Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, di Ugo Morelli e Vittorio Gallese, è uno di quei libri che, pur partendo da presupposti teorici complessi, riesce a toccare una corda profonda e personale. Non è un trattato accademico nel senso stretto del termine, anche se gli autori sono entrambi figure di primo piano nei rispettivi ambiti: Gallese è noto in tutto il mondo per la scoperta dei neuroni specchio e per il suo lavoro pionieristico nelle neuroscienze cognitive, mentre Morelli ha sviluppato una riflessione originale sull’apprendimento, sull’innovazione e sull’umano come essere complesso e relazionale. Il libro è un invito a pensare – anzi, a ripensare da capo – la nostra condizione, nel momento in cui le certezze che hanno sostenuto per secoli l’idea occidentale di soggetto sembrano dissolversi: che cos’è, davvero, l’essere umano, in un’epoca che lo ha smaterializzato, digitalizzato, virtualizzato, e spesso ridotto a pura prestazione?
La risposta che gli autori propongono è chiara, anche se non semplicistica: l’essere umano è corpo in relazione. Non un cervello che ragiona da solo, non un software biologico che calcola in attesa di essere rimpiazzato dall’intelligenza artificiale, non un soggetto astratto che osserva il mondo da una torre d’avorio. Ma un organismo incarnato, situato, esposto, che si costruisce nel rapporto con l’altro, con l’ambiente, con il tempo che attraversa. Il punto di partenza del libro è proprio la necessità di superare un dualismo che ha segnato profondamente la cultura occidentale: quello tra mente e corpo, tra ragione e sentimento, tra soggetto e mondo. Gallese e Morelli non accettano più questo schema, e propongono un modello in cui il pensiero stesso nasce dal corpo, dai gesti, dalle emozioni, dalle esperienze sensoriali. Un pensiero incarnato, appunto.
È su questa base che il libro articola la sua critica più profonda: quella al paradigma della mente come macchina, o peggio, come algoritmo. L’idea che tutto ciò che siamo – pensieri, emozioni, decisioni, desideri – possa essere ridotto a una sequenza computabile, a un insieme di dati replicabili da un’intelligenza artificiale, è vista dagli autori non solo come una semplificazione pericolosa, ma come una vera e propria negazione dell’umano. In un mondo che sembra correre verso la digitalizzazione integrale dell’esperienza, dove la realtà si appiattisce sulle interfacce e dove perfino le relazioni diventano “piattaforme”, Morelli e Gallese lanciano un monito lucido e coraggioso: se dimentichiamo che siamo corpo, che siamo fatti di tempo, di contatto, di empatia, rischiamo di smarrire l’essenza stessa della nostra umanità.
Uno dei concetti centrali del libro è proprio quello di empatia, e non in senso sentimentale o moraleggiante. Gallese, da neuroscienziato, mostra come l’empatia sia un meccanismo biologico primario, iscritto nella nostra struttura neurologica fin dalla nascita. I neuroni specchio, che si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando vediamo un altro compierla, sono alla base della nostra capacità di metterci nei panni dell’altro, di sentire ciò che l’altro sente prima ancora di pensarlo. È una forma di “conoscenza incarnata” che precede la parola e fonda la possibilità stessa del linguaggio, della convivenza, della cura reciproca. Ma è anche un campo fragile, vulnerabile, minacciato da una cultura che esalta l’individuo performante, isolato, competitivo.
Morelli amplia questa prospettiva e la porta sul piano della psicologia della complessità: l’essere umano è, per definizione, un essere relazionale. Non nasce già fatto, ma si costruisce – o meglio, si co-costruisce – continuamente nella relazione con l’altro. È attraverso l’incontro, lo scambio, il conflitto anche, che si forma l’identità. Il libro insiste molto su questo punto: l’identità non è un dato, ma un processo. Un movimento continuo, un equilibrio instabile tra appartenenza e differenza, tra continuità e trasformazione. Ed è proprio questa apertura al cambiamento, questa disponibilità a essere toccati e modificati dall’altro, che rende l’umano irriducibile a qualunque modello meccanico o digitale.
In questo senso, Cosa significa essere umani? è anche una critica culturale profonda al nostro tempo. Un tempo che pretende di essere iper-razionale, ma che spesso rimuove proprio ciò che ci rende umani: l’ambivalenza, l’emotività, la vulnerabilità. Un tempo che esalta la presenza costante – nei social, nei flussi informativi, nella produttività – ma che ci scollega dalla presenza reale, quella corporea, affettiva, situata, in cui ci si guarda negli occhi, ci si tocca, si sbaglia, si improvvisa, si prova qualcosa. Gli autori invitano a tornare al presente, non nel senso del “carpe diem” superficiale, ma come consapevolezza radicale del qui e ora. Essere nel presente significa essere nel corpo, nella relazione, nell’esperienza sensibile. È lì che si gioca la partita dell’umano.
Ora, va detto che il libro non è sempre facile da seguire. In alcuni punti, soprattutto quando si addentra nelle teorie neuroscientifiche o nei riferimenti filosofici, il linguaggio si fa tecnico, denso, esigente. Il lettore non specialista può sentirsi un po’ spaesato, soprattutto se cerca una narrazione fluida e divulgativa. Inoltre, si avverte una certa disomogeneità tra le sezioni: Gallese scrive in modo più asciutto e legato ai dati della ricerca, Morelli invece si muove in un registro più teorico e riflessivo. Ma questa diversità, piuttosto che essere un limite, può essere letta come un dialogo fertile, in cui approcci diversi si intrecciano e si arricchiscono a vicenda.
Nel complesso, il libro ha il merito di proporre una visione alternativa dell’umano, in un’epoca in cui le narrazioni dominanti tendono a renderci sempre più disincarnati, efficienti, prevedibili. Gallese e Morelli, al contrario, ci ricordano che la nostra umanità si gioca proprio nell’imprevedibile, nel contatto, nella reciprocità. Non si tratta di difendere un’idea nostalgica dell’uomo, ma di costruire una nuova consapevolezza, più attenta ai limiti, alla fragilità, ma anche alla potenza generativa del corpo e della relazione.
È un testo che andrebbe letto con lentezza, magari anche discusso a voce alta, condiviso, perché non si limita a informare, ma interroga, coinvolge, mette in movimento. È un libro che non offre certezze, ma strumenti per orientarsi, per ascoltare meglio ciò che accade dentro e fuori di noi. E che ci spinge, forse, a riprendere contatto con una parte dimenticata di noi stessi – quella che non calcola, non produce, non compete, ma semplicemente vive, sente, incontra.