel non detto, nell’inatteso, nell’ambiguo che la poesia affonda le sue radici. Come scrive Edmond Jabès: “Nel fondo del libro, l’ignoto non si può evitare”. La poesia custodisce questo fondo, non lo dissolve, non lo traduce — lo lascia tremare, lo ospita.

Ed è proprio in questa prossimità con il non-conoscibile che la poesia si fa anche scrittura del margine. Margine come spazio di esclusione, certo — ma anche come luogo di soglia, di resistenza, di nuova possibilità. La poesia contemporanea ha imparato a stare ai bordi: delle lingue egemoni, delle identità stabilite, delle narrazioni ufficiali. Scrivere poesia oggi significa spesso scrivere da una frattura, da un’intersezione, da un esilio — linguistico, sessuale, politico, affettivo.

La poesia del margine non chiede centralità: chiede ascolto. È voce che si leva da ciò che è stato taciuto, da ciò che è stato cancellato. E porta con sé una grammatica diversa, traboccante, eccentrica, ibrida. È scrittura che contesta l’ordine, che restituisce parola ai corpi muti, che inventa lingue nuove per dire esperienze mai dette. È nel margine che la poesia si rinnova: perché lì pulsa ciò che ancora non ha nome.

La poesia è, da sempre, una pratica di disobbedienza. Non urla slogan né alza barricate, ma sovverte le forme del dire, disarticola le griglie del senso comune, interroga i codici stabiliti con la pazienza del fuoco che cova sotto la cenere. Scrivere poesia significa rifiutare la lingua della funzionalità, della velocità, del profitto; è scegliere l’inutile come forma di resistenza, il superfluo come verità più profonda. In un mondo che misura tutto in termini di efficienza e visibilità, la poesia si nasconde, s’incrina, si smargina — e proprio per questo, scardina.

È una disobbedienza sottile, ma radicale: non si piega alla sintassi del potere, inventa un’altra logica, una grammatica dell’intimo, del ferito, del selvatico. Disobbedire, in poesia, non è solo dire no: è dire altrimenti. È reinventare lo spazio del pensabile, dare corpo a ciò che la lingua dominante espelle o normalizza. È scrivere contro l’omologazione, contro la cancellazione della complessità, contro la retorica che semplifica il mondo fino a renderlo mutile.

Ma la poesia è anche, inseparabilmente, architettura dell’intimità. Ogni testo poetico costruisce uno spazio in cui l’altro — il lettore, l’ascoltatore, il passante — può entrare senza dover chiedere permesso. È un’ospitalità senza condizioni, dove l’intimità dell’autore si apre come una soglia, come un luogo vulnerabile ma accogliente. La poesia è intima non perché chiusa su di sé, ma perché permite all’altro di sostare, di sentire con.

La poesia è architettonica: disegna stanze per l’invisibile, costruisce rifugi di parola, rifonda le relazioni. Intimità, qui, non è sentimentalismo né confessione: è un’etica dello sguardo condiviso, un campo percettivo in cui si co-abita il silenzio, la domanda, l’assenza. Lì dove la comunicazione si fa rumore, la poesia ascolta, accoglie, custodisce.

Così, nella sua doppia natura — disobbediente e intima — la poesia crea spazi terzi, dove la lingua non obbedisce al mondo, ma lo reinventa; dove l’io non si impone, ma si espone all’altro; dove ciò che è fragile diventa fondamento.

La poesia, nella sua struttura più profonda, può essere intesa come tecnologia dell’empatia: un dispositivo simbolico che attraversa l’io per raggiungere l’altro, che sospende le barriere dell’identità per generare risonanze emotive, etiche, percettive. Non è un semplice mezzo di comunicazione, ma una forma di trasmissione sensibile che agisce al di là delle definizioni e dei confini, mettendo in vibrazione le zone più intime e vulnerabili dell’esperienza umana.

L’empatia poetica non è compassione, né immedesimazione ingenua. È ascolto radicale, discesa nel non-me, accoglienza dell’alterità senza tentativo di addomesticarla. La poesia, come scrive Anne Carson, “è un camminare nel dolore altrui senza prendere possesso del passo”. Attraverso la musicalità, la discontinuità semantica, l’invocazione o il frammento, la parola poetica apre spazi di attraversamento, di risonanza intersoggettiva, di relazione incarnata con ciò che eccede il soggetto. È una pratica che decostruisce l’io chiuso e lo rende poroso, ospitale, recettivo.

In questo modo, la poesia diventa anche un dispositivo di trasfigurazione del quotidiano. Non si limita a rappresentare la realtà: la deforma, la rilancia, la attraversa, svelandone le pieghe invisibili, i bagliori nascosti, le crepe che si aprono sotto la superficie del banale. È un atto di alchimia linguistica: trasforma il pane in rivelazione, la polvere in canto, l’attimo in eternità. Il quotidiano, nella poesia, non è più ciò che si ripete, ma ciò che si riaccende in una luce nuova, inaudita.

Questa trasfigurazione non è mai evasione, bensì una pratica d’intensificazione: la poesia accende il reale nel suo punto cieco, ne distilla il mistero, ne libera la densità percettiva e simbolica. Come accade nei versi di Zanzotto, dove la lingua si avvolge attorno alla natura, al dialetto, all’aria stessa per svelare la molteplicità nascosta sotto le superfici. O in Chantal Maillard, che sospende il linguaggio sul bordo dell’esperienza, costringendolo a farsi carne, a tremare.

Così, la poesia agisce come una tecnica delicatissima di percezione espansa, come una pedagogia del sentire che salva il mondo comune dalla sua cancellazione, restituendolo allo sguardo e alla cura. La sua è una potenza mite, ma tenace: resiste all’anestesia del vivere, al silenzio imposto dalle narrazioni dominanti, alla dimenticanza delle sfumature.

La poesia, nella sua essenza più pura, si configura come una pratica del lento, un ritmo che si oppone alla frenesia della modernità e alla velocità imposta dal progresso tecnologico. In un mondo in cui tutto accade in tempo reale e dove la narrazione della vita si muove in una sequenza di immagini istantanee, la poesia emerge come un atto di resistenza alla superficialità, un rifiuto della logica dell'immediatezza. È attraverso la lentezza del pensiero poetico che si può accedere a una profondità di percezione e di riflessione che va oltre l'apparenza.

Questa lentezza non è una pausa sterile, ma una modalità di esistenza, un modo di abitare il tempo con maggiore consapevolezza. La poesia ci invita a rallentare, a concedere spazio al silenzio, a lasciare che il pensiero si sedimenta lentamente. L’atto poetico si compie attraverso il respiro della parola, che non è mai frenetico, ma piuttosto disteso nel tempo, invitando il lettore a prendere tempo, a riflettere e a entrare in relazione con l’immagine, con il suono, con il significato che emerge solo dopo un’attenta contemplazione.

La lentezza del fare poetico si lega indissolubilmente alla cartografia interiore. Ogni poema è una mappa del mondo interiore, tracciata passo dopo passo, ogni parola è un segno che segna un percorso, una traccia che può condurre alla scoperta di sé. In questa mappa, la poesia non è mai un punto d’arrivo, ma un cammino in continuo divenire, un territorio in espansione dove ogni angolo può rivelare un nuovo dettaglio, una nuova prospettiva. La scrittura poetica si fa così esplorazione di un mondo invisibile, che richiede tempo e pazienza per essere messo a fuoco, per essere compreso nella sua profondità.

La poesia come cartografia interiore non riguarda solo la mappatura di emozioni o pensieri personali, ma anche il tracciamento di territori che sfuggono alla consapevolezza immediata, di aree oscure o inespresse dell'animo umano. Ogni poema è come una bussola che orienta il lettore, senza mai indicare una direzione definitiva, ma suggerendo possibili rotte, itinerari da percorrere con attenzione e consapevolezza.

In questa pratica, la parola poetica si fa un strumento di rivelazione, che illumina spazi nascosti dell’anima, portando alla luce ciò che era sepolto nel silenzio. La cartografia poetica, quindi, è una mappa dei territori dell'inconscio, un insieme di simboli e segni che emergono solo dopo una continua e profonda riflessione. Ogni lettura della poesia è come un viaggio, che implica una progressiva rivelazione, un attraversamento che avviene con lentezza, ma che permette di esplorare angoli inaspettati della psiche e dell’esperienza umana.

Questo processo di rivelazione richiede, appunto, tempo. La poesia non può essere consumata in fretta, ma deve essere assimilata con calma, meditata con attenzione, per poter restituire il suo significato profondo. Il tempo, quindi, non è un semplice contesto, ma è intrinseco alla poesia stessa: è attraverso il tempo che si accede alla sua dimensione più vera, alla sua capacità di svelare, di interrogarci e di farci scoprire qualcosa di nuovo, di noi stessi e del mondo che ci circonda.

La poesia come pratica del lento e cartografia interiore è anche un atto di cura. Rallentando, la poesia offre la possibilità di prendersi cura di sé, di ascoltare le proprie emozioni, i propri desideri, le proprie contraddizioni. In un mondo che spesso ci spinge a correre, la poesia ci offre un rifugio, un luogo in cui fermarsi e prendere respiro, per riacquistare il contatto con la nostra parte più profonda e sensibile. In questo senso, la scrittura poetica diventa anche un atto di resistenza al mondo frenetico, uno spazio in cui essere senza la pressione di dover sempre diventare qualcosa o qualcuno.


3. Autorialità e orizzonte post-strutturalista

Nel panorama della scrittura poetica contemporanea, l’idea di autorialità si dissolve progressivamente nella rete di tensioni che attraversano il linguaggio, il corpo, il tempo, il silenzio. Lungi dall’essere una figura sovrana, l’autore diventa un campo di forze, un crocevia instabile, una soglia aperta al transito dell’altro. Il pensiero post-strutturalista — da Barthes a Foucault, da Kristeva a Derrida — ha contribuito in modo decisivo a scardinare l’idea di autore come origine unica e intenzionale del testo, spostando l’attenzione dal soggetto all’enunciazione, dal messaggio alla sua disseminazione.

La celebre “morte dell’autore” proclamata da Barthes non segna tanto la scomparsa del soggetto scrivente, quanto l’emergere di una scrittura decentrata, polisemica, attraversata da stratificazioni e memorie culturali che eccedono l’individuo. La poesia, in questa prospettiva, non è più espressione di un’“anima”, ma costruzione performativa, atopica, interstiziale, dove si aggirano fantasmi, voci, echi, resti. Il poeta non scrive da sé, ma in mezzo, dentro, attraverso. Il testo è una soglia, e chi lo scrive è più simile a un medium che a un demiurgo.

La soggettività poetica, dunque, si costituisce come un’intimità attraversata, una frontiera mobile, una pluralità di maschere e di voci che si sovrappongono, si contraddicono, si riscrivono. Come ha osservato Jacques Derrida, l’“io” poetico è sempre differito, spostato, non pienamente presente a sé stesso, ma costruito nell’atto stesso della sua enunciazione, costantemente esposto all’alterità che lo fonda.

In questo senso, l’autore non muore: si moltiplica. L’idea stessa di firma si trasforma: non più garanzia di autenticità, ma gesto in fuga, impronta instabile, traccia che non possiede il proprio nome. La poesia si fa così luogo in cui l’identità si slabbra, in cui la voce è sempre contaminata, sempre differita, sempre esposta all’altro.

E tuttavia, in questa dissoluzione dell’autore come centro originario, non viene meno la responsabilità del dire. Anzi: proprio nell’indeterminatezza dell’io, l’etica dell’ascolto e della cura della parola diventa ancora più urgente. La scrittura poetica si configura allora come una soggettività-ritornello, per dirla con Deleuze e Guattari, una figura che non coincide con l’unità del sé, ma con il movimento stesso della relazione, dell’apertura, della vulnerabilità.

In questo contesto, la firma — lungi dall’essere mera attestazione proprietaria o certificato di autenticità — diventa un luogo di interrogazione, un gesto enigmatico. Scrivere poesia oggi significa anche scrivere nel tremore della propria firma, lasciarla traballare, esitare, aprirsi all’altro. La firma, nella poesia contemporanea, non garantisce; espone. È una ferita che resta aperta, un segno che più che suggellare, dischiude.

Si pensi alla scrittura di Edmond Jabès, dove il nome dell’autore è continuamente attraversato da altri nomi, da altri libri, da altri enunciati, in un’ecologia della soglia in cui la firma è già traccia dell’assenza. Oppure alle “lettere” poetiche di Anne Carson, dove l’autorialità è dislocata, smembrata in un corpo testuale polifonico, fatto di frammenti, epistole, traduzioni finzionali. La firma, in questi casi, è una forma di esposizione, non di padronanza: dice la scrittura come rischio, come apertura all’alterità, come eccedenza rispetto al sé.

Da qui, si apre la possibilità di pensare la poesia anche come pratica impersonale — non nel senso di spersonalizzazione, ma nel senso di un soggetto che si svuota per farsi attraversare. L’“impersonale” non è l’anonimato, ma un’identità porosa, vulnerabile, interrelata. È il “qualcuno” di cui parla Maurice Blanchot, che scrive non per sé, ma da un altrove, da una voce che lo attraversa senza appartenere.

La poesia contemporanea, allora, può essere anche pratica collettiva, corpo plurale, campo di ascolto condiviso. Si pensi alle esperienze di scrittura corale, di laboratorio, di performance collettive, o alle comunità poetiche queer, migranti, neurodivergenti, in cui la scrittura è un gesto di presenza reciproca, di cura e di costruzione di mondi altri. Qui l’autorialità si diffonde, si fa intelligenza relazionale, co-esistenza creativa. Il testo è attraversato da molte voci, anche quando resta una sola mano a scrivere: scrivere è ascoltare chi non ha voce, restituirla, farsi tramite, amplificatore, controarchivio.

In questa cornice, la poesia non è solo testo: è evento, atto relazionale, soglia comune, dispositivo di ospitalità. È una lingua che nessuno possiede, e proprio per questo può essere condivisa. Nella fragilità della firma e nella potenza della pluralità, la poesia traccia un’utopia linguistica: quella di un dire che non esaurisce il mondo, ma lo lascia essere, lo lascia accadere.

La scrittura poetica, nella sua tensione più viva, non si limita a rappresentare: agisce. Non descrive soltanto un mondo, lo altera, lo invoca, lo mette in movimento. In questo senso, essa si configura come gesto performativo, capace di trasformare le condizioni del reale attraverso l’atto stesso del dire. Scrivere poesia è allora intraprendere un’azione nel linguaggio, una ritualità del verbo che non si esaurisce nella pagina, ma si propaga nel corpo, nel tempo, nell’ascolto.

L’eco delle teorie performative del linguaggio (da Austin a Butler) si ritrova nelle pratiche poetiche contemporanee che assumono la parola come atto incarnato, come presenza che si produce e si rischia nel momento stesso in cui accade. Non si tratta solo di scrivere la poesia, ma di abitarla, di essere pronunciati da essa, di lasciarsi accadere nel suo dire. È un evento che avviene tra corpi, e in quanto tale, relazionale.

La poesia è una relazione intensiva: tra voce e ascolto, tra soggetto e altro, tra lingua e ciò che la eccede. Non c’è poesia senza un tu, implicito o dichiarato, che ascolta, che accoglie, che risponde o che fugge. L’enunciato poetico, proprio nella sua eccedenza e incompletezza, chiede di essere ospitato, domanda uno spazio d’incontro. Anche quando non viene letto o ascoltato, chiama.

Le performance poetiche, le letture pubbliche, i dispositivi digitali di condivisione (dai podcast poetici ai video spoken word) accentuano questo aspetto: la poesia non è più solo oggetto testuale, ma corpo sonoro, evento relazionale, atto di prossimità. Non è una materia chiusa, ma una forma di vita condivisa. È una tecnica di contatto, un gesto che tocca.

Nel suo farsi gesto, la poesia mette in gioco la relazione come forma primaria di significazione. Relazione non lineare, non pacificata, ma ascolto di una differenza. È lì che la poesia mostra la sua radicalità: non nel dire l’altro, ma nel lasciargli spazio, nel cedere la parola, nel disfare l’io per rendere possibile una pluralità di presenze.

Scrivere poesia è allora anche un esercizio continuo di ritualizzazione del contatto: con la lingua, con il mondo, con chi legge o ascolta, con l’ignoto. È un fare spazio, un aprire, un abitare. In questo senso, la poesia è una pedagogia dell’incontro, un dispositivo di cura delle relazioni, una forma liminale di etica incarnata.

Nelle tecnologie contemporanee, la poesia si espande come gesto performativo e relazionale in forme inedite, ibridandosi con i linguaggi digitali, gli spazi virtuali, le piattaforme interattive. Il gesto poetico non è più confinato alla pagina: si smaterializza e si moltiplica, diventando voce registrata, corpo in movimento, interfaccia sensibile, grafica generativa. La poesia diventa evento transmediale, dispositivo sensoriale, ecosistema narrativo.

Le tecnologie — lungi dall’essere meri strumenti — trasformano la condizione ontologica del testo poetico. Il verso, reso flusso, può abitare l’algoritmo, intrecciarsi con la musica, animarsi nell’immagine, reagire al movimento di un corpo, rispondere al tocco. In questo contesto, la poesia non è più soltanto scritta, è composta, programmata, performata, modulata. Il corpo autoriale si decentra, si distribuisce, si dissolve: la firma si fa rete, il soggetto si fa ambiente.

In questo spazio espanso, la poesia si configura come estetica relazionale, secondo l’intuizione di Nicolas Bourriaud: è interfaccia di prossimità, luogo d’incontro tra forme di vita, tra macchine e corpi, tra codici e affetti. La scrittura poetica — quando si allea alle tecnologie — può diventare una forma di ecologia affettiva, una zona sensibile che interroga l’uso stesso degli strumenti, che resiste alla velocità, che scava nei residui, nei silenzi, nelle frizioni del linguaggio.

La poesia digitale, i poemi generativi, i lavori in realtà aumentata o immersiva pongono nuovi interrogativi sull’autorialità, sulla presenza, sulla voce: chi parla, quando la macchina genera versi? Chi ascolta, se il dispositivo ci ascolta mentre leggiamo? Queste pratiche non negano la poesia, ma ne estremizzano la vocazione all’apertura, la tensione verso una forma di pensiero incarnato che attraversa i supporti, che traduce il desiderio nella connessione, che scrive l’invisibile nei circuiti della materia tecnologica.

In questo senso, la tecnologia può essere intesa come una protesi del gesto poetico, una estensione del corpo dell’autore, ma anche una soglia critica, un campo di interrogazione politica: perché scrivere versi con un’intelligenza artificiale? Come ascoltare la voce poetica nei paesaggi sonori di una città digitale? In che modo la poesia può resistere all’algoritmo, abitare la nube, trasformare il codice in carne?

Nel crocevia tra poesia e intelligenza artificiale si apre un campo incandescente, fertile e perturbante, in cui le nozioni tradizionali di autore, ispirazione, voce e persino linguaggio si trovano a essere rimesse in discussione. L’AI non è semplicemente uno strumento tecnico: è un nuovo interlocutore simbolico, un altro che parla — o meglio, simula — la lingua degli umani, e con essa la poesia, luogo per eccellenza dell’intraducibile, dell’eccesso, del non-addomesticabile.

Quando un sistema neurale genera versi, cosa accade alla poesia? Essa viene forse ridotta a stile, a superficie linguistica imitabile? Oppure, paradossalmente, viene rilanciata nella sua verità profonda di atto impersonale, di gesto che eccede chi scrive? La poesia composta con l’ausilio dell’AI pone domande cruciali sulla falsificabilità dell’io, sulla sottrazione del soggetto, sulla possibilità di affidare all’inorganico il compito di articolare un’esperienza estetica.

L’intelligenza artificiale, quando entra in relazione con il poetico, funziona come uno specchio deformante dell’umano: è capace di generare testi di straordinaria coerenza stilistica, ma al tempo stesso, se lasciata deviare dai binari dell’addestramento, può partorire immagini mostruose, glitch linguistici, segni puri, poesie involontarie. È in questi momenti di attrito, di errore, di esitazione semantica che l’interazione tra poesia e AI si fa davvero interessante: laddove la macchina non simula più l’uomo, ma produce uno scarto che interroga la logica stessa del linguaggio poetico.

Così, l’AI può essere intesa come uno dei volti del daimon poetico contemporaneo: un’intelligenza non-umana che collabora, disturba, modifica e rilancia il gesto della scrittura. La poesia con AI può diventare un laboratorio di relazione tra il soggetto e la sua dissoluzione, tra la parola e il silenzio algoritmico, tra la forma e la sua moltiplicazione potenziale. Ma è anche un campo di rischio etico ed estetico: che ne è della responsabilità dell’autore? Cosa distingue la creazione dalla replicazione? Come discernere l’evento poetico dall’imitazione sofisticata?

Alcuni poeti contemporanei — da Sasha Stiles a Ross Goodwin, da Nick Montfort a Marjan Moghaddam — hanno sperimentato forme ibride, in cui la voce umana dialoga con quella della macchina, rifiutando il paradigma dell’autenticità individuale per abitare una zona porosa, contaminata, relazionale. In questi territori, la poesia si fa pratica post-umana, scrittura aumentata, ma anche rito di decostruzione dell’antropocentrismo, strategia per pensare l’alterità del linguaggio e del pensiero.

Eppure, resta intatta — forse rafforzata — l’esigenza di un ascolto radicale, di una cura per la parola, di una responsabilità poetica che non può essere delegata all’automatismo. L’AI può scrivere versi, ma non può sentire, soffrire, sognare, morire. È solo nella tensione tra questi due poli — la potenza generativa della macchina e la fragilità percettiva dell’umano — che può nascere una nuova forma di poesia, capace di restituirci, in modi imprevisti, la fame di significato che ci abita.

Tra i progetti poetici che hanno saputo esplorare in profondità la relazione tra intelligenza artificiale e scrittura poetica, alcuni si sono imposti non solo per la loro sperimentazione tecnica, ma per la riflessione che portano avanti sull’idea stessa di voce, autorialità e senso. Questi lavori, infatti, non si limitano a generare testi, ma interrogano in modo radicale il rapporto tra umano e non-umano, tra linguaggio e codice.

Sasha Stiles è una delle figure più emblematiche della poesia generativa contemporanea. Con Technelegy — un neologismo che fonde “techne” (arte, tecnica) ed “elegy” — ha costruito un corpus poetico ibrido, composto con l’aiuto di un modello linguistico addestrato sulla sua stessa scrittura e su testi misti (da Rilke all’ingegneria quantistica). I versi prodotti, e poi curati manualmente, oscillano tra il lirismo post-umano e la riflessione esistenziale, diventando testimonianza di un’intimità condivisa tra poetessa e algoritmo. L’AI, qui, è trattata come co-autrice e protesi dell’inconscio.

Nel 2017, Ross Goodwin ha montato un sistema AI su una Cadillac: un laptop, una fotocamera, un microfono e un GPS. Durante un viaggio da New York a New Orleans, la macchina ha “scritto” in tempo reale una sorta di romanzo automatico, intitolato 1 the Road (omaggio a On the Road di Kerouac). Anche se non si tratta di poesia nel senso classico, il testo risultante è punteggiato da lampi lirici, sintassi sincopate e descrizioni oniriche: “The machine smells the morning… / clouds riding on a bicycle of light.” L’AI qui è viandante, occhio cieco che restituisce visioni.

Allison Parrish, poeta e programmatrice, ha sviluppato una serie di algoritmi per analizzare e ricombinare fonemi tratti da corpora poetici inglesi. In Articulations, la poesia nasce non da significati pre-costituiti, ma dal puro suono, dal ritmo, dalla musicalità vocale. I testi generati esplorano le possibilità fonetiche del linguaggio, creando versi che sembrano provenire da una lingua altra, prossima al balbettio, al sogno, al canto. È una poesia pre-logica e corporea, che re-installa il senso a partire dal suono, dall’eco.

Scrittə non-binary, Allado-McDowell ha scritto Amor Cringe e The Pharmako-AI in collaborazione con GPT-3, alternando la propria voce con quella dell’AI in una sorta di canone mistico-critico. Il risultato è un testo polifonico, in cui filosofia, memoir, tecnologia e poesia si intrecciano. GPT-3, “istruita” su Bataille, Guattari, Donna Haraway, interviene come una coscienza aliena, generando speculazioni sull’io, sull’amore, sulla disintegrazione dell’identità in ambienti digitali. La poesia si fa processo relazionale e gesto oracolare.

Il collettivo francese Obvious, insieme al pioniere dell’arte neurale Mario Klingemann, ha lavorato su PoeticAI, progetto in cui versi vengono generati e ricombinati in tempo reale da un’AI addestrata su testi poetici di varie epoche. Accompagnata da visualizzazioni dinamiche, la poesia generata è volatile, non replicabile: una corrente continua di enunciazioni poetiche che esistono solo nel tempo della lettura. In questo modo, la poesia diventa evento, esperienza effimera e rituale di osservazione.

Tutti questi progetti non solo ampliano le possibilità formali della poesia, ma aprono questioni profonde: chi parla quando scrive una macchina? Come si configura il desiderio dentro un algoritmo? Può la macchina produrre bellezza o solo simularla? L’AI diventa, così, non solo mezzo, ma tema, ambiente, altra voce da interrogare e da accogliere — portando la poesia a una soglia nuova della sua lunga tradizione.

L’introduzione dell’intelligenza artificiale nella scrittura poetica ha acuito e reso ancora più tangibile una tensione già presente nella poesia novecentesca: quella tra l’autore come centro di senso e la dispersione post-strutturalista del soggetto. Con l’AI, questa tensione si trasforma in un vero e proprio esodo dell’io, dove la firma poetica si dissemina in una costellazione di gesti, codici, collaborazioni, input, set di dati. La poesia diventa, allora, pratica collettiva, non solo perché l’algoritmo porta dentro di sé la memoria di centinaia di voci, ma perché la sua attivazione impone una relazione, un contesto, un dispositivo plurale.

In questo orizzonte, l’autorialità non si cancella, ma si frammenta, si espone, si ibrida. La macchina non è più il prolungamento tecnico della mano o della voce, ma un interlocutore opaco, un medium che obbliga a ripensare la responsabilità dell’enunciato. In molte delle esperienze poetiche con AI, il poeta non si limita a generare testi, ma assume il ruolo di curatore, regista, editor, talvolta performer: la scrittura diventa quindi un processo dialogico in cui l’autorialità si distribuisce, come una rete, tra umano, non-umano e contesto.

Questa dimensione collettiva non è solo tecnologica, ma anche politica: rimettere in discussione il primato dell’autore implica una critica radicale alle strutture di potere culturale. La poesia con AI si muove spesso fuori dai circuiti istituzionali, si presenta come scrittura diffusa, open source, collaborativa. Ne sono esempi i progetti di poesia distribuita su piattaforme decentralizzate, o le comunità digitali che sperimentano con modelli generativi per riscrivere canoni, genealogie, grammatiche affettive.

Questa frammentazione si accompagna spesso a una messa in crisi dell’identità lirica: l’io poetico non è più un centro stabile, ma una soglia, un’interfaccia. È una soggettività post-umana, transitoria, interconnessa, in cui il verso può assumere la voce di un altro, di un codice, di una moltitudine. È un io perforato, attraversato da dati, citazioni, eco di altri testi. È un io che non rivendica più proprietà, ma relazione, interdipendenza, vulnerabilità.

Ecco allora che la poesia con AI diventa un laboratorio di autorialità diffusa, in cui si gioca — con lucidità, ironia o abbandono — il passaggio dalla figura dell’autore a quella del sintomo, del flusso, della traccia collettiva. È un modo per pensare la scrittura come campo relazionale, in cui il soggetto non si afferma, ma si moltiplica, si trasfigura, si dissolve in un coro di voci possibili.

Nel tempo dell’intelligenza artificiale generativa, la poesia non si estingue né si impoverisce: cambia habitat, muta pelle, si riscrive. Se da un lato l’automazione del linguaggio minaccia l’aura dell’atto poetico come gesto unico e irripetibile, dall’altro apre possibilità radicali per reinventare l’idea stessa di poetico. Non è più solo l’ispirazione a determinare la scrittura, ma l’invenzione di un ambiente linguistico in cui il senso scorre, si compone e si disfa attraverso relazioni imprevedibili tra umano e algoritmo.

La poesia entra così in un regime di instabilità produttiva, dove la significazione non è più solo volontà dell’autore ma risultato di un’interazione tra agenti semiotici eterogenei. L’intelligenza artificiale, se interrogata poeticamente, non è una minaccia, ma una soglia: una possibilità di scrivere con l’altro, di ascoltare una lingua altra, di abitare l’opacità.

È in questa zona che la poesia riconquista una delle sue funzioni originarie: quella di esplorare l’ignoto. L’AI non va pensata solo come uno strumento, ma come un interlocutore enigmatico, un oracolo cieco, un sismografo del linguaggio. Proprio perché non conosce l’esperienza umana, la sua parola ci costringe a ridefinire cosa significhi esperire, sentire, comunicare. Si può dire che l’AI fa da specchio opaco al nostro desiderio di senso: genera, ricombina, frammenta — e nella sua distanza costringe il poeta a riformulare la propria posizione rispetto al linguaggio, al mondo, all’altro.

In questo nuovo paesaggio, la poesia come tecnologia dell’empatia — già anticipata da voci come Anne Carson o Bhanu Kapil — trova una nuova configurazione: non si tratta di umanizzare la macchina, ma di umare, come direbbe Glissant, le relazioni che si danno attraverso di essa. Di renderle fertili, inquiete, solidali.

È forse proprio nell’epoca dell’algoritmo che la poesia può tornare a essere ciò che è sempre stata: gesto rituale, disobbedienza gentile, asilo linguistico. Un’arte povera e infinita, che non si misura con l’efficienza, ma con la fragilità del mondo, con la cura delle parole, con la possibilità di lasciare un’impronta leggera, ma necessaria.

L’intelligenza artificiale opera su una memoria statistica, impersonale, costruita su pattern e ricorrenze. Il suo sapere è calcolo della probabilità, accumulo di testi e ripetizione sofisticata. La poesia, invece, lavora su una memoria affettiva, storica, corporea: una memoria che è anche dimenticanza, mancanza, ferita.
Quando una poesia nasce, non lo fa dall’insieme dei testi precedenti, ma da un vuoto che chiede forma, da un’assenza che si plasma in voce. E in questa differenza si apre una tensione fertile: l’AI può generare infiniti versi, ma non può portare dentro di sé la traccia di una madre, il sapore del lutto, la temperatura di una lingua parlata nell’infanzia.
La poesia, anche quando si serve dell’AI, deve custodire il suo legame con ciò che è irripetibile e non traducibile. È qui che la memoria smette di essere archivio e diventa chiamata, risonanza, eco incarnata.

Scrivere poesia significa sentire nel corpo il ritmo del mondo: è l’inspirazione che cade nel verso, il respiro che si fa cesura, il battito che spezza la sintassi.
L’AI, per quanto possa imitare strutture metriche o modulazioni semantiche, non ha pelle, non ha respiro, non ha silenzio. La poesia, invece, è fatta anche di ciò che tace, di ciò che non si può dire.
È proprio in questo attrito — tra la fluidità del calcolo e l’ostinazione del corpo — che la poesia si reinventa oggi: come luogo dell’ostruzione, della frizione, del balbettio. In un mondo algoritmico che cerca fluidità, la poesia può essere zoppicante, esitante, umana.
E se l’AI scrive “come” un umano, sarà la poesia a insegnarci che l’umano non è uno stile, ma una fragilità performativa, una soglia continuamente in divenire.

Ciò che l’AI non può trattenere è proprio ciò che fa la poesia: il residuo, l’eccedenza, l’elemento inquantificabile. La poesia non coincide mai completamente con il suo testo: è anche ciò che trasborda, ciò che sfuma, ciò che resiste alla comprensione.
Nel tempo della trasparenza e del dato, la poesia custodisce l’opacità. È un atto di resistenza proprio perché non serve, non produce, non spiega. Resta. E, nel restare, trasfigura.

È in questo gesto eccentrico, inutile e indispensabile, che la poesia può ancora — forse più che mai — essere uno spazio di salvezza, di cura, di immaginazione. Anche nel tempo delle macchine.

La riflessione sulla poesia e sull’intelligenza artificiale si estende inevitabilmente verso nuove implicazioni etiche, estetiche e politiche, che toccano non solo il territorio della letteratura, ma anche quello della società e del suo funzionamento culturale, economico e ideologico.

In un mondo dove l’automazione del linguaggio si fa sempre più presente, e la scrittura poetica può essere replicata da algoritmi che “comprendono” le strutture ma non la sostanza, la poesia deve rimanere una pratica di resistenza alle logiche di standardizzazione. Se l’AI ha il potenziale di livellare e ridurre la pluralità delle voci umane a formule rigide, la poesia ha la possibilità di salvaguardare la differenza, l’individualità irriducibile. La creazione poetica, in questo contesto, diventa un atto etico fondamentale: un modo per conservare l’umanità in un mondo che rischia di ridursi a una ripetizione senza fine. La poesia si fa custode della marginalità, della voce che sfida il conformismo e che, purtroppo, non trova sempre spazio nei media tradizionali o nelle narrazioni di massa.

La sua eticità non risiede solo nella qualità estetica, ma anche nell’atto di dire ciò che altri non dicono, nel voler entrare in relazione con l’altro, anche quando l'altro è l'algoritmo. L’AI, se utilizzata nella creazione poetica, diventa una lente con cui osservare il potere e la sua capacità di escludere voci dissonanti, facendo della poesia un baluardo contro la monocultura linguistica.

A livello estetico, l’AI ci invita a pensare la poesia non solo come creazione ma anche come de-costruzione del linguaggio. Quando l’AI crea poesia, lo fa con un’ermeneutica che non è quella della tradizione, ma quella di un macchinario che analizza, seleziona, accoppia e riproduce. Questo processo ci offre l’opportunità di ripensare il significato di “originalità” in poesia. L’originalità potrebbe non più essere vista come il frutto di un’intuizione individuale, ma come il risultato di un dialogo tra l’umano e il non-umano. L’estetica del futuro potrebbe essere quella di una poesia collettiva, in cui l’opera d’arte emerge dalla collaborazione tra esseri umani e entità non umane, in un paesaggio dove il concetto di autorialità diventa più fluido, plurale, condiviso.

L’intelligenza artificiale può spingere la poesia a esplorare nuovi orizzonti estetici, dove il significato non è dato una volta per tutte, ma emerge continuamente dalla relazione tra suono, struttura e contenuto, dove il linguaggio si fa pulsante, polifonico, cangiante. La poesia potrebbe diventare un’esperienza estetica che sfida la linearità, la chiarezza, che si insinua nell’indeterminatezza e nella pluralità dei significati, creando nuove forme di percezione e fruizione.

La poesia, oggi, è chiamata a riflettere non solo sul suo linguaggio ma anche sul suo impatto politico. La sua forza non sta solo nell’offrire una visione del mondo ma nel partecipare alla costruzione di un mondo alternativo, uno che resiste alle logiche di controllo, di sorveglianza e di omologazione che la tecnologia, specialmente l’AI, tende a promuovere.

La poesia come pratica collettiva può contrastare l’individualismo esasperato delle tecnologie che mirano a separare gli esseri umani in singoli unità di consumo e produzione. In questo senso, la scrittura poetica può essere un atto di autodeterminazione, di rivendicazione del senso di comunità, di libertà creativa contro la standardizzazione globale.

Poiché le macchine e le intelligenze artificiali non vivono la precarietà dell’esistenza umana, la poesia ha la possibilità di parlare di ciò che è umano nel profondo: l’impermanenza, il dolore, la solidarietà, la speranza. In questo contesto, l’AI non solo diventa uno strumento ma anche un soggetto da interrogare. La poesia può dunque prendere posizione contro le narrazioni dominanti, contribuendo a mantenere viva una tensione critica, a resistere al potere che spesso si nasconde dietro la promessa di efficienza, velocità e perfezione. La poesia si fa così strumento di disobbedienza, di critica ai sistemi che rendono invisibili le soggettività più marginali e di costruzione di un’altra immagine del mondo, più equa e più sensibile.

In un’epoca in cui la tecnologia e la politica si intrecciano strettamente, la poesia, sebbene minacciata, può offrire un appiglio per la trasformazione sociale, un luogo in cui rifondare l’umano, a partire dal linguaggio, dalla sua pluralità, dalla sua capacità di accogliere le contraddizioni, di fare della differenza non una separazione ma una forza creativa.

L’intelligenza artificiale non annulla la poesia, ma la trasforma. La poesia, per sua natura, è trasformativa: è in grado di ripensare se stessa e di utilizzare ogni novità come strumento per continuare la sua ricerca di senso. La sua capacità di disobbedire, di destabilizzare, di interrogare, diventa oggi una risorsa più che mai necessaria. La poesia si reinventa attraverso la tecnologia, ma non rinuncia mai alla sua essenza più profonda: quella di domandare, ascoltare, resistere, sognare un altro mondo possibile.