C’è un tempo per lavorare, uno per dormire, e uno — più ambiguo, più fragile — per fermarsi a guardare il cielo senza sapere che ore sono. È in questo interstizio che si inserisce Sunday, la grande mostra ideata da Maurizio Cattelan per il Centre Pompidou-Metz, in occasione del quindicesimo anniversario della sede lorenese del museo. Aperta dall’8 maggio 2025 al 2 febbraio 2027, l’esposizione è molto più di un progetto celebrativo: è una riflessione tagliente e poetica sul tempo sospeso della domenica, sull’inquietudine che abita la pausa, sulla sacralità perduta dei gesti lenti.
Cattelan, come sempre, non predica: allestisce. Costruisce un’opera dentro l’opera, una macchina simbolica fatta di ventisette sezioni in ordine alfabetico, ciascuna intitolata a una frase, una parola, un frammento, rubato alla letteratura, alla musica o al cinema. L’alfabeto, da principio razionale, diventa qui un dispositivo poetico — quasi un Deleuze in versione Pop — che guida lo spettatore in un percorso rizomatico, senza direzione, senza gerarchie, senza conclusione. A ogni lettera corrisponde una cella semantica, una camera mentale, un campo di tensioni. Si passa da citazioni che evocano il trauma al gioco, dal mistico al quotidiano, come in una preghiera laica detta a bocca aperta.
L’impianto scenografico rafforza questo senso di spaesamento. Il Pompidou-Metz, con la sua architettura leggera, ispirata a un cappello cinese, si presta a essere riletto come un corpo: e Cattelan ne abita le ossa, i nervi, la pelle. Pareti mobili, luci penombrali, corridoi ciechi, suoni improvvisi: l’intero edificio diventa un organismo performante, che respira e risponde allo sguardo del visitatore. L’arte, qui, è esperienza immersiva, ma senza effetti speciali: è densità percettiva. È teatro della mente.
Nel cuore di questo dispositivo, alcune opere brillano come nuclei gravitazionali: la parete originale dello studio di André Breton, con i suoi feticci surrealisti; il tavolo da scacchi di Duchamp, che suggerisce mosse senza tempo; e “Plight” di Joseph Beuys, camera ovattata e claustrofobica, installazione monumentale che obbliga al silenzio, al raccoglimento, quasi fosse una cappella moderna. Questi prestiti non sono semplici omaggi: sono alleanze concettuali, evocazioni di un pantheon anarchico in cui Cattelan si inserisce non da allievo ma da complice.
Ma ciò che davvero destabilizza — e insieme nobilita — la mostra è la voce di chi normalmente non ha diritto d’ingresso nel tempio dell’arte: le detenute del carcere femminile della Giudecca, già coinvolte nel Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia, qui tornano protagoniste, attraverso riflessioni ispirate ai titoli delle sezioni. Le loro parole — dure, essenziali, spesso liriche — attraversano le sale come vento nei cortili. Non sono didascalie, ma fenditure. La domenica, per chi vive reclusa, è forse il giorno più feroce: quello del silenzio senza fine, dell’assenza reiterata, dell’attesa senza riscatto. Il loro contributo disinnesca ogni estetismo, restituisce all’arte la sua carica politica, il suo dovere etico di inclusione e di ascolto.
In un momento in cui il Centre Pompidou parigino è chiuso per ristrutturazione fino al 2030, la sede di Metz assume un ruolo strategico e simbolico: diventa laboratorio permanente, avamposto di una museografia che non si limita a conservare, ma prova a generare senso, relazione, conflitto. Sunday non è dunque una parentesi festiva, ma un progetto critico, un dispositivo che interroga lo statuto stesso del museo. È ancora un luogo sacro? È diventato un centro commerciale? È uno spazio neutro? Oppure, come suggerisce Cattelan, può essere uno specchio deformante, uno zoo concettuale dove il visitatore si riconosce e si perde?
La domenica, suggerisce l’artista, è un punto interrogativo che torna ogni sette giorni. È il giorno della messa, del pranzo in famiglia, della passeggiata malinconica, ma anche dell’angoscia latente, dell’identità sospesa. In un mondo che santifica la produttività, la domenica è un’anomalia che resiste. Con il suo consueto linguaggio fatto di ironia feroce e sacralità capovolta, Cattelan la trasforma in una metafora dell’arte stessa: inutile e indispensabile, marginale e totalizzante, dolce e crudele come un giorno che non finisce mai.