Pubblicato nel 1948, Menzogna e sortilegio costituisce l’esordio narrativo di Elsa Morante, figura cardine del panorama letterario italiano del Novecento, la cui poetica si distingue per la tensione costante tra realismo emotivo e visionarietà simbolica. Il romanzo, vasto e stratificato, non solo introduce i nuclei tematici e stilistici che attraverseranno l’intera opera morantiana, ma si configura come un compendio di archetipi narrativi e simbolici che rinviano a una costellazione di testi e modelli letterari, italiani ed europei.
Un romanzo contro il proprio tempo: il rifiuto del neorealismo e il ritorno all’archetipo
Composto nell’immediato dopoguerra, in un’Italia devastata tanto materialmente quanto moralmente, Menzogna e sortilegio si situa in posizione antitetica rispetto alla corrente neorealista che dominava la scena letteraria del tempo. Morante, invece, opera una scelta controcorrente, rivolgendo lo sguardo alla grande tradizione del romanzo ottocentesco europeo. In questa operazione, si avverte con forza l’eco del pensiero e delle forme di Dostoevskij, in particolare per quanto riguarda l’indagine dell’interiorità, il senso del peccato e della colpa, nonché la predilezione per personaggi psicologicamente lacerati. Come in Dostoevskij, anche in Morante il racconto non si sviluppa in senso progressivo e realistico, ma tende a imboccare vie circolari, ossessive, segnate da una reiterazione simbolica che annulla la linearità del tempo.
Accanto a Dostoevskij, si possono riconoscere influenze significative anche di Flaubert e Balzac. Dalla Madame Bovary flaubertiana, ad esempio, Menzogna e sortilegio eredita l’analisi spietata dell’illusione romantica e dell’amore come costruzione immaginaria, nonché il ruolo pervasivo della letteratura e dei suoi modelli nel forgiare una visione distorta della realtà. L’attenzione balzachiana per i destini familiari e per i meccanismi sociali di ascesa e caduta trova invece un’eco nella struttura genealogica del romanzo morantiano, organizzato in cicli familiari che si ripetono e si contaminano. Non si può inoltre trascurare l’influenza dei romanzi gotici e romantici europei, da Ann Radcliffe a Emily Brontë, fino a Shelley e Poe, soprattutto nell’atmosfera visionaria, nell’ossessione per la colpa ereditaria e nella figurazione dell’amore come forza distruttiva e maledetta.
Mitologia personale e mitologia letteraria: intertestualità profonde
Il romanzo è attraversato da una fitta rete di riferimenti intertestuali che operano su più livelli, non come semplici citazioni, ma come veri e propri nuclei di senso che si sedimentano e si intrecciano. La stessa Elisa, narratrice e protagonista, può essere letta come un’Ofelia moderna, una figura femminile malinconica e tragica, immersa nella contemplazione del dolore, votata a un amore senza ritorno. La sua scrittura memoriale si presenta come un atto di catabasi psichica, una discesa negli inferi della memoria che richiama da vicino modelli classici e cristiani: dall’Eneide virgiliana alla Commedia dantesca, la narrazione si configura come un itinerario di conoscenza attraverso il dolore e la rovina.
In questo senso, il romanzo di Morante si rivela anche profondamente intertestuale in senso archetipico: i personaggi si muovono come marionette tragiche all’interno di un ordito mitologico che li precede e li sovrasta. Cesare, Francesco, Edoardo non sono soltanto uomini concreti, ma incarnazioni di figure paterne autoritarie, sfuggenti o irraggiungibili; Anna, Rosaria ed Elisa rappresentano, con intensità crescente, la figura dell’amante abbandonata e della madre ferita, risalente all’immaginario tragico antico e moderno.
Un ulteriore livello intertestuale riguarda la riflessione sulla funzione stessa della letteratura: Elisa scrive, ma la sua scrittura non redime, non chiarifica; piuttosto, moltiplica gli enigmi, deforma la memoria, costruisce un labirinto in cui il lettore si smarrisce. In questo, Morante sembra riflettere implicitamente sulle grandi narrazioni di memoria novecentesche: da Proust a Woolf, passando per Svevo, la scrittura diventa il luogo di una coscienza scissa, un tentativo disperato di dare forma al caos dell’esistenza.
La genealogia della menzogna: letteratura e finzione
Il titolo stesso del romanzo, Menzogna e sortilegio, richiama una coppia concettuale profondamente ambigua: da un lato, la menzogna come costruzione fittizia, come maschera; dall’altro, il sortilegio come destino immodificabile, come maledizione ereditaria. Entrambi i termini rinviano alla dimensione letteraria in senso lato: la menzogna è il fondamento stesso del racconto (la fictio), mentre il sortilegio suggerisce un universo fatalistico in cui l’individuo è prigioniero di forze che non comprende e non controlla.
In questo intreccio tra invenzione e predestinazione, la scrittura diventa un dispositivo magico e ambiguo: crea mondi e al tempo stesso li distrugge. Come accade nei romanzi di Henry James – altro riferimento sotterraneo ma pregnante – la narrazione è sempre filtrata da una coscienza opaca, che media e trasforma i fatti, al punto che la verità sembra sfuggire, dissolversi in una nebbia di interpretazioni contraddittorie.
Una biblioteca nel romanzo
Menzogna e sortilegio si presenta così come un’opera-mondo, stratificata e ricchissima di echi, che si nutre di tutta la tradizione letteraria europea per proporre una visione radicalmente personale dell’esistenza. È un romanzo che contiene altri romanzi, un testo che porta in sé una biblioteca intera: quella della letteratura romantica, del romanzo psicologico, del feuilleton ottocentesco, del mito, della tragedia. In questo senso, l’opera di Elsa Morante non è solo un atto di rottura con il proprio presente letterario, ma anche un esercizio di memoria e di dialogo con il passato, che trova proprio nell’intertestualità una delle sue forme più profonde di verità.
Approfondiamo, uno per volta, il rapporto tra Menzogna e sortilegio e tre autori chiave che si riflettono nel romanzo: Dostoevskij, Flaubert e Henry James. Questo dialogo sotterraneo avviene su piani diversi — stilistici, tematici, psicologici — e contribuisce a fare del romanzo di Elsa Morante un esempio di literary palimpsest, una scrittura che stratifica modelli e ne reinventa il senso.
Dostoevskij: il romanzo dell’abisso interiore
Il debito di Elsa Morante verso Dostoevskij è profondo e riconosciuto. La narratrice di Menzogna e sortilegio, Elisa, condivide con i personaggi dostoevskijani una tendenza alla confessione patologica, alla ricerca di senso nella sofferenza, e una propensione alla visione visionaria e febbrile della realtà.
Come in Memorie dal sottosuolo, dove il protagonista elabora un’autobiografia delirante che è insieme accusa e autoaccusa, anche Elisa compone un memoriale che non ha la funzione di chiarire ma di amplificare il proprio tormento. La scrittura, per entrambi, non è terapeutica ma ossessiva: è una ruminazione senza soluzione, dove ogni nodo interiore si ripropone in forma di enigma.
Il tema della colpa ereditaria e della dannazione familiare richiama I fratelli Karamazov, in cui la figura del padre dissoluto e opaco genera una stirpe destinata alla rovina. Cesare, padre di Anna e nonno di Elisa, possiede l’ambiguità crudele e irresponsabile di Fëdor Pavlovitch, mentre Francesco, figlio e amante, reca in sé l’ombra di Ivan e Dmitrij, divisi tra idealismo autodistruttivo e desiderio incestuoso. Morante, come Dostoevskij, costruisce un universo dove la psicologia non è mai lineare ma perturbata, lacerata, e dove ogni gesto nasconde un doppio fondo, un significato morale o simbolico.
La stessa religiosità distorta, presente in alcuni personaggi di Dostoevskij (la santità pervertita di Sonja in Delitto e castigo, l’innocenza mistica di Alëša nei Karamazov), sembra incarnarsi nel candore rassegnato di Elisa, che finisce col farsi testimone pietosa e inascoltata di una vicenda già scritta, come se tutto fosse il frutto di un destino oscuro, una maledizione simbolica e cosmica.
Flaubert: l’illusione dell’amore romantico e la menzogna del desiderio
Dove Dostoevskij scava nella colpa e nella sofferenza come strumenti di rivelazione, Flaubert si inserisce nel romanzo morantiano come critico spietato della fabula amoris, ovvero dell’amore così come costruito e falsificato dalla letteratura.
Anna, madre di Elisa, è la figura più evidentemente flaubertiana: come Emma Bovary, vive immersa nel mito dell’amore assoluto, quello delle pagine lette in gioventù. L’incontro con Francesco, giovane e bellissimo, viene investito da Anna di un’aura irreale, mitologica: egli diventa per lei l’eroe, il principe azzurro, il salvatore. Ma come per Emma, anche per Anna la realtà dell’amore non coincide con il sogno. Anzi: il sogno lo distrugge. Francesco non è mai veramente l’uomo che lei immagina, e ogni sforzo per trattenerlo alimenta soltanto la spirale della dipendenza, dell’umiliazione e dell’autodistruzione.
Come Flaubert, anche Morante mostra l’effetto devastante che la letteratura può avere su un’immaginazione non preparata a filtrarla criticamente. Non è un caso che nel mondo di Menzogna e sortilegio le donne sognino l’amore ma finiscano sempre nel dolore; l’amore non è mai felicità, ma sortilegio, incantamento illusorio. La Bovary, leggendo i romanzi sentimentali, costruisce un mondo parallelo; Anna fa lo stesso, ma con toni ancor più tragici, perché l’universo in cui è immersa è già segnato da miseria sociale e dissoluzione morale.
Morante, tuttavia, non condivide lo sguardo ironico e talvolta cinico di Flaubert. Se Flaubert giudica Emma dall’esterno, con distanza lucida, Morante guarda Anna con pietà struggente. La menzogna in Morante non è colpa ma disperazione: l’unico modo per sopravvivere in un mondo privo di bellezza.
Henry James: la coscienza narrante e la percezione deformante
Più sottili ma forse ancora più decisivi sono i legami con Henry James, soprattutto per quanto riguarda la tecnica narrativa. Menzogna e sortilegio è tutto filtrato dallo sguardo di Elisa: un io narrante che media ogni fatto, ogni parola, ogni gesto con la propria voce, i propri sentimenti, le proprie ossessioni.
Come in James, l’oggettività del reale è un miraggio. Ogni personaggio è ricostruito nella coscienza della narratrice, che ne amplifica, deforma o riduce i tratti. Francesco non è mai presentato in sé, ma sempre attraverso il desiderio di Anna o il racconto di Elisa: è un’immagine riflessa, una creatura che appartiene più al sogno che alla realtà. Questo ricorda da vicino romanzi jamesiani come The Turn of the Screw, in cui la percezione soggettiva non solo racconta ma trasforma i fatti narrati.
Inoltre, l’ossessione per il non detto, per l’ambiguità, per ciò che non si riesce a comprendere pienamente, è jamesiana. Elisa stessa è una narratrice inaffidabile, perché troppo coinvolta: non sa di sapere, o sa troppo e lo vela. Il risultato è una narrazione densissima, piena di chiaroscuri, in cui il lettore deve leggere tra le righe, sospettare, dubitare.
Anche la riflessione sulla memoria, centrale in James, diventa in Morante un nucleo filosofico: ricordare non significa riportare alla luce ma costruire; la memoria è anch’essa menzogna e sortilegio, è un filtro che deforma il passato alla luce del presente e del dolore.
Provo ora a esplorare i riferimenti intertestuali di Menzogna e sortilegio con alcuni autori italiani fondamentali (Manzoni, Svevo, Gadda) e con alcune fonti archetipiche della cultura occidentale (Eneide, tragedia greca, Bibbia). Si tratta di influenze che agiscono in modi profondi, talvolta evidenti, talvolta sotterranei, ma sempre essenziali alla costruzione della visione tragica e mitopoietica del romanzo.
Alessandro Manzoni: la storia e la colpa
Morante condivide con Manzoni una medesima ossessione per il male originario che si trasmette di generazione in generazione. Come nei Promessi Sposi, anche in Menzogna e sortilegio il mondo familiare è segnato da un peccato primigenio (qui, il disprezzo e l’abbandono del capostipite Cesare) che genera una catena inarrestabile di colpe e punizioni. La famiglia diventa il luogo del destino e dell’espiazione, come nei tracciati genealogici manzoniani, dove i figli pagano le colpe dei padri (pensiamo alla monaca di Monza o a Gertrude e alla sua educazione claustrale imposta).
Tuttavia, in Morante non c’è la provvidenza a riscattare il dolore. Laddove Manzoni introduce Dio come garante dell’ordine morale, Morante lascia la vicenda nel regno del tragico e dell’insensato. La sorta non è ordinata da un principio superiore ma da un caos cieco, da una forza oscura che richiama più l’Ananke greca che la teodicea cristiana. In questo senso, Morante si pone contro-Manzoni: eredita la struttura genealogica e moralmente cupa, ma la svuota di ogni speranza trascendente.
Eppure, proprio come Manzoni, Elsa costruisce interi universi familiari con uno sguardo che è insieme storico, psicologico e morale, e come lui scrive un romanzo-mondo in cui l’intreccio personale diventa figura di una condizione umana universale.
Italo Svevo: l’inettitudine come condizione esistenziale
Elisa, la narratrice di Menzogna e sortilegio, può essere letta come una sorella segreta di Zeno Cosini: entrambi raccontano la propria storia da una posizione marginale, ironica, disillusa, e soprattutto colpevole. La colpa, tuttavia, non è mai chiara né esplicitamente rivolta verso l’esterno: è una colpa dell’essere, una sensazione persistente di inadeguatezza, di fallimento, di distanza incolmabile tra sé e la vita.
Il racconto di Elisa, come quello di Zeno, è un lungo tentativo di autoanalisi fallita: si scrive per capirsi e per giustificarsi, ma ogni pagina genera nuove domande, nuovi abissi. Svevo porta l’inettitudine sul piano borghese e freudiano; Morante la trasfigura in epica della miseria interiore, facendone la materia stessa del romanzo. Entrambi, però, usano la scrittura come simulazione terapeutica.
Inoltre, come Svevo, Morante introduce nella narrazione una forte ambivalenza: i personaggi sono sempre in bilico tra lucidità e delirio, coscienza e menzogna, passato e presente, verità e allucinazione. Anche Elisa, come Zeno, non è mai del tutto affidabile; ma mentre Zeno è ironico, Elisa è tragica. Il ridicolo di Svevo diventa in Morante pathos.
Carlo Emilio Gadda: il groviglio familiare come metafisica del disastro
L’universo di Menzogna e sortilegio presenta una fitta somiglianza con quello di Gadda, in particolare con La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. La casa della nonna Rosaria, labirinto di oggetti e memorie, richiama la villa di don Gonzalo in Lucignano; le relazioni tra i personaggi sono vischiose, incestuose, segnate da una nevrosi ereditaria.
Come in Gadda, il romanzo di Morante è costruito come un groviglio psichico e narrativo: ogni personaggio è nodo di una rete fatta di omissioni, traumi, vendette e menzogne. Il linguaggio, seppur meno barocco che in Gadda, partecipa di questa tensione: abbonda in ellissi, amplificazioni, ripetizioni, iperboli che rispecchiano la deformazione della realtà interna.
C’è inoltre un’identica tendenza a leggere il privato come sintomo del pubblico: se in Gadda la famiglia è una metafora dell’Italia malata e corrotta, in Morante la famiglia di Elisa è una miniatura della società patriarcale, ingiusta, sadica. Entrambi scrivono romanzi impossibili da risolvere: il senso sfugge, la verità è sempre multipla, deformata, molteplice.
Eneide: l’esilio, la perdita, la fondazione mancata
Il romanzo di Morante può essere letto come una contro-Eneide, in cui non si assiste alla fondazione di una nuova patria, ma al perpetuarsi dell’esilio. Elisa è un’orfana in cerca di senso, una Enea che però non ha né destino né missione. Anzi, il suo viaggio nella memoria non porta alla rinascita, ma alla paralisi.
Come Enea racconta a Didone la distruzione di Troia, così Elisa rievoca le rovine della sua famiglia: ma laddove Enea costruisce una nuova città, Elisa scrive per trattenere il lutto, per abitare le macerie. Francesco, in questo schema, è il “pietas” tradito: non eroe fondatore ma seduttore effimero, privo di destino e di fedeltà.
Eppure, la voce epica attraversa le pagine di Morante come controcanto nostalgico: Menzogna e sortilegio è un’epica del fallimento, una Eneide al femminile in cui il viaggio non ha approdo.
Tragedia greca: il destino, la colpa, l’incesto
Il mondo di Menzogna e sortilegio è permeato da un senso tragico che richiama direttamente Sofocle ed Euripide. Il rapporto tra Francesco e Anna rievoca quello tra Edipo e Giocasta, ma traslato nel registro del desiderio non consumato e del rimorso. L’intera famiglia è colpita da una maledizione ereditaria, come la stirpe dei Labdacidi: il male si trasmette, l’amore si confonde con la colpa, la conoscenza con la rovina.
Elisa, come una nuova Antigone, è colei che si prende cura dei morti, che rievoca il passato con pietà, che si pone al margine di una società corrotta e crudele. Ma il suo gesto, come quello di Antigone, non salva: è un gesto tragico, non redentivo. La sua parola è lamento, non profezia.
La struttura ciclica del romanzo — la sua incapacità di chiudere, di liberarsi dalla ripetizione — è pienamente tragica: non c’è catarsi, non c’è soluzione. Ogni gesto si ripete come in un destino prestabilito, dove la volontà è irrilevante.
Bibbia: genealogia, sacrificio, rovina
La Bibbia attraversa Menzogna e sortilegio non per via di una religiosità esplicita, ma per il suo immaginario archetipico: la genealogia maledetta, il sacrificio dell’innocente, l’idolatria amorosa, la punizione dei padri sui figli. L’ombra dell’Antico Testamento grava sul romanzo: Anna come Eva, sedotta e condannata; Francesco come un Isaac mai sacrificato; Elisa come un Giobbe silenzioso, che non maledice ma scrive.
La lingua di Morante assume, a tratti, un tono profetico, solenne, biblico: il dolore è raccontato con parole che echeggiano la caduta, il peccato, l’alleanza spezzata. Ma, di nuovo, senza redenzione: se nella Bibbia c’è una promessa, in Morante resta solo un vuoto sacro. Il divino è assente, e la parola resta l’unico strumento possibile per non perdersi completamente.
Collego ora in forma comparativa le influenze letterarie e archetipiche finora analizzate a una lettura profonda della struttura narrativa e dell’ideologia di Menzogna e sortilegio, mostrando come ogni dialogo intertestuale agisca come chiave ermeneutica per decifrare il progetto morantiano. Ogni riferimento — da Manzoni a Gadda, da Euripide alla Bibbia — non è mai semplice eco culturale, ma è assorbito e riplasmato in funzione di una narrazione anti-redentiva, che scardina le aspettative del romanzo tradizionale e denuncia il fallimento delle grandi narrazioni identitarie.
Struttura narrativa come riscrittura critica del romanzo ottocentesco
Morante costruisce Menzogna e sortilegio come una genealogia fallita: un romanzo-fiume, popolato da ritratti familiari, lettere, racconti di racconti, sogni e memorie. Questa struttura richiama il modello ottocentesco (Manzoni, Flaubert, anche George Eliot) ma lo svuota dall’interno: non c’è Bildung, non c’è crescita morale, non c’è verità finale. Al contrario: l’io narrante si rivela, pagina dopo pagina, sempre più inattendibile, frammentato, spettrale.
Nel confronto con Manzoni, si vede come Morante assorba la centralità della storia di famiglia e dell’eredità morale, ma ne ribalti la logica: non c’è una Provvidenza ordinatrice, né uno scioglimento positivo. Il tempo non è lineare, ma ciclico, ipnotico, quasi ossessivo. L’infanzia non viene superata, ma riattivata all’infinito: Elisa è una narratrice ferma nel tempo, che scrive non per capire, ma per non dimenticare.
In ciò, la Morante si avvicina a Gadda, il cui labirinto narrativo riflette l’impossibilità di risalire all’origine del male. Come in Gadda, ogni tentativo di spiegare finisce per moltiplicare l’enigma. La struttura digressiva, accumulativa, è espressione di una teoria del caos morale in cui la colpa non ha né inizio né fine. Il romanzo non evolve: si avvolge su sé stesso.
La voce narrante come spazio del disincanto e della dissociazione
Il confronto con Svevo e Henry James illumina la costruzione del punto di vista: Elisa è una narratrice febbrile, simile a Zeno per la sua ironia colpevole, e ai personaggi di James per la sua coscienza centrifuga, sempre tesa tra interpretazione e allucinazione. Come Zeno, Elisa scrive per guarire; come la Marchesa di The Turn of the Screw, parla in un’atmosfera ambigua, in bilico tra realtà e incubo.
Ma il disincanto sveviano, che sfocia nell’accettazione borghese, in Morante si tramuta in mistica dell’abbandono: Elisa non si integra mai, non trova mai una lingua adulta, resta dentro un romanzo dell’infanzia scritto in uno stile ipnotico, solenne, mitizzante. È un realismo onirico, che rilegge i modelli psicologici per costruire un universo dove i confini tra verità e sortilegio sono aboliti.
Ideologia del romanzo: contro il patriarcato e contro la storia
Sul piano ideologico, Menzogna e sortilegio si oppone radicalmente a ogni narrazione patriarcale. La genealogia maschile (Cesare, Francesco, Edoardo) è vista come fonte di distruzione, idolatria e fallimento. Nessuno di questi uomini costruisce, protegge o ama: sono idoli decaduti, affascinanti e irresponsabili. Il racconto si rivolge così al modello biblico (Adamo, Abramo, Davide) per rovesciarlo: la paternità non salva, ma condanna.
Nel confronto con la Bibbia, il romanzo mette in scena una genealogia al negativo: ogni padre è assente, crudele, idolatrato senza motivo. Anna non è Sara ma una Giocasta senza Edipo: la sua maternità è incompiuta, la sua follia è una risposta alla menzogna del maschio. In questo senso, il titolo del romanzo è programmatico: la menzogna è il discorso del potere, il sortilegio è la reazione della vittima.
L’ideologia di Morante si pone così accanto a quella di autori come Flaubert, che in Madame Bovary denuncia l’impostura dei sogni romantici: ma se Flaubert osserva con gelo, Morante partecipa con pietas. Come Emma, anche Elisa e Anna credono a una religione dell’amore, ma vengono punite dalla realtà. Tuttavia, Morante non condanna il desiderio, lo onora come unica forma di resistenza.
Il tragico come destino e come struttura
Le fonti tragiche (Euripide, Sofocle) non sono solo evocazioni tematiche (incesto, follia, oracoli), ma modelli strutturali: la famiglia morantiana è una casa colpita dal Fato, dove ogni tentativo di ribellione fallisce. Come in Edipo, il sapere coincide con la rovina. L’atto narrativo di Elisa è un atto teatrale, destinato a far rivivere la colpa, non a guarirla.
La tragedia greca offre a Morante la grammatica dell’irrazionale ereditario: le relazioni familiari sono governate da forze che i personaggi non controllano. L’inconscio freudiano diventa così una forma moderna del destino greco. In ciò, Morante si pone accanto a Freud come a Eschilo: la famiglia è la scena primaria, l’inizio di ogni dannazione.
Il romanzo come necrologio del romanzo borghese
Menzogna e sortilegio è, in definitiva, un romanzo che assorbe la tradizione narrativa europea — da Manzoni a James, da Flaubert a Gadda — per imploderla. È un’opera che prende sul serio la genealogia, la psicologia, l’epica, ma ne mostra la crisi irrimediabile. Non si può più raccontare la storia della crescita, né della salvezza, né della redenzione.
In questo senso, Morante offre una messa in scena del lutto per il romanzo stesso. L’unica voce rimasta è quella di Elisa: un fantasma che scrive tra le rovine, l’ultimo testimone di una stirpe immaginaria eppure universale, che porta impresso il marchio della colpa e dell’amore assoluto, cioè impossibile.
Ecco adesso un’integrazione che confronta Menzogna e sortilegio con l’opera di Virginia Woolf e Marguerite Duras, e amplia l’analisi ideologica del romanzo da una prospettiva femminista, politica e psicoanalitica. L’intento è quello di leggere Morante non solo nel contesto della letteratura italiana o del romanzo borghese, ma come voce anticipatrice di una coscienza che mette in crisi i presupposti stessi della narrazione patriarcale, dell’identità stabile, del tempo lineare, e dell’amore come redenzione.
Virginia Woolf: la coscienza liquida e il romanzo come flusso della soggettività
Come Woolf, Morante rifiuta le strutture narrative maschili della conquista, della risoluzione e dell’oggettività. In To the Lighthouse o Mrs Dalloway, Woolf costruisce un universo in cui il tempo non è cronologico, ma psichico, dove la memoria, la percezione e il linguaggio formano un continuum che sovverte la logica dell’azione. Allo stesso modo, Menzogna e sortilegio è un romanzo-fiume della mente, dove la narrazione scorre secondo le necessità del ricordo, della compulsione affettiva, del desiderio di permanenza più che di verità.
Il personaggio di Elisa è affine a Woolf nella sua coscienza scissa e sognante: vive in uno spazio interiore dove i confini tra realtà e immaginazione sono porosi, e dove la parola cerca non la chiarezza ma l’evocazione, la suggestione. Come Clarissa Dalloway, anche Elisa vive una giornata intera nella mente, un’intera stirpe tra le pagine. Ma mentre Clarissa riesce a costruire una forma di equilibrio sociale (anche ambiguo), Elisa resta prigioniera di una lingua del trauma, incapace di integrarsi.
Marguerite Duras: erotismo dell’assenza e desiderio impossibile
Con Marguerite Duras, il confronto diventa ancora più radicale. In opere come L’amante o Il dolore, Duras esplora una forma di scrittura desiderante che mette in scena la frattura tra io e altro, tra corpo e parola, tra amore e perdita. La scrittura durassiana è frammentaria, ossessiva, spoglia: come in Morante, il soggetto si rivolge al passato non per comprenderlo, ma per abitarlo come un’ossessione.
Le figure maschili di Menzogna e sortilegio — Francesco, Edoardo, Cesare — sono come quelle di Duras: simulacri erotici, oggetti d’amore lontani, spesso crudeli, sempre inaccessibili. Anna e Elisa amano come le donne di Duras: al di là della ragione, nella piena accettazione dell’umiliazione e del sacrificio. Ma, come in Duras, Morante non condanna questo amore; al contrario, lo assume come unica possibilità metafisica in un mondo in rovina. È una mistica profana che sovverte la morale borghese.
Prospettiva femminista: genealogie al femminile e linguaggio della ferita
La genealogia femminile di Menzogna e sortilegio (Anna, Elisa, Rosaria) si oppone a quella patriarcale, rivelandone l’inconsistenza. Le donne del romanzo sono vittime del desiderio maschile, ma anche portatrici di un sapere oscuro, fatto di superstizione, affetto, narrazione. Morante anticipa in questo una riflessione femminista che sarà centrale in autrici come Luce Irigaray o Hélène Cixous: la donna come corpo parlante, luogo del non detto, spazio del rimosso.
Anna è figura della madre tragica, che non può trasmettere né salvezza né protezione, ma solo l’eco del desiderio. Elisa è la figlia narrante, che raccoglie le parole della madre e le trasforma in libro — un atto che è insieme vendetta e atto d’amore. In questo senso, Menzogna e sortilegio è un romanzo della lingua materna, anche se malata, contaminata, ambigua.
La narrazione diventa dunque un atto politico: scrivere da donna, e da figlia, è scrivere contro la menzogna del patriarcato, contro le sue false promesse d’amore, di successo, di salvezza. Ma è anche un atto liminale, dove la parola non guarisce, ma lascia passare la voce del trauma.
Prospettiva politica: la crisi dell’autorità e il romanzo come contro-memoria
Sul piano politico, Menzogna e sortilegio è una lucida allegoria della crisi dell’autorità. Ogni figura patriarcale è impotente, corrotta, o fuggitiva. Lo Stato, la Chiesa, la scuola, la famiglia — tutti gli apparati dell’ordine sono presenti nel romanzo sotto forma di cadaveri simbolici, icone svuotate. Morante scrive dopo il fascismo, e il romanzo sembra una lunga liturgia dell’agonia di una classe sociale: la borghesia decadente, provinciale, oppressa dai suoi stessi miti.
Il romanzo è dunque una forma di contro-memoria: mentre l’Italia del dopoguerra si affida a nuove narrazioni redentive (democrazia, progresso, sviluppo), Morante propone un racconto cupo, impietoso, visionario. Non ci sono ideali che sopravvivano; l’unico gesto rivoluzionario è il rifiuto di dimenticare, il racconto infinito del dolore. Elisa è una Cassandra che nessuno ascolta, ma che scrive lo stesso.
Prospettiva psicoanalitica: l’inconscio come struttura del romanzo
La scrittura di Morante è profondamente segnata dal pensiero psicoanalitico, che ella assorbe e rielabora come linguaggio della ripetizione, del transfert, della rimozione. Il romanzo è costruito come un grande atto analitico non riuscito: Elisa scrive per guarire, ma non si libera mai. Ogni personaggio è un sintomo incarnato: Anna è l’isterica, Francesco il narcisista, Rosaria la madre simbiotica. Ma non c’è cura.
La struttura stessa del romanzo — digressiva, ricorsiva, ipnotica — è quella dell’inconscio: il passato non è dietro, ma sempre presente, attivo, incandescente. Elisa, narrando, non rielabora, ma rivive: il suo è un transfert narrativo, un sogno diurno estenuato. In questo senso, il romanzo è anche un fallimento dell’analisi, o meglio: la dimostrazione che l’analisi, per certe ferite, può solo prolungare la coscienza della perdita.
Un’opera fondatrice, inclassificabile, necessaria
Menzogna e sortilegio, letto attraverso queste lenti comparate, si rivela un romanzo-soglia, al crocevia tra modernismo europeo, psicoanalisi, tragico greco e contro-narrazione femminista. È un’opera che anticipa discorsi ancora in corso, e che continua a interrogare il nostro modo di pensare la famiglia, il genere, la narrazione, la memoria, il desiderio.
Morante, come Woolf e Duras, scrive contro la Storia, contro la Legge, contro la Verità. Ma lo fa con una lingua solenne, ossessiva, lirica, capace di restituire al dolore una forma di canto. Il romanzo, pur nella sua cupezza, è un inno alla sopravvivenza del desiderio — alla sua assoluta, insensata, tragica necessità.
Proseguendo il percorso intertestuale e ideologico, ora allargherò il confronto ad alcune autrici italiane contemporanee — Anna Maria Ortese, Fabrizia Ramondino, Margaret Mazzantini — che, ciascuna con tratti distintivi, si sono misurate con la narrazione del dolore, della marginalità e della memoria, mostrando in modi diversi l’eredità di Elsa Morante. A seguire, analizzeremo la ricezione critica e l’impatto europeo di Menzogna e sortilegio, riconoscendo il suo ruolo pionieristico nel rinnovamento del romanzo novecentesco e nella costruzione di una voce femminile autonoma e resistente.
Anna Maria Ortese: la visione e l’apocalisse dell’infanzia
Con Anna Maria Ortese, Morante condivide la tensione verso un realismo visionario, una scrittura capace di farsi incantamento linguistico pur parlando del dolore, della povertà, della solitudine. Il mare non bagna Napoli (1953) è, come Menzogna e sortilegio, un’opera che trasfigura la realtà attraverso una voce femminile ferita e incantata. La città, nel racconto ortesiano, non è sfondo ma creatura vivente, mostruosa e sublime — esattamente come l’Italia morantiana, attraversata da lutti, patriarcati e fantasmi.
Entrambe le autrici partono da una infanzia decomposta per costruire un universo narrativo fatto di allucinazioni morali: l’io narrante è sempre, in qualche modo, una bambina che ha visto troppo. Ma Ortese è più crudele: mentre Morante mantiene un respiro epico e affettivo, Ortese incide la realtà con un bisturi freddo, tragico, che si avvicina al perturbante.
Fabrizia Ramondino: la soggettività dispersa e il Sud come ferita
Ramondino, con testi come Althénopis (1981) o L’isola riflessa, riprende dalla Morante l’ossessione per la memoria familiare e la genealogia femminile, ma la inscrive in una scrittura più rarefatta e sociologicamente disincantata. Anche lei scrive un romanzo dell’infanzia e della perdita, ma attraverso una lingua de-soggettivata, quasi documentaria, dove il lirismo morantiano cede il passo a un’autoanalisi che si interroga sulle strutture stesse del raccontare.
Il Sud, nei suoi testi, è come quello morantiano: spazio dell’esilio, della regressione, della bellezza irredenta. Ma mentre Morante lo trasfigura nella fiaba, Ramondino lo analizza come una categoria politica e psichica, esplorando il rapporto tra centro e periferia, élite e marginalità, individuo e collettività. La madre, in Ramondino come in Morante, è un enigma narrativo: figura opaca, distante, che genera storie ma non le risolve mai.
Margaret Mazzantini: l’eredità melodrammatica e la ricerca della redenzione
Con Margaret Mazzantini ci troviamo su un versante più popolare e contemporaneo, ma nondimeno legato a Menzogna e sortilegio per il gusto del dramma sentimentale radicale. In romanzi come Non ti muovere o Venuto al mondo, ritroviamo la stessa centralità del corpo femminile ferito, della madre sacrificata, dell’amore impossibile come destino tragico.
Mazzantini eredita da Morante l’uso intensivo dell’emozione, della memoria, della narrazione epica del privato, ma lo declina in una forma ibrida tra letteratura e sceneggiatura cinematografica, molto più accessibile, e perciò meno perturbante. Tuttavia, i suoi personaggi parlano ancora da quel luogo liminale di cui Morante ha aperto la via: tra eros e tanatos, tra ferita e salvezza, tra identità e annientamento.
Ricezione critica: fra reverenza, marginalità e riscoperta
Alla sua uscita nel 1948, Menzogna e sortilegio fu accolto con un misto di ammirazione e perplessità. Vinse il Premio Viareggio, ma fu letto da molti come un’opera anacronistica, troppo barocca, troppo “femminile”. In un’epoca in cui il neorealismo e il romanzo politico dominavano la scena, la prosa fluviale e l’universo psicologico di Morante apparivano inattuali, quasi "fuori misura".
Solo negli anni ’70, anche grazie all’affermarsi delle istanze femministe, la critica iniziò a riconoscere il carattere pionieristico del romanzo. In particolare, Cesare Garboli, Natalia Ginzburg, Renato Barilli e Angelo Guglielmi sottolinearono il valore della sua forma “anticanonica”, la sua potenza linguistica, la radicalità della sua visione. Con la riscoperta della Morante da parte di critiche femministe come Sandra Gilbert e Susan Gubar, si iniziò a parlare di Menzogna e sortilegio come proto-romanzo femminista, anche se Morante rifiutava esplicitamente ogni etichetta ideologica.
Impatto europeo: tra romanzo-mondo e tradizione marginale
Nel contesto europeo, Menzogna e sortilegio non ha goduto della stessa diffusione di La storia, ma ha influenzato profondamente il modo di concepire il romanzo come forma del trauma, come spazio per la ricostruzione di genealogie femminili. La sua struttura grandiosa, la scrittura al contempo classica e incendiaria, lo collocano accanto ai grandi romanzi di formazione femminili del Novecento, come Les années di Annie Ernaux o The Golden Notebook di Doris Lessing.
In Germania, è stato letto in parallelo a Christa Wolf; in Francia, a Nathalie Sarraute e a Duras; in Inghilterra, a Angela Carter e Jeanette Winterson. In questi confronti emerge con forza la modernità dell’ossessione morantiana per la memoria soggettiva come forma politica: Menzogna e sortilegio è romanzo dell’anima, certo, ma anche del potere e delle sue menzogne, della famiglia come gabbia, della Storia come sortilegio da decifrare.
Oggi, è considerato un testo fondativo della letteratura europea postbellica, una delle rare opere italiane a coniugare ambizione stilistica, radicalismo psicologico e complessità affettiva senza compromessi. Non è solo il romanzo di Elsa Morante: è il romanzo di una possibilità altra della letteratura, fuori dalle forme, fuori dal tempo.
Concludere un’analisi su Menzogna e sortilegio significa riconoscere non solo il suo statuto di romanzo-mondo, ma anche la sua funzione fondativa nella genealogia della letteratura femminile italiana: un testo-chiave, irriducibile, che ha segnato una soglia. Prima di Morante, pochi romanzi italiani scritti da donne avevano osato tanto: in estensione, in profondità psichica, in ambizione linguistica e in forza tragica. Dopo Morante, scrivere da una soggettività femminile in frantumi, ossessiva, incantata e lucida insieme, non sarà più un atto marginale, ma una possibilità centrale del romanzo.
Ferrante: la genealogia, la sparizione, il desiderio di sapere
In Elena Ferrante, e soprattutto nella tetralogia dell’Amica geniale, l’eredità di Menzogna e sortilegio è dichiarata e profondissima. Anche qui la narrazione è un lungo atto di ricostruzione memoriale, spinta da un desiderio epistemico che ha tratti ossessivi. Anche qui il perno è una genealogia femminile: madri oscure, figlie che indagano, amiche che si specchiano e si respingono. Ma Ferrante porta avanti un’operazione quasi speculare: se Morante affonda nella retorica della perdita, nel melodramma lirico, Ferrante smonta, asciuga, raffredda. Scrive da un’identità che si autodissolve: la scrittura è un tentativo di salvarsi dalla sparizione. In questo senso, Menzogna e sortilegio è per Ferrante il mito originario da cui emanciparsi: ingombrante e necessario.
Cavalli: l’io lirico come corpo plurale
Patrizia Cavalli, con la sua poesia, lavora in tutt’altra direzione formale, ma condivide con Morante una visione del linguaggio come corpo emotivo, sensuale, permeabile all’eros e alla perdita. Dove Morante costruisce una cattedrale, Cavalli offre stanze mobili, intime, ironiche: eppure in entrambe si trova una resistenza alla norma del dire, un bisogno di possedere la lingua per raccontare una realtà altra, indecidibile. Le figure femminili cavalliane — ironiche, vulnerabili, sfrontate — sono sorelle lontane di Elisa: smarrite, ma mai passive, sempre desideranti. In fondo, Morante e Cavalli scrivono contro l’anestesia, contro ogni silenziamento. E non è un caso che entrambe, in modi opposti, abbiano dovuto difendere la propria stranezza dentro il canone.
Caponegro: la forma barocca e la madre mitica
Mary Caponegro, scrittrice italoamericana dalla prosa iperletteraria e visionaria, è forse una delle eredi più dirette della sontuosità morantiana, della sua costruzione di romanzo come tessitura mitologica. In opere come The Star Café o The Complexities of Intimacy, la lingua è barocca, stratificata, febbrile — come quella di Morante — e le figure femminili sono archetipiche, madri grottesche o figlie metafisiche, disarticolate ma potenti. Caponegro ha riconosciuto esplicitamente in Morante una fonte originaria: Menzogna e sortilegio è per lei un “campo magico di narrazione totale”, un luogo in cui il romanzo può tornare a essere rito, travestimento, incarnazione. Anche per Caponegro, il femminile è una forma linguistica più che un’identità stabile: un modo per decostruire le narrazioni lineari della cultura patriarcale.
Un’arca primigenia per la scrittura delle donne
In questa linea — Ferrante, Cavalli, Caponegro, ma anche Ortese, Ramondino, Ginzburg — Menzogna e sortilegio funziona come un’arca primigenia: un libro-matrice, in cui molte scrittrici hanno trovato non tanto un modello da imitare, quanto una ferita aperta da cui partire, un’ossessione da ereditare o contestare. Non è un caso che sia un romanzo che narra la storia di una figlia che vuole capire la madre e che, per farlo, attraversa tutte le forme della menzogna e tutti i linguaggi del sortilegio. La verità, nel mondo morantiano, non esiste se non come atto di narrazione amorosa, come tentativo fallito ma ostinato di dare forma al caos.
Oggi, Menzogna e sortilegio è forse più attuale che mai: perché non offre consolazioni, ma ci chiede di affrontare il trauma originario della nascita, della parola, della memoria. E di farlo con una lingua che non cerca di piacere, ma di esistere — nella sua furia, nel suo incanto, nella sua inesausta fame di senso. Una fame profondamente, radicalmente femminile.