venerdì 16 maggio 2025

Velature d’anima: la pittura segreta di Sofonisba Anguissola

Sofonisba Anguissola (Cremona, 1532 – Palermo, 1625) non è soltanto un nome inscritto con discreta eleganza nelle genealogie della ritrattistica italiana del Cinquecento: è, piuttosto, un astro singolare che ha brillato con una luce autonoma e persistente, una cometa capace di forare le fitte nebbie delle convenzioni patriarcali del suo tempo, per collocarsi in un cielo artistico che, all’epoca, era quasi interamente abitato da stelle maschili. Il suo percorso, straordinario per qualità e longevità, offre un modello non solo di perizia pittorica, ma di tensione interiore verso la libertà intellettuale, di costruzione consapevole del proprio ruolo nel mondo e, infine, di resistenza creativa contro l’oblio.

Nata da Amilcare Anguissola e Bianca Ponzoni, appartenenti alla piccola nobiltà cremonese, Sofonisba fu allevata in un ambiente intellettualmente stimolante, sebbene non urbanamente centrale come quello delle grandi città dell’Italia settentrionale. Cremona, pur essendo una città di provincia rispetto a Milano o Venezia, godeva di una discreta vitalità culturale e commerciale; ed è in questo contesto che Amilcare, padre modernissimo in un’epoca retrograda, comprese il potenziale delle sue figlie e scelse per loro un’educazione all’avanguardia, improntata all’umanesimo classico. Questo gesto, che potrebbe oggi apparire semplicemente progressista, assume invece nel contesto del Cinquecento i contorni di una rivoluzione silenziosa: mai prima di allora si era pensato che le donne potessero accedere agli studi delle arti liberali, tanto meno alla pittura, attività che implicava una conoscenza del corpo umano e una pratica bottegaia generalmente ritenute inaccessibili o sconvenienti per il sesso femminile.

Sofonisba fu avviata sin dalla giovinezza allo studio della pittura sotto la guida di Bernardino Campi, pittore locale che operava tra Cremona e Milano e che riconobbe immediatamente il talento della sua allieva. Quando egli lasciò la città, ella proseguì con Bernardino Gatti, detto il Sojaro, approfondendo le tecniche della tempera e dell’olio, e affinando l’uso della luce e della prospettiva. Tuttavia, il suo apprendistato fu necessariamente limitato da una serie di interdizioni culturali: le donne, come già accennato, non potevano frequentare le accademie artistiche né osservare modelli nudi, il che rendeva loro impossibile accedere a quei generi pittorici considerati “alti”, come la grande pittura storica o religiosa. La pittura, per una donna, poteva essere solo intimità, ritrattistica, rappresentazione domestica. Eppure, proprio in questo “limite” Sofonisba trovò la sua forza: essa seppe trasformare il genere “minore” del ritratto in un potente strumento d’indagine psicologica, restituendo ai volti non solo le loro fattezze esteriori, ma i loro moti interiori, le fragilità, la coscienza di sé.

Il suo celebre Autoritratto con cavalletto, oggi conservato a Łańcut in Polonia, mostra Sofonisba in atto di dipingere la Madonna col Bambino. Non è solo una dichiarazione d’intenti, ma una presa di posizione: l’artista si autorappresenta come autrice, come creatrice. Non più musa o soggetto passivo, ma protagonista del proprio gesto pittorico. È un’opera che trasmette dignità, fierezza, consapevolezza; l’artista fissa lo spettatore con uno sguardo calmo e diretto, come se volesse ribadire la sua esistenza dentro un sistema simbolico che, da secoli, non prevedeva figure come la sua.

Il quadro più noto e innovativo del suo primo periodo è senza dubbio La partita a scacchi (1555), ora conservato al Muzeum Narodowe di Poznań. Qui tre sorelle di Sofonisba – Lucia, Europa e Minerva – sono colte nell’atto di giocare, mentre una serva veglia con discrezione alle loro spalle. Non si tratta soltanto di un esercizio compositivo: in quel momento domestico, apparentemente semplice, si manifesta un intero programma intellettuale. Le giovani Anguissola non sono oggetti, ma soggetti attivi: giocano, riflettono, gareggiano, osservano. Lo scacco è il simbolo della razionalità, della strategia, dell’intelligenza applicata – attributi, fino ad allora, raramente associati all’universo femminile nella pittura. La scena è familiare, ma anche metaforica: è una partita contro le regole imposte dalla storia, che Sofonisba sta conducendo con sottile determinazione.

Il suo talento valicò presto i confini della Lombardia: grazie a una fitta rete di contatti e corrispondenze, Amilcare inviò lettere e disegni a diversi mecenati italiani e stranieri. Michelangelo stesso – ormai anziano e nella piena maturità della sua fama – pare abbia ricevuto alcuni suoi studi, tra cui un disegno raffigurante un ragazzo morso da un gambero, che suscitò la sua ammirazione. Il riconoscimento da parte del “divino” Michelangelo costituì una sorta di consacrazione: la giovane pittrice lombarda veniva ormai percepita come una figura di eccellenza nel panorama artistico italiano.

La sua reputazione giunse fino alla corte di Filippo II di Spagna, che nel 1559 la volle come dama di compagnia della sua sposa, Elisabetta di Valois. Fu un passaggio cruciale. Alla corte di Madrid, Sofonisba non fu soltanto una dama raffinata, ma anche la ritrattista ufficiale della famiglia reale. Lontana dai fasti teatrali della ritrattistica tizianesca, ella impose uno stile sobrio, attento, introspettivo. I suoi ritratti dei piccoli infanti, della regina e dello stesso re – ora dispersi tra El Escorial, il Prado e collezioni private – non sono semplici immagini di potere, ma autentiche esplorazioni dell’interiorità. I soggetti non sono mai rigidi né caricaturali, ma resi con delicatezza e comprensione. Il potere è reso umano, fragile, accessibile.

Rimasta vedova del primo marito, Fabrizio Moncada, gentiluomo siciliano, sposò in seconde nozze il nobile genovese Orazio Lomellini, con il quale si stabilì a Palermo. Lì, nonostante la cecità sopraggiunta nella vecchiaia, continuò a ricevere giovani artisti in visita e a esercitare un magistero silenzioso ma incisivo. Il più celebre di questi fu il fiammingo Antoon van Dyck, che in una delle sue lettere racconta di averla incontrata a novant’anni e di essere rimasto colpito dalla sua lucidità mentale e dalla sua memoria visiva. Ne tratteggia un ritratto commosso, quasi devoto, confermandone non solo l’autorità artistica ma anche quella morale.

La memoria di Sofonisba Anguissola si è a lungo dissolta nei margini della storiografia artistica, vittima di una doppia cancellazione: quella riservata alle donne, e quella inflitta ai generi ritenuti “minori”. Solo nel corso del Novecento, e in particolare con la riscoperta femminista degli anni Settanta, il suo nome ha cominciato a riemergere con la dignità che merita. Oggi il suo corpus è oggetto di studi sempre più numerosi, e le sue opere sono riconosciute non soltanto per il loro valore storico, ma per la loro straordinaria modernità. La sua arte non afferma semplicemente il diritto di una donna a dipingere, ma propone un altro modo di guardare il mondo, fatto di prossimità, di attenzione, di intimità osservativa.

In definitiva, Sofonisba Anguissola non fu soltanto una pittrice: fu una filosofa dell’immagine, una psicologa del gesto e dello sguardo, una pioniera che seppe, con pazienza e determinazione, intagliare il proprio nome nella pietra viva della storia, laddove le donne erano destinate all’invisibilità. La sua parabola ci parla ancora oggi: ci parla di talento, certo, ma anche di coraggio, di intelligenza strategica, di quella grazia operosa che sa trasformare la costrizione in possibilità, e la marginalità in centro radiante.


La tecnica pittorica di Sofonisba Anguissola: tra tradizione e rivoluzione silenziosa

Sofonisba Anguissola non fu un’artista che sconvolse l’arte italiana con gesti eclatanti o invenzioni formali di rottura: il suo linguaggio si inserisce nella tradizione lombarda e rinascimentale, ma la sua capacità tecnica si manifesta nella raffinatezza delle scelte, nella coerenza stilistica e nella tensione psicologica che riesce a imprimere attraverso strumenti apparentemente sobri. La sua pittura, per molti versi, è fatta di “sottovoce”, ma di una sottovoce talmente consapevole da diventare, oggi, una delle più moderne.

Sofonisba utilizzò principalmente tavole lignee nella prima fase della sua produzione (anni ’50), per poi passare gradualmente alla tela, soprattutto nel periodo spagnolo e nei ritratti ufficiali. Le sue prime opere mostrano una tipica preparazione a base di gesso e colla animale, su cui applicava un imprimitura spesso tendente al rossastro o al beige chiaro, utile a dare calore ai toni carnosi e profondità ai fondi scuri.

Nel passaggio alla tela, l’imprimitura diventa più sottile, probabilmente più oleosa, adatta a uno stile di pittura stratificata che richiedeva morbide transizioni tra ombra e luce.

Era consuetudine, tra i pittori lombardi, partire da disegni a matita nera o a gessetto, e Sofonisba non fa eccezione: molte sue composizioni sono precedute da studi dettagliatissimi, soprattutto nelle mani e nei volti, che rivelano la sua profonda attenzione all’espressione e al gesto. Celebre è il foglio conservato all’Albertina di Vienna che ritrae una sorella che ride, disegnato con una libertà e una naturalezza affascinanti, quasi modernissime.

Nei dipinti finiti, però, il disegno non è mai rigidamente visibile: ella sovrappone velature leggere, costruendo i volumi attraverso una modellazione tonale piuttosto che con il contorno netto. Ciò avvicina la sua sensibilità a quella del Leonardo lombardo, ma anche al naturalismo padano.

Le composizioni sono spesso asimmetriche, ma bilanciate con grande maestria, e mostrano una chiara conoscenza della geometria nascosta della forma pittorica: le diagonali degli sguardi, i giochi delle mani, le linee degli abiti, costruiscono un’armonia delicata e quasi musicale.

La tavolozza di Sofonisba Anguissola è sobria, ma profondamente sofisticata. Nei primi lavori, come l’Autoritratto con medaglione (1554), prevalgono i toni ocra, terre verdi, bruni caldi, con carnagioni modellate attraverso velature di biacca, lacca di garanza e ocra rossa, che rendono il volto non idealizzato ma palpitante, umano.

Nei ritratti spagnoli, la tavolozza si arricchisce di blu oltremare, verderame, smalti scuri e neri vellutati, probabilmente ricavati da carbone vegetale mescolato a olii densi. Il nero – colore considerato problematico nella resa pittorica per la sua tendenza a “mangiare” la luce – diventa in Sofonisba un campo espressivo: ella vi costruisce ombre che vibrano, luci che emergono con precisione chirurgica. I colletti bianchi, le sete riflettenti, le perle, brillano su questi fondi scuri come fari sulla notte.

I bianchi sono realizzati con biacca di piombo, usata in sovrapposizione a velature azzurrine per dare effetto tridimensionale. Le labbra, mai sfacciate, sono definite con lacca carminio, sfumata per non creare distonia con l’incarnato.

Sofonisba padroneggia con finezza l’arte della velatura, una tecnica fondamentale nella pittura a olio, che consiste nell’applicare strati trasparenti o semi-trasparenti di colore sopra una base già asciutta. Questo metodo permette di ottenere transizioni sottilissime, profondità atmosferiche e carnagioni che sembrano respirare.

Le sue velature, però, non sono esibite con barocchismo: sono invisibili a un primo sguardo, e proprio per questo riescono a trasmettere un senso di naturalezza. Le luci non sono mai esplosive, ma calibrate: una fronte suda appena, una guancia è sfiorata da un calore silenzioso, un occhio riflette il mondo intorno con un umido tremore. Queste sono conquiste tecniche, ma anche conquiste poetiche.

Negli sfondi, soprattutto in età matura, utilizza impasti più densi, talvolta raschiati o stesi con pennelli duri, per dare corposità ai tessuti, alle cortine, alle armature. Vi è una differenza studiata tra la morbidezza del volto e la durezza dell’elemento materiale che lo circonda.

Sofonisba non adotta mai una luce teatrale alla maniera caravaggesca – Caravaggio nascerà anni dopo – ma una luce silenziosa e diffusa, che proviene da sinistra (come in Leonardo) e accarezza i volti come una presenza affettuosa. La luce non serve a drammatizzare, ma a rivelare: è uno strumento di lettura del carattere.

Nei suoi autoritratti – come quello alla reggia di Vienna o quello agli Uffizi – la luce costruisce non un’apparenza, ma una personalità: Sofonisba appare seria, contenuta, modesta nel vestire ma fiera nello sguardo. La pittura, in questo senso, diventa espressione morale.

Il volto, costruito con un'attenzione estrema alla muscolatura sottocutanea, non è mai idealizzato. Le imperfezioni – una piega sotto gli occhi, un accenno di asimmetria – sono mantenute per ancorare l’immagine a una realtà vissuta. Questo la distingue da molti pittori coevi che, specie nelle corti, tendevano a “abbellire” i volti.

Un capitolo a parte meritano le mani: Sofonisba ne fa un codice espressivo. Nei suoi ritratti (la madre, le sorelle, la regina, gli infanti) le mani non sono mai secondarie. Esse parlano, indicano, si posano con intensità e misura. Lo stesso Michelangelo, nel valutare i suoi disegni, lodò la capacità di restituire “il moto interiore attraverso la posa della mano”.

Anche gli occhi, spesso lievemente allungati e appena umidi, sono strumenti narrativi: osservano il pittore, osservano se stessi, osservano un altrove. In La partita a scacchi, gli sguardi delle sorelle sono orchestrati come un concerto da camera, dove ogni nota esprime una posizione psichica.

La tecnica pittorica di Sofonisba Anguissola è il risultato di un perfetto equilibrio tra rigore accademico, osservazione psicologica, ricerca di verità interiore e adattamento strategico ai vincoli imposti dal suo tempo. Ella fu un'artista consapevole dei limiti, ma ancor più consapevole degli strumenti per superarli: e la sua tecnica ne è la prova concreta, visibile, toccabile.

I suoi quadri non chiedono solo di essere ammirati: chiedono di essere ascoltati. E il linguaggio che parlano è quello dell’intelligenza silenziosa, della presenza viva, dell’anima che si fa carne pittorica attraverso la luce.