lunedì 5 maggio 2025

Il grido di pietra: la “Strage degli innocenti” di Giovanni Pisano

Alla fine del 1200, in un’Europa scossa da tensioni religiose, da mutamenti culturali profondi e da un crescente fermento artistico, Giovanni Pisano scolpisce nella chiesa di Sant’Andrea a Pistoia un capolavoro assoluto della scultura gotica italiana: il pulpito marmoreo. Ma è soprattutto uno dei rilievi di questo straordinario complesso, la cosiddetta “Strage degli innocenti”, a imporsi come un punto di non ritorno nella storia dell’arte. Non si tratta semplicemente di un’opera bella, di un virtuosismo tecnico o di una raffinata interpretazione teologica. È qualcosa di più profondo e inaspettato: un trauma scolpito nella pietra, una ferita aperta che attraversa i secoli, una visione del dolore che, sebbene ancorata a un testo sacro, supera il contesto religioso per diventare esperienza universale, civile, esistenziale.

Il pulpito, a pianta esagonale, si regge su colonne ornate da leoni stilofori, come da tradizione romanico-gotica, e contiene una sequenza di rilievi che narrano episodi della vita di Cristo, dalla Natività al Giudizio Universale. Ma l’insieme non è un semplice ciclo illustrativo, bensì una vera e propria macchina narrativa, un racconto scolpito che chiede allo spettatore di girargli intorno, di seguirne lo svolgersi come fosse una drammaturgia sacra. In questo contesto, la “Strage degli innocenti” non è un pannello come gli altri, ma l’esplosione emotiva che rompe l’equilibrio, il nodo tragico intorno a cui ruota l’intera narrazione.

La scena, tratta dal Vangelo secondo Matteo, racconta l’ordine di Erode di uccidere tutti i neonati maschi di Betlemme, nel tentativo di eliminare il futuro re dei Giudei annunciato dai Magi. È una pagina nera, di violenza assurda e sproporzionata, in cui l’autorità, temendo la nascita del bene, si fa strumento del male. Ma Pisano non traduce questo episodio in una rappresentazione distante, stilizzata, come era prassi in molte iconografie del tempo. Al contrario, lo vive dall’interno, lo abita, lo mette in scena con una visceralità che sconvolge. Ogni figura scolpita sul marmo è un corpo che geme, si contrae, si spezza. Ogni madre è un grido che si fa gesto, che si aggrappa, che protegge, che urla, che si dispera. Le madri di Pisano non sono archetipi, ma persone. Sono scolpite con una tale varietà di pose, di volti, di movimenti, che sembrano uscire dal tempo, dalle convenzioni, per entrare direttamente nella nostra psiche.

Non c’è idealizzazione, non c’è compostezza. Tutto è turbamento. Una madre stringe il figlio al petto, un’altra lo solleva al di sopra della testa come a toglierlo dalla portata delle spade, un’altra ancora lo nasconde tra le pieghe del mantello, con un gesto che dice tutto della paura e della speranza. Alcune urlano, con la bocca aperta in un’espressione che anticipa il pathos barocco, altre piangono in silenzio, altre lottano con i soldati in una lotta impari, ma disperatamente viva. I bambini, colti nel momento esatto della fine, sono rappresentati non come angeli o simboli, ma come piccoli corpi fragili, con braccia tese, teste reclinate, occhi spalancati.

Anche i soldati, portatori di morte, non sono raffigurati come semplici demoni o bruti senz’anima. Hanno fisionomie precise, posture realistiche, e sembrano anch’essi risucchiati in un vortice di violenza più grande di loro. È come se Pisano non volesse attribuire la colpa a singoli individui, ma mostrarci il disastro collettivo che nasce dalla paura del potere, dalla sua ossessione di controllo. E in questa rete di corpi, che si intrecciano, si urtano, si comprimono, non esiste più un ordine: la scena è invasa dal caos. Il rilievo si riempie fino a scoppiare. Non c’è aria, non c’è fondo, non c’è pausa. È un magma umano che preme da ogni lato, che si gonfia come una tempesta.

Dal punto di vista formale, la composizione è di una complessità vertiginosa. Pisano costruisce la scena su una serie di diagonali che attraversano il campo visivo, creando un senso di movimento continuo, di fuga e ritorno, di inseguimento senza fine. Le linee dei corpi si piegano, si avvolgono, si rompono. La profondità è suggerita più dall’intreccio delle masse che dalla prospettiva. Eppure, nonostante l’apparente confusione, la scena è governata da una regia sapiente: ogni elemento ha un suo peso specifico, ogni gesto è parte di una rete ritmica più grande, ogni dettaglio contribuisce a costruire una tensione che si accumula, si intensifica, fino a diventare insostenibile.

È qui che Pisano si distacca definitivamente dall’insegnamento del padre Nicola, da cui pure ha ereditato l’attenzione per la figura umana e l’interesse per l’antico. Se Nicola guardava alla scultura romana come modello di ordine, di equilibrio, di misura, Giovanni ne prende la lezione plastica e la carica di una drammaticità inaudita. Le sue figure non sono serene, né ideali: sono vive nel dolore, corporee nella sofferenza. Il suo classicismo è tormentato, spezzato, umanissimo. In questo senso, Giovanni Pisano anticipa una modernità che sarà pienamente compresa solo molti secoli dopo: la modernità dell’artista che si assume il compito di raccontare il dolore del mondo senza edulcorarlo, senza piegarlo a una retorica della bellezza.

L’arte, per Pisano, è uno strumento per mostrare ciò che accade realmente quando il potere diventa terrore, quando la maternità è violata, quando la fede è messa alla prova dal sangue. E così la “Strage degli innocenti” diventa non solo una pagina del Vangelo scolpita nel marmo, ma anche un manifesto della capacità dell’arte di farsi veicolo di memoria, di empatia, di resistenza. È un monumento al dolore collettivo, ma anche alla forza indomita dell’amore materno. In quel groviglio di braccia, in quei corpi che si aggrappano alla vita, si coglie un’umanità che non si arrende, che urla il suo no all’ingiustizia, che cerca ancora salvezza.

Guardare oggi quest’opera, nel silenzio della chiesa di Sant’Andrea, significa accettare di essere messi di fronte a una verità che brucia ancora. È un’esperienza che non consola, ma che libera. Perché Giovanni Pisano ci ha lasciato qualcosa che nessuna parola può davvero dire: il dolore del mondo, impresso nella pietra con tale forza da continuare a pulsare, secoli dopo, nei nostri occhi. E in questo pulsare, in questo battito di marmo e umanità, c’è forse la più alta forma di sacralità che l’arte possa raggiungere.