domenica 18 maggio 2025

Il romanzo come porcilaia mistica. Gadda e l’eredità dell’irragione



L’estetica gaddiana: un’epopea del difetto, dell’oscuro, del sovrappiù 

Oh, lettore impavido e paziente, siediti dunque e preparati a immergerti nel vortice di parole, contraddizioni, lampi di ironia, allusioni erudite e balbettii esistenziali che compongono la materia vivente dell’estetica gaddiana. Non cercare qui ordine convenzionale, né bellezza platonica, ché questa bellezza, oh no, è affare da botteghe ornamentali e taverne di viltà consolatoria. Gadda, il maestro dell’“atomo opaco” e della “lingua dell’uso” rispedita al mittente, ti porge un manifesto estetico fatto di macerie, di difetti, di frammenti e lacerti che s’incastrano e disincastrano senza posa, come le pietre di un tempio antico di cui non si riesce più a leggere il senso, ma che continua a stupire nella sua disarmonia.

1. La bellezza del difetto: la scrittura come organismo malato

In qualunque manuale scolastico, la “bellezza” è sovente associata a concetti come armonia, simmetria, proporzione, equilibrio. Tutti concetti squisitamente quantitativi, quasi matematici. Gadda invece ci restituisce un’estetica qualitativa, tesa più a far vibrare il senso della disarmonia e dell’imperfezione che non a rassicurarci con la simmetria. Egli rivela l’imperfezione come la vera sostanza della realtà, e perciò come la sostanza stessa della scrittura.

Questa scrittura non è un “oggetto” statico e definito, bensì un organismo vivo, pulsante, sbilenco, più simile a un corpo umano sofferente che a una statua di marmo. Come un corpo attraversato da nervi scoperti, da cicatrici, da ferite aperte, così è il testo gaddiano: attraversato da tensioni, irruzioni, scatti e contrazioni, capace di un respiro irregolare, di un battito che accelera e rallenta senza preavviso.

Non è dunque un caso che Gadda parli del “difetto” come di un valore, quasi un tesoro. Il difetto, il disallineamento, l’imperfetto sono il terreno fertile su cui germoglia la potenza espressiva e filosofica della sua opera. Il difetto non è un incidente di percorso, ma la materia stessa del linguaggio e della realtà, quel che sfugge a ogni tentativo di definizione e classificazione, quel che rende tutto “vero” e vivido.

2. L’estetica dell’“atomo opaco”: il mistero dietro il fatto

Nell’estetica gaddiana c'è un concetto che vale la pena ripetere fino allo sfinimento: l’“atomo opaco”. Cos’è mai questo atomo, se non il nucleo oscuro e indecifrabile che si nasconde dietro ogni fatto, dietro ogni evento, dietro ogni parola? L’“atomo opaco” è il vero mistero della realtà, quell’elemento che resiste a ogni tentativo di trasparenza, di spiegazione, di illuminazione.

Ecco allora che il fatto, la notizia, la cronaca, la “scarica di mitra” diventano il “morto corpo della realtà”, il suo “residuo fecale”, come scrive Gadda con la sua crudele ma necessaria ironia. È quello che si vede in superficie, ma non è ciò che conta. La realtà, la “verità”, si nasconde sotto questo strato, nel mistero, nell’irragionevole, nell’oscuro.

Il romanzo, la narrazione, la scrittura hanno dunque il compito di scavare sotto la superficie, di penetrare in quell’“atomo opaco”, di mettere in luce la “tensione tragica” che dà senso al fatto. Senza questa tensione, la narrazione si riduce a una semplice cronaca, a un elenco di dati, e perde ogni potenza. È qui che l’estetica gaddiana si fa filosofia della forma: la forma non è un involucro, ma il luogo dove si gioca la battaglia tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e il non detto, tra la vita e la sua ombra.

3. La lingua come campo di battaglia: l’uso-Cesira e la ribellione della penna

Il celebre attacco di Gadda alla “lingua dell’uso”, quella che chiama l’“uso-Cesira”, è un manifesto estetico-politico di enorme rilievo. La lingua standardizzata, la lingua semplice, “fraterna”, quella “che parla come mangia”, diventa una gabbia, una prigione per la scrittura, un meccanismo di livellamento che annulla la ricchezza, la complessità, l’ironia.

La penna di Gadda si rifiuta di essere un mero “fante” o “domestica” di questo regime linguistico e si fa strumento di ribellione, di esplorazione, di scavo. Essa si carica di energia vitale e si lancia in voli tortuosi, digressioni, invenzioni lessicali, ripetizioni ossessive, paradossi, giochi di parole e ironie.

Questo non è un vezzo stilistico, ma un’esigenza estetica e filosofica: solo una lingua viva, aperta, traboccante, può rendere giustizia all’“atomo opaco” e alla realtà. La lingua dell’uso è invece, secondo Gadda, il tentativo frustrato di ridurre la realtà a una “buona causa”, a una “virtù pura”, a una “narrazione semplice” e rassicurante, e perciò è nemica della scrittura vera.

4. La narrazione come gesto tragico: il riscatto e la vendetta del narrare

La narrazione non è un esercizio neutro o frivolo, ma un atto di rivendicazione esistenziale, un gesto tragico di riscatto e vendetta contro gli “oltraggi del destino”. La scrittura diventa così la “mia verità”, il “mio modo di vedere”, la forma di resistenza e di ribellione di fronte al dolore, all’umiliazione, alla crudeltà del mondo.

Gadda si pone allora come un “umiliato e offeso”, che trova nella scrittura uno strumento di sopravvivenza e redenzione. Il giorno della morte, scrive, siamo tutti giudiziosi, siamo tutti angeli, perché abbiamo finalmente raggiunto quella serenità e obiettività che nella vita sono impossibili. Eppure la scrittura tenta di avvicinarsi a questa serenità, di raccontare senza illusioni, senza consolazioni, senza falsi moralismi.

La narrazione si fa così campo di battaglia, luogo di conflitto, teatro di un dramma che è insieme personale e universale. Il narratore è al contempo vittima e carnefice, testimone e protagonista, giudice e imputato. Non c’è spazio per la neutralità o per la retorica delle “buone cause”: solo il riconoscimento della complessità, della contraddizione, dell’“atomo opaco” può rendere la narrazione autentica.

5. L’estetica del non finito e del frammento: la scrittura come corpo vivo e mutevole

Un’altra cifra distintiva dell’estetica gaddiana è la predilezione per il non finito, per il frammento, per la digressione. La scrittura non si chiude mai in un cerchio perfetto, ma resta aperta, incompiuta, traballante. Le frasi si interrompono, le parentesi si aprono senza chiudersi, le idee si moltiplicano e si contraddicono senza risolversi.

Questo modo di procedere è espressione di un’idea della realtà come qualcosa di aperto e instabile, di un organismo vivente che si deforma e si modifica continuamente. L’estetica gaddiana è dunque anche una estetica del movimento e della trasformazione, che rifiuta la staticità e la chiusura.

Il lettore si trova così immerso in un flusso di coscienza che lo travolge, che lo costringe a rimanere vigile, a non dare nulla per scontato, a farsi parte attiva nella costruzione del senso. La scrittura diventa così un’esperienza, un viaggio, un atto di scoperta che non si esaurisce mai.

6. L’ideologia di posizione e la follia narcisisitica: l’estetica come critica della soggettività

Infine, non si può comprendere l’estetica gaddiana senza considerare la sua profonda riflessione sulla soggettività e sull’ideologia di posizione. Gadda riprende il concetto di Karl Mannheim dell’“Ideologia di posizione”, quella inclinazione degli individui a pensare secondo la loro collocazione sociale e biografica, che spesso finisce per diventare una prigione mentale.

Gadda ironizza amaramente su questa tendenza, denunciandone la “bischeraggine indecifrabile” che nasce dall’incontro fra “follia narcisistica” e “sindrome dissociativa”. È una critica feroce, ma anche tragicomica, di come gli individui tendano a identificarsi con categorie sociali, etniche, professionali, fino a perdere di vista la complessità della realtà.

Questa critica si traduce in un’estetica della soggettività che è insieme consapevole e critica, ironica e drammatica. La scrittura diventa allora uno strumento per rompere queste catene, per far esplodere la visione unidimensionale e per aprire spazi di pluralità e di contraddizione.

7. L’estetica gaddiana come antidoto all’ipocrisia della chiarezza: la verità come residuo ostinato

Nel nostro tempo, preso dall’ossessione della trasparenza e della chiarezza, la scrittura – e con essa l’estetica – rischia di scivolare nel facile abisso della banalità. Le parole si consumano nel tentativo sterile di “dire tutto”, di “essere comprensibili a tutti”, e così si spengono, come luci di un teatro che non vuole più emozionare, ma solo rassicurare.

Gadda, con il suo linguaggio intricato e tortuoso, con le sue frasi “grottesche”, con i suoi “balzi pindarici”, si pone come un vero e proprio antidoto a questa ipocrisia della chiarezza. La sua scrittura ci dice che la verità non si dà in una veste pulita, lucida e accessibile, ma è un “residuo ostinato”, una traccia impenetrabile, una “macchia indelebile” nel tessuto del discorso.

La verità, secondo Gadda, si nasconde nelle pieghe, nei vuoti, nelle ellissi, nei “non detti” e negli “incomprensibili”. Essa si manifesta nel tremolio di una frase, nella discordanza tra un sostantivo e un aggettivo, nella dissonanza tra la sintassi e il significato. Solo imparando a leggere questi segnali possiamo avvicinarci a quella “realtà” che è sempre più complessa e sfuggente.

8. Il dettaglio estremo come cifra estetica e epistemologica

Se vi è un elemento che caratterizza con assoluta evidenza l’estetica gaddiana, è la sua ossessione per il dettaglio. Ma non il dettaglio qualunque, non la semplice descrizione pittoresca o naturalistica, bensì un dettaglio “estremo”, quasi ossessivo, che si fa simbolo e indizio, che porta con sé il peso di una visione del mondo.

Nel “Pasticciaccio”, per esempio, Gadda si sofferma su particolari minimi, apparentemente insignificanti: un tratto della mano, un modo di dire, un errore grammaticale, un suono dissonante. Questi dettagli diventano la chiave per aprire una finestra sul caos nascosto sotto la facciata della vita quotidiana.

Da un punto di vista epistemologico, questo amore per il dettaglio diventa una vera e propria pratica di conoscenza. Il dettaglio è ciò che resiste all’omologazione della realtà, ciò che rompe la narrazione ufficiale, ciò che rivela la molteplicità e la contraddittorietà del reale. Gadda ci insegna così a non sottovalutare mai il piccolo, il marginale, l’irrilevante, perché è lì che si annida il segreto più profondo.

9. La disarmonia come armonia superiore: l’estetica del grottesco e dell’ironia

Un altro pilastro fondamentale dell’estetica gaddiana è la sua predilezione per la disarmonia, per il grottesco, per l’ironia. In questo senso, Gadda si pone come un erede degli antichi tragici e comici, che sapevano bene come la vita fosse insieme ridicola e terribile, sublime e volgare, luminosa e oscura.

La disarmonia, che a prima vista può apparire come un difetto o una mancanza, diventa invece una forma di armonia superiore, capace di cogliere la complessità della condizione umana. Nel suo uso della lingua, Gadda combina paroloni altisonanti con termini popolari, tecnicismi con espressioni dialettali, costruzioni sintattiche barocche con frasi spezzate, quasi schizofreniche.

L’ironia gaddiana, tuttavia, non è mai mero sarcasmo o derisione. È una ironia che nasce da una profonda compassione per l’uomo, dalle sue debolezze, dai suoi errori, dalle sue follie. È un’ironia che riconosce la tragedia che si cela dietro il comico e che fa della scrittura un gesto di pietà e insieme di denuncia.

10. La spazialità del testo: il labirinto come metafora estetica

Un aspetto poco considerato, ma di straordinaria importanza, nell’estetica gaddiana è la dimensione spaziale del testo. La pagina gaddiana non è un semplice supporto lineare per la narrazione, ma un vero e proprio “spazio-labirinto” dove il lettore è chiamato a perdersi e a ritrovarsi.

Le parentesi che si aprono senza chiudersi, i ripensamenti, le digressioni che sembrano allontanare dal filo principale, le continue interruzioni e riprese, i corsivi, le maiuscole improvvise: tutto contribuisce a creare una mappa complessa, un reticolo di percorsi possibili.

Questa spazialità non è casuale, ma risponde a una visione estetica e filosofica precisa: la realtà è un labirinto, una struttura complessa e ambigua, dove ogni tentativo di trovare un’unica via è destinato al fallimento. Il testo gaddiano, quindi, riproduce questa struttura, proponendo al lettore non un percorso rettilineo, ma un’esperienza di smarrimento e di scoperta, di caos e di ordine.

11. La temporalità frammentata: la scrittura come macchina del tempo

La temporalità nell’opera di Gadda è altrettanto frammentata e complessa come lo spazio. Non c’è un tempo lineare, né una cronologia semplice. La narrazione si apre e si chiude su piani temporali diversi, si ferma in episodi minimi, salta avanti e indietro, si perde in ricordi e anticipazioni.

Questa temporalità fratturata è un’ulteriore manifestazione dell’estetica gaddiana, che rifiuta ogni tentativo di ridurre la vita a una semplice successione di eventi, e propone invece una visione più ricca e stratificata, in cui passato, presente e futuro si intrecciano in modo indissolubile.

Il lettore si trova così di fronte a una “macchina del tempo” testuale, che lo trasporta continuamente da una dimensione all’altra, obbligandolo a riconsiderare la natura stessa del tempo e della memoria.

12. L’estetica come filosofia dell’incompiuto e del limite

L’opera di Gadda è, in ultima analisi, una filosofia dell’incompiuto e del limite. La sua scrittura è sempre in bilico tra il desiderio di totalità e la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungerla. Ogni frase, ogni pagina, ogni opera è un tentativo di afferrare la realtà nella sua totalità, ma è anche una testimonianza della sua frammentazione.

Questa tensione produce un’estetica che celebra il limite come condizione imprescindibile dell’esperienza umana. L’incompiuto non è un fallimento, ma una forma di verità, una testimonianza della nostra condizione finita, del nostro essere gettati nel mondo senza certezze.

Gadda ci invita così a guardare all’incompiuto non come a una mancanza, ma come a una possibilità, come a uno spazio di apertura e di creatività.

13. L’estetica gaddiana e la modernità: un dialogo critico

Infine, l’estetica gaddiana si pone in un rapporto critico con la modernità e con le forme culturali ad essa associate. Non è un’estetica “moderna” nel senso semplice del termine, ma un’esplorazione complessa e problematica dei limiti, delle contraddizioni e delle potenzialità del moderno.

Il suo linguaggio ibrido, la sua attenzione al dettaglio, la sua ironia, la sua ambiguità, sono tutti elementi che dialogano con le avanguardie, ma che si sottraggono a qualsiasi catalogazione facile. Gadda non si accontenta delle forme moderne, ma le mette alla prova, le supera, le trasforma.

La sua estetica è ancora oggi estremamente attuale, perché ci insegna a guardare il mondo con occhi nuovi, a coglierne le sfumature e le contraddizioni, a non dare nulla per scontato.

14. La polifonia come principio estetico e ontologico

Una delle caratteristiche più sorprendenti e irriducibili dell’estetica di Gadda è senza dubbio la polifonia, intesa come presenza simultanea e intrecciata di molteplici voci, registri, e livelli linguistici. In questa polifonia, il testo gaddiano si configura non come un monolite di senso univoco e ordinato, ma come un organismo vivente e stratificato, una sorta di organismo barocco in cui convivono e si scontrano stili e prospettive.

Questo principio polifonico si radica in una visione ontologica della realtà che rifiuta ogni riduzionismo e che riconosce nella pluralità e nella conflittualità degli elementi la vera natura del mondo. La realtà, per Gadda, non è una linea retta che conduce a un senso unico e rassicurante, ma un intreccio di voci, spesso contraddittorie e discordanti, che solo nell’incontro e nello scontro trovano una forma.

L’estetica della polifonia, quindi, è anche una filosofia della complessità, che si manifesta in un testo che esplode in mille direzioni, che si disperde e si ritrova, che moltiplica i punti di vista e le prospettive, senza mai rinunciare a una coerenza interna che è però sempre dinamica e in trasformazione.

15. L’ibridismo linguistico: un campo di battaglia tra lingua e dialetto

Tra gli aspetti più caratteristici dell’opera di Gadda vi è l’ibridismo linguistico, che si traduce in un uso combinato e spesso parodico di vari registri linguistici, dal più elevato e colto al più popolare e dialettale. Questa commistione non è mai casuale o decorativa, ma funziona come un vero e proprio campo di battaglia, in cui si scontrano e si fondono tensioni culturali, sociali, e storiche.

Il dialetto, in particolare, non è mai un semplice elemento folkloristico o un vezzo stilistico. Esso rappresenta un residuo di identità, un elemento di resistenza contro l’omologazione linguistica e culturale, ma anche una fonte di vitalità e di humor. Il linguaggio gaddiano, dunque, diventa un microcosmo in cui convivono il passato e il presente, la tradizione e la modernità, il locale e il globale.

Attraverso l’ibridismo, Gadda sfida il lettore a superare le barriere del linguaggio convenzionale, a confrontarsi con la complessità e la discontinuità della comunicazione umana, e a riconoscere che la lingua è essa stessa un territorio di conflitto e di creatività.

16. L’irregolarità formale come cifra di libertà e resistenza

Nel contesto della modernità e della crescente standardizzazione, la scrittura di Gadda si presenta come un gesto di ribellione contro l’omologazione, un canto dissidente che si esprime attraverso una profonda irregolarità formale. Questa irregolarità si manifesta nella sintassi, nella punteggiatura, nella struttura del testo, e diventa un elemento essenziale della sua estetica.

Le frasi gaddiane si costruiscono e si disfano, si aprono in parentesi che sembrano moltiplicare i significati, si interrompono con bruschi cambi di tono o di registro, si perdono in digressioni apparentemente fuori tema. Questa discontinuità, lungi dall’essere un difetto, è al contrario la manifestazione di una libertà espressiva che si sottrae a qualsiasi costrizione formale.

L'irregolarità formale è anche una forma di resistenza contro la tentazione di ridurre il testo a un prodotto omogeneo e facilmente digeribile, ed è una dichiarazione di fedeltà alla complessità della realtà e dell’esperienza umana.

17. Il grottesco come dispositivo estetico e cognitivo

Il grottesco, con la sua combinazione di elementi comici e tragici, di deformazione e verità, occupa un posto centrale nell’estetica di Gadda. Ma più che un semplice effetto stilistico, il grottesco si configura come un dispositivo cognitivo che consente di accedere a una conoscenza più profonda e articolata della realtà.

Attraverso il grottesco, Gadda mette a nudo le contraddizioni e le ipocrisie della società, rivelando la fragilità e l’ambiguità dell’esistenza umana. Il grottesco svela ciò che è nascosto sotto la superficie, smaschera le maschere sociali, e permette una forma di critica che è al tempo stesso feroce e compassionevole.

Questa doppia natura del grottesco – capace di far ridere e far riflettere, di attrarre e respingere – fa del suo uso un elemento fondamentale dell’estetica gaddiana, che sfida il lettore a confrontarsi con la complessità del reale senza illusioni né semplificazioni.

18. La narrazione come macchina di moltiplicazione del senso

La narrazione gaddiana non è mai lineare né univoca. Al contrario, essa si configura come una macchina complessa e polimorfa che moltiplica i significati e apre continuamente nuove possibilità interpretative. Il testo diventa così un laboratorio di sperimentazione, in cui la storia si intreccia con la riflessione, l’analisi con la digressione, il serio con il comico.

Questa moltiplicazione del senso è resa possibile da una scrittura che si costruisce per accumulo e per sovrapposizione, in cui ogni elemento si rifrange in molti altri, e ogni episodio si collega a una rete di rimandi e di allusioni.

La narrazione gaddiana è dunque un invito alla partecipazione attiva del lettore, che deve saper districarsi in questo groviglio di voci e di significati, diventando egli stesso coautore del testo e della sua interpretazione.

19. L’ambiguità come dimensione esistenziale e poetica

L’ambiguità è una delle dimensioni più profonde e pervasive dell’estetica di Gadda. Non si tratta di una semplice ambiguità linguistica o stilistica, ma di una condizione esistenziale che attraversa tutta la sua opera.

La realtà, per Gadda, non è mai nitida né definitiva, ma sempre sfumata e ambivalente. Le cose non sono mai ciò che sembrano, i personaggi non sono mai univoci, i sentimenti sono sempre ambigui. Questa ambiguità si riflette nella scrittura, che evita le conclusioni nette e le semplificazioni, e preferisce la complessità e la molteplicità dei punti di vista.

L’ambiguità diventa così una forma di verità, una testimonianza della fragilità e della ricchezza dell’esperienza umana, e un invito a sospendere ogni giudizio affrettato per aprirsi a una comprensione più profonda e articolata.

20. L’inquietudine come motore creativo

Se c’è un sentimento che attraversa tutta l’opera di Gadda, quello è l’inquietudine. Non si tratta di un semplice malessere o di un disagio passeggero, ma di una tensione profonda e costante che alimenta la sua scrittura e la sua riflessione.

L’inquietudine gaddiana è legata alla consapevolezza dei limiti della conoscenza e della comunicazione, alla difficoltà di dare forma al caos del reale, alla fatica di conciliare la molteplicità delle esperienze e delle emozioni.

Ma questa inquietudine è anche il motore di una creatività incessante, che spinge a sperimentare nuove forme, a cercare nuovi significati, a interrogare continuamente il senso dell’esistenza.

In questo senso, l’inquietudine non è un ostacolo, ma una risorsa fondamentale dell’estetica e della filosofia gaddiana.

21. La città: labirinto, simbolo e teatro dell’umano disordine

La città, in Gadda, non è mai uno sfondo neutro o un semplice spazio geografico: essa si configura come una protagonista stessa, una presenza viva e inquieta, un labirinto di senso e di caos in cui si riflette l’intera condizione umana. La città diventa il teatro privilegiato in cui si dispiegano le contraddizioni, le ambiguità e le tensioni della modernità, ma anche un simbolo che condensala molteplicità dei rapporti sociali, culturali, psicologici.

Nelle pagine di Gadda la città è una sorta di organismo polifonico, fatto di strade, palazzi, rumori, voci, odori che si sovrappongono e si confondono, generando una sorta di tessuto complesso e stratificato. Essa riflette la frammentazione della vita moderna, la difficoltà di trovare un ordine stabile, la moltiplicazione di stimoli e di contraddizioni che mettono a dura prova la capacità di orientarsi e di comprendere.

Questa città-labirinto è anche il luogo della memoria e dell’oblio, dello scontro tra tradizione e innovazione, del conflitto tra vecchio e nuovo, tra ciò che si perde e ciò che si guadagna nel vortice del cambiamento. L’architettura stessa, con le sue forme, i suoi stili, i suoi colori, diventa un linguaggio che racconta storie, tensioni, gerarchie, contraddizioni.

La città gaddiana è un microcosmo in cui si condensano le energie più vive e più drammatiche della storia e della cultura italiana e europea del suo tempo, ma anche un paradigma dell’esperienza umana universale, segnata dalla complessità, dall’incertezza e dalla ricerca di senso.

22. Il ruolo della tecnica e della scienza: tra fascinazione e critica

Un altro tema cruciale nell’estetica e nella filosofia di Gadda è il rapporto ambivalente con la tecnica e la scienza. Da un lato, vi è una fascinazione per la precisione, la razionalità, l’efficienza che la scienza e la tecnica promettono; dall’altro, una critica severa e spesso ironica delle loro limitazioni, delle illusioni di controllo e di conoscenza totale che esse spesso veicolano.

La scrittura di Gadda riflette questa tensione, oscillando tra un linguaggio tecnico e scientifico che tenta di catturare la realtà in formule e schemi, e un linguaggio poetico e grottesco che mette in discussione la possibilità stessa di una conoscenza oggettiva e definitiva.

Questo gioco di contrasti si traduce in un uso sapiente e ironico del dettaglio tecnico, della descrizione scientifica, che viene inserito nel tessuto narrativo per creare un effetto di straniamento, ma anche per sottolineare la complessità e l’ambiguità della realtà.

Gadda sembra suggerire che la scienza e la tecnica, pur essendo strumenti indispensabili per comprendere e intervenire nel mondo, non possono esaurire la ricchezza dell’esperienza umana, che include anche elementi irrazionali, emotivi, soggettivi che sfuggono a ogni classificazione.

23. La scrittura come ossessione e come campo di battaglia interiore

Per Gadda la scrittura non è un semplice mezzo di comunicazione, ma una vera e propria ossessione, un’urgenza esistenziale e un campo di battaglia interiore. Scrivere significa per lui confrontarsi con il caos del reale, cercare di dargli forma e senso, ma anche confrontarsi con i propri limiti, le proprie angosce e contraddizioni.

La scrittura gaddiana è un processo complesso e tormentato, che implica un continuo sforzo di controllo e di abbandono, di disciplina e di libertà, di ordine e di disordine. Le sue pagine sono piene di tentativi, correzioni, digressioni, rimandi, che testimoniano la fatica e la passione di questo lavoro.

Questo rapporto conflittuale con la scrittura riflette anche la tensione tra la volontà di trasmettere una conoscenza e una verità, e la consapevolezza della relatività e dell’incompletezza di ogni discorso. La scrittura diventa così un atto di resistenza contro il silenzio e l’oblio, ma anche un riconoscimento della fragilità e della precarietà di ogni forma di espressione.

24. Il riso come mezzo di conoscenza e di liberazione

In un panorama letterario spesso dominato dalla serietà e dalla drammaticità, Gadda introduce una presenza inaspettata e vivace: il riso. Non un riso superficiale o di scherno, ma un riso complesso, articolato, capace di cogliere le sfumature più sottili dell’umano e del reale.

Il riso gaddiano nasce dal grottesco, dall’ironia, dalla parodia, ma anche dalla compassione e dalla lucidità. Esso è un mezzo per superare le contraddizioni e le difficoltà dell’esistenza, per disinnescare le tensioni, per aprire spazi di libertà e di gioco.

Il riso diventa così una forma di conoscenza, perché mette a nudo le ipocrisie e le finzioni, smaschera le maschere sociali, e permette una visione più autentica e profonda della realtà. È anche una forma di liberazione, perché rompe le catene del conformismo e dell’oppressione, e invita a una presa di distanza critica.

25. Il corpo e la materialità: un ritorno alla fisicità dell’esperienza

In opposizione alle tendenze idealistiche o astratte di molte correnti filosofiche e artistiche, l’opera di Gadda riscopre con forza la materialità e la fisicità dell’esperienza umana. Il corpo, con le sue fragilità, le sue passioni, i suoi limiti, è un elemento centrale della sua scrittura.

La descrizione dei corpi, dei movimenti, delle sensazioni fisiche è spesso dettagliata e intensa, capace di restituire la concretezza e la complessità della vita vissuta. Questa attenzione al corpo si collega anche a una visione della realtà come fatta di materia, di forze, di energia, che sfugge a ogni riduzione simbolica o metafisica.

Il corpo diventa così un punto di partenza per una riflessione più ampia sull’identità, sulla soggettività, sulla relazione tra individuo e mondo. Attraverso la materialità del corpo, Gadda apre una prospettiva estetica che valorizza l’esperienza sensibile e la dimensione corporea come fondamentali per la comprensione dell’umano.

26. La memoria e il tempo: scrittura come stratificazione e sedimentazione

La memoria, intesa come capacità di conservare e rivivere il passato, è un altro tema cardine dell’estetica gaddiana. Ma non si tratta di una memoria lineare o nostalgica, bensì di una memoria stratificata, complessa, capace di conservare simultaneamente molteplici tempi e livelli di esperienza.

La scrittura di Gadda si configura come un archivio, un deposito in cui si sedimentano ricordi, impressioni, frammenti di vita, e dove il passato non è mai semplicemente recuperato, ma rielaborato e trasfigurato attraverso il filtro del presente.

Questa stratificazione temporale è visibile nella struttura stessa del testo, che spesso si apre e si chiude su registri diversi, che moltiplica digressioni e ritorni, che mette in relazione eventi distanti e apparentemente scollegati.

La memoria diventa così un dispositivo estetico e filosofico che permette di esplorare la complessità del tempo e dell’identità, ma anche una forma di resistenza contro l’oblio e la cancellazione.

27. Il linguaggio: ossimoro, paradosso e polifonia

Il linguaggio in Gadda non è mai neutro o trasparente, non è mai un semplice mezzo per veicolare contenuti: esso è invece un terreno di battaglia, un crocevia di forze contrastanti, un luogo in cui si scontrano e si combinano più registri, stili, intenzioni.

La sua scrittura si distingue per una polifonia linguistica che va dal tecnico-scientifico all’iperbarocco, dal colloquiale al sapienziale, dal comico al tragico. Questo sovraccarico stilistico riflette la complessità del reale e la difficoltà di una rappresentazione univoca. Ogni parola è scelta e calibrata con una precisione chirurgica, ma allo stesso tempo è portatrice di ambiguità e di irriverenza.

Gadda ama giocare con ossimori e paradossi, costruendo frasi che sembrano contraddirsi o che si intrecciano in maniera tortuosa, quasi barocca, e che richiedono al lettore uno sforzo interpretativo attento e partecipe. Questa stratificazione rende la sua scrittura viva e vibrante, come se fosse un organismo pulsante che respira tra ordine e disordine.

Questo approccio riflette la convinzione che il linguaggio non possa mai cogliere il reale nella sua totalità, ma solo offrire frammenti, approssimazioni, suggestioni che si sovrappongono e si intrecciano. Il linguaggio diventa quindi non solo uno strumento di comunicazione, ma anche un oggetto di indagine e di sperimentazione, una frontiera aperta su nuovi modi di pensare e di sentire.

28. L’ironia tragica: un modo per affrontare l’abisso

In tutta la sua opera, Gadda utilizza con maestria una forma di ironia che è insieme dissacrante e profondamente umana. L’ironia gaddiana non è mai superficiale né sterile; è un’ironia tragica, che nasce dalla consapevolezza della precarietà, della finitezza e della tragicità dell’esistenza.

Questo tipo di ironia funziona come un meccanismo di difesa contro l’assurdità e la crudeltà del mondo, ma anche come uno strumento di conoscenza, capace di rivelare la verità nascosta dietro le apparenze. Essa permette di guardare al dolore, all’errore, alla follia umana con uno sguardo lucido ma compassionevole, che sa riconoscere la fragilità e la grandezza insieme.

L’ironia tragica è quindi una forma di saggezza, un modo per tenere insieme la distanza critica e l’empatia, il riso e il pianto, il disincanto e la passione. È una risposta creativa e generosa all’enigma della condizione umana.

29. Il grottesco e il barocco: estetiche della deformazione e dell’eccesso

L’estetica di Gadda si caratterizza per un uso frequente del grottesco e del barocco, che si manifestano in deformazioni, esagerazioni, ibridazioni di elementi e registri. Il grottesco gaddiano non è semplice deformazione: è una strategia di messa in crisi delle certezze, una pratica estetica che denuncia le contraddizioni e le ipocrisie della società e dell’individuo.

Attraverso il grottesco, Gadda riesce a far emergere il lato oscuro e paradossale della realtà, portando alla luce ciò che di solito si nasconde sotto la superficie. Il barocco, con la sua complessità formale e la sua ricchezza decorativa, diventa invece una cifra stilistica che esprime la ricchezza e la complessità dell’esperienza, ma anche la sua frammentarietà e la sua ambiguità.

Queste due estetiche si intrecciano e si sovrappongono, creando un effetto di straniamento e di coinvolgimento simultanei, che spingono il lettore a una partecipazione attiva e critica.

30. La cultura come stratificazione: l’enciclopedia personale di Gadda

Uno degli aspetti più affascinanti della scrittura di Gadda è la sua capacità di condensare e rielaborare una vasta gamma di riferimenti culturali, scientifici, letterari, storici. La sua opera può essere vista come un’enciclopedia personale, una sorta di atlante di conoscenze che si intrecciano e si sovrappongono, creando un universo ricchissimo e complesso.

Questa stratificazione culturale non è mai sterile o didascalica, ma viene utilizzata come materiale vivo per costruire nuove connessioni, per esplorare temi esistenziali e sociali, per creare una mappa del mondo che sia insieme critica e affettuosa.

Attraverso questo lavoro di accumulazione e rielaborazione, Gadda mette in luce la complessità e la pluralità della cultura contemporanea, ma anche la difficoltà di orientarsi in un mondo sovraccarico di informazioni e stimoli.

31. La figura dell’intellettuale: fra impegno e ambiguità

Gadda offre una riflessione profonda e spesso ambivalente sulla figura dell’intellettuale nel contesto della società moderna. L’intellettuale gaddiano non è un eroe limpido né un uomo di potere, ma una figura tormentata, divisa tra il desiderio di comprendere e di comunicare, e la consapevolezza dei propri limiti e contraddizioni.

L’intellettuale deve confrontarsi con la realtà sociale e politica, ma spesso si trova a navigare in un mare di ambiguità e compromessi. Questa condizione di difficoltà e di isolamento è raccontata da Gadda con un realismo disincantato ma non privo di speranza.

La sua opera è anche una meditazione sul ruolo e sulla responsabilità della cultura e della scrittura nella società contemporanea.

32. La crisi dell’identità: pluriverso e molteplicità

Un altro tema centrale è la crisi dell’identità, intesa come perdita di un centro stabile e riconoscibile. In Gadda, l’identità è sempre multipla, fluida, frammentata, costituita da molteplici livelli e aspetti che spesso entrano in conflitto tra loro.

Questa molteplicità è resa visibile sia a livello formale, con la presenza di registri linguistici diversi e spesso contraddittori, sia a livello tematico, con personaggi che si muovono tra diversi ruoli e identità, e con una narrazione che si disarticola e si ricompone continuamente.

La crisi dell’identità riflette la complessità della condizione umana nella modernità, segnata dalla moltiplicazione delle possibilità e dalla difficoltà di trovare un senso unitario.

33. La rappresentazione del dolore e della sofferenza

La sofferenza è una presenza costante e ineludibile nella scrittura di Gadda. Essa non è mai spettacolarizzata né banalizzata, ma affrontata con rigore e profondità.

La descrizione del dolore fisico e psicologico è spesso cruda, dettagliata, ma anche attraversata da una sorta di pietas che non rinuncia alla verità né alla compassione.

Questa rappresentazione del dolore diventa un modo per esplorare i limiti dell’umano, le ferite della storia e della società, ma anche per affermare la dignità e la resilienza della persona.

34. La ricerca del sacro e del mistero

Nonostante la prevalenza di un atteggiamento critico e spesso ironico verso la religione e le grandi narrazioni metafisiche, nell’opera di Gadda è presente anche una tensione verso il sacro e il mistero.

Questa dimensione si manifesta in momenti di intensa spiritualità, in immagini e simboli che evocano l’oltre, il trascendente, ma anche in una sensibilità per il mistero della vita e della morte.

La scrittura di Gadda cerca così di cogliere l’imponderabile, il segreto nascosto dietro il visibile, aprendo uno spazio per una riflessione che va oltre la razionalità immediata.

35. L’umano nel cosmo: microcosmo e macrocosmo

Infine, un tema che attraversa tutta l’opera è la relazione tra l’umano e il cosmo, tra il microcosmo individuale e il macrocosmo universale.

Gadda sembra suggerire che l’uomo non è un’isola, ma una parte di un tutto più vasto, e che la comprensione di sé passa attraverso la comprensione di questa relazione.

Questa prospettiva cosmica si traduce in un senso di meraviglia e di responsabilità, ma anche in una consapevolezza della nostra finitezza e del nostro essere immersi in un ordine complesso e misterioso.

36. Il labirinto come metafora dell’esperienza umana

Se c’è un’immagine che più di ogni altra incarna la visione del mondo di Gadda, è quella del labirinto. Non un semplice gioco geometrico o un esercizio di stile letterario, ma un simbolo vivente della condizione esistenziale, del destino dell’uomo moderno, della sua disperata ricerca di senso in un mondo che si rivela inestricabile, oscuro e tortuoso.

Il labirinto gaddiano è un luogo dove ogni svolta può aprire nuove prospettive ma anche nuovi enigmi, dove l’ordine apparente si dissolve in un groviglio di vie senza uscita e di porte chiuse. Esso rispecchia la frammentarietà della realtà e la difficoltà di penetrare il velo dell’apparenza, ma anche la necessità vitale di tentare, di esplorare, di non cedere alla disperazione.

Come in un dedalo senza centro stabile, la narrazione si snoda con un ritmo oscillante, tra ragione e follia, tra il rigore dell’analisi e l’abbandono al caos. La dimensione labirintica attraversa non solo la trama, ma anche la struttura linguistica e stilistica, riflettendo l’incertezza e la complessità del pensiero umano.

37. Il groviglio della memoria e del tempo

Se il labirinto è lo spazio, il tempo in Gadda è un groviglio inestricabile, un intreccio di passato, presente e futuro che si confondono e si sovrappongono. La memoria non è un archivio lineare e affidabile, ma un deposito caotico di immagini, sensazioni, ricordi e fantasmi che si intrecciano con l’esperienza presente.

La narrazione spesso si muove in avanti e indietro nel tempo, spostandosi tra epoche diverse, rievocando momenti e personaggi con un senso di simultaneità che sfida la logica cronologica. Questo trattamento del tempo si riflette anche nella lingua, che si fa stratificata, con riferimenti che oscillano tra il dialetto, il gergo tecnico e il linguaggio colto.

Attraverso questa trama temporale complessa, Gadda rende evidente come il presente sia perennemente abitato dal passato, come la coscienza sia un continuo riemergere di tracce che plasmano il nostro modo di essere nel mondo.

38. La “macchina” e il “meccanismo”: il corpo e la società

Un altro tema ricorrente e fondamentale è quello della macchina, intesa sia come oggetto tecnico che come metafora del corpo umano e della società. La scrittura di Gadda è pervasa da un’ossessione per il funzionamento, il difetto, il guasto, e la riparazione delle macchine, che si trasforma in un modo per pensare la complessità e la fragilità della vita.

Il corpo umano viene spesso descritto come un congegno complicato, fragile e soggetto a rotture, ma anche dotato di una sorprendente capacità di adattamento e rigenerazione. Allo stesso modo, la società è rappresentata come un meccanismo complesso, fatto di ingranaggi, leve, cinghie, che può incepparsi o funzionare a fatica, ma che continua a muoversi sotto la spinta di forze contraddittorie.

Questa metafora della macchina mette in luce l’ambivalenza tra ordine e caos, tra struttura e disfacimento, tra controllo e imprevedibilità che attraversa ogni livello dell’esistenza.

39. Il corpo come “luogo della crisi”

In questa metafora meccanica, il corpo diventa un luogo emblematico della crisi esistenziale, della fragilità e del conflitto. Le descrizioni che Gadda fa del corpo spesso si concentrano su lesioni, malattie, deformazioni, sintomi che sono segni di un malessere profondo.

Questa attenzione al corpo “sofferente” non è mai morbosa né voyeuristica; è invece un modo per mettere in luce l’inscindibilità tra corpo e mente, tra materia e spirito, tra fisico e simbolico. Il corpo è un campo di battaglia dove si giocano le tensioni più profonde dell’identità, della vulnerabilità e della resistenza.

Attraverso questa focalizzazione, Gadda affronta il tema della mortalità e della finitezza, senza mai cadere nel pessimismo sterile, ma anzi cercando di trovare un senso nella lotta stessa.

40. L’irriducibilità del reale

In questo contesto, emerge con forza il tema dell’irriducibilità del reale, cioè della impossibilità di ridurre la complessità della realtà a modelli semplicistici o a spiegazioni univoche. La realtà per Gadda è un fenomeno molteplice, contraddittorio, sfuggente, che resiste a ogni tentativo di controllo o di dominio.

Questa convinzione si riflette nel suo stile, che rifiuta la chiarezza e la linearità a favore della densità, della stratificazione e della dissonanza. Gadda sembra suggerire che solo accettando questa complessità e questa ambiguità si può avvicinarsi a una verità più autentica e più umana.

41. La tensione tra scienza e umanesimo

Un altro nodo cruciale è la tensione tra scienza e umanesimo, tra razionalità tecnica e sensibilità poetica. Gadda, pur essendo un ingegnere e un uomo di scienza, non si limita a una visione razionale e strumentale del mondo, ma intreccia continuamente l’approccio scientifico con una visione umanistica e artistica.

Questa tensione si manifesta in una scrittura che è insieme rigorosa e barocca, tecnica e lirica, precisa e frammentata. Essa riflette la difficoltà di conciliare due modi diversi di conoscere e di rappresentare il mondo, ma anche la possibilità di una loro feconda integrazione.

42. L’angoscia dell’ignoto e il desiderio di conoscenza

Dentro questa cornice si muove la figura dell’intellettuale come portatore di un’angoscia fondamentale: quella dell’ignoto, dell’incertezza, dell’impossibilità di sapere tutto. Allo stesso tempo, però, questa angoscia si accompagna a un desiderio insopprimibile di conoscenza e di comprensione.

Gadda incarna questa doppia tensione, oscillando tra la paura e la curiosità, tra il dubbio e la passione per la ricerca. La sua scrittura è un viaggio esplorativo, un tentativo di mappare territori sconosciuti, di dare forma a ciò che è informe, di trovare un senso nel caos.

43. L’umorismo come resistenza

In mezzo a questo scenario di complessità e incertezza, l’umorismo emerge come una forma di resistenza e di sopravvivenza. L’umorismo gaddiano non è mai superficiale o banale; è un’umorismo che nasce dal dolore, dalla consapevolezza dei limiti umani, dalla tensione tra il serio e il faceto.

Esso permette di affrontare le contraddizioni della vita senza cedere al nichilismo o al pessimismo, offrendo una via per mantenere un atteggiamento critico ma non disperato, per trovare leggerezza senza rinunciare alla profondità.

44. L’estetica del dettaglio

Un’altra caratteristica essenziale è la predilezione per il dettaglio, per la descrizione minuziosa, per l’osservazione attenta e puntuale degli elementi più piccoli e apparentemente insignificanti. Questa estetica del dettaglio si traduce in un modo di scrivere che sembra quasi ossessivo nella cura delle parole, nella ricerca di precisione, nella volontà di cogliere ogni sfumatura.

Il dettaglio diventa così un modo per avvicinarsi alla verità delle cose, per esplorare le pieghe nascoste della realtà, per rendere visibile ciò che di solito sfugge allo sguardo distratto.

45. Il dialetto e la lingua come forme di resistenza culturale

Parallelamente, Gadda utilizza spesso il dialetto e vari registri linguistici come strumenti di resistenza culturale e di critica sociale. La presenza del dialetto non è solo un elemento di realismo o di colore locale, ma un modo per mettere in discussione il primato della lingua ufficiale e per valorizzare la pluralità delle identità linguistiche e culturali.

Questa attenzione alla lingua come territorio di conflitto e di negoziazione riflette la complessità delle dinamiche sociali e culturali e la necessità di una narrazione che sappia ascoltare tutte le voci, anche quelle marginali o subalterne.

46. L’eredità di Dante e della tradizione letteraria

Un ultimo aspetto da sottolineare è l’eredità culturale e letteraria che attraversa tutta l’opera di Gadda, a partire dalla tradizione italiana più alta e nobile, rappresentata in particolare da Dante.

Gadda non si limita a un’imitazione o a un omaggio formale, ma rilegge la tradizione in modo critico e innovativo, cercando di farla dialogare con le esigenze e le sfide della modernità.

La sua scrittura è così un ponte tra passato e presente, tra classicità e avanguardia, tra memoria e invenzione.

47. La parola e il suo doppio: tra significato e suono

Nel groviglio gaddiano, la parola non è mai semplice veicolo di significato, bensì un organismo vivo, un’entità bifronte che si dispiega simultaneamente in due dimensioni: quella semantica, cioè ciò che dice, e quella sonora, cioè ciò che fa risuonare nell’aria, nel corpo e nell’anima del lettore.

Non è raro imbattersi in una costruzione lessicale che, all’apparenza, sembra sfuggire al senso immediato per alludere invece a una realtà più profonda, quasi mistica, della parola come musica, come vibrazione. L’onomatopea, l’iperbole fonetica, la combinazione apparentemente arbitraria di consonanti e vocali costituiscono una partitura sonora che accompagna e amplifica il discorso.

Questo doppio movimento della parola, che oscilla tra senso e suono, tra ragione e piacere estetico, crea un effetto di straniamento che costringe il lettore a un ascolto attento, quasi rituale, in cui il linguaggio si fa esperienza sensibile e cognitiva al tempo stesso.

48. Il disordine come ordine nascosto

Quella che per un occhio superficiale potrebbe sembrare una scrittura caotica, un accumulo disordinato di immagini, parole e pensieri, è invece un’organizzazione profonda, un ordine nascosto che si rivela solo a chi sa decifrare i segni, a chi si lascia avvolgere dalla complessità senza ricorrere alla semplificazione.

Il disordine apparente è una forma di resistenza alla tentazione della chiarezza e della linearità, una rivendicazione della complessità del reale, che non può essere ridotto a formule semplici o a schemi predefiniti.

Questa tensione tra disordine e ordine è la struttura stessa della narrazione gaddiana, che si costruisce come un tessuto intricatamente intrecciato, un merletto barocco di parole e concetti.

49. Il gioco delle parti: voce narrante e polifonia

Gadda si diverte a moltiplicare le voci narrative, a farle intrecciare, scontrare e mescolare, creando un effetto di polifonia che rispecchia la molteplicità delle prospettive e la relatività delle verità.

Non esiste un punto di vista unico e autorevole, ma una rete di punti di vista che si incrociano e si sovrappongono, che mettono in discussione la possibilità stessa di una verità assoluta.

Questa moltiplicazione delle voci, oltre a complicare la lettura, arricchisce il testo di sfumature e contraddizioni, rendendo il racconto vivo, vibrante, aperto.

50. L’ironia come strumento critico

L’ironia gaddiana non è mai un mero espediente stilistico, ma un vero e proprio strumento di critica sociale, culturale e filosofica. Attraverso il sorriso amaro, il sarcasmo sottile, la battuta tagliente, Gadda smaschera ipocrisie, inganni, vanità, rivelando l’incongruenza e la fragilità delle costruzioni umane.

L’ironia diventa così una forma di dissenso e di libertà, un modo per mantenere una distanza critica senza cadere nel cinismo o nella disperazione.

51. La città e la provincia: luoghi dell’alienazione

Uno dei grandi temi gaddiani è la contrapposizione tra la città e la provincia, intese non solo come spazi geografici ma come metafore di condizioni esistenziali.

La città, con il suo frastuono, la sua complessità, la sua anonimia, è spesso rappresentata come un luogo di alienazione, di perdita dell’identità, di frammentazione. La provincia, invece, è un microcosmo dove si concentrano le piccole ipocrisie, i pregiudizi, le dinamiche sociali ristrette, ma anche le radici profonde dell’umano.

Questo doppio volto del territorio riflette la tensione tra la ricerca di modernità e il richiamo delle origini, tra il desiderio di fuga e la necessità di appartenenza.

52. La memoria collettiva e il trauma storico

Gadda si fa interprete di una memoria collettiva spesso dolorosa, fatta di eventi traumatici, di guerre, di sconfitte e di perdite. La sua scrittura si fa quindi anche luogo di testimonianza e di elaborazione del lutto, un tentativo di conservare e restituire ciò che rischia di essere dimenticato o cancellato.

Il trauma storico non è solo un fatto passato, ma un presente che si manifesta attraverso cicatrici, silenzi, deformazioni, che influenzano il modo in cui la comunità si racconta e si riconosce.

53. La scrittura come terapia

Per Gadda, scrivere non è solo un’attività artistica o intellettuale, ma un gesto terapeutico, un modo per affrontare il dolore, l’angoscia, l’incertezza. La scrittura è un dispositivo di sopravvivenza, un laboratorio in cui sperimentare, provare, sbagliare, riprovare.

Il testo gaddiano si configura come un campo di battaglia dove si confrontano forze contraddittorie, dove si gioca la possibilità stessa della guarigione e della trasformazione.

54. La tensione tra norma e deviazione

Un altro tema cruciale è la tensione tra norma e deviazione, tra conformismo e trasgressione. Gadda mostra con acume le dinamiche di controllo sociale e le modalità di esclusione di ciò che è considerato anomalo o diverso.

Ma al tempo stesso, egli valorizza la devianza come motore di creatività, come possibilità di rottura e di rinnovamento.

55. La complessità dell’identità

L’identità, nei testi gaddiani, non è mai fissa o univoca, ma plurale, fluida, complessa. Essa si costruisce attraverso il confronto con gli altri, con la società, con la storia, ma anche attraverso un dialogo interiore, spesso conflittuale.

Questa visione dell’identità come processo dinamico e aperto riflette una sensibilità moderna e anticipa molte delle riflessioni contemporanee sulla soggettività.

56. Il corpo come sito di negoziazione politica

Il corpo, che abbiamo già incontrato come metafora della fragilità e della crisi, diventa anche un luogo di negoziazione politica, di resistenza e di rivendicazione. Attraverso la descrizione delle sofferenze fisiche, Gadda mette in luce le disuguaglianze, le oppressioni, le ingiustizie che si manifestano anche a livello corporeo.

Il corpo diventa così un luogo di memoria, di testimonianza e di lotta, un terreno dove si intrecciano il personale e il politico.

57. Il gioco tra realtà e finzione

Un altro elemento centrale è il gioco tra realtà e finzione, tra documentario e invenzione. La scrittura di Gadda oscilla continuamente tra la fedeltà al dato reale e la libertà creativa, tra l’attenzione ai particolari e la licenza poetica.

Questo gioco mette in discussione la distinzione tradizionale tra realtà e finzione, suggerendo che la verità si trova spesso nella zona ambigua dell’invenzione.


Per Gadda, con Gadda, in Gadda: il labirinto senza uscita

Ora, per dirla con le parole che non si lasciano afferrare, per tentare quel gioco irriverente e quasi sacrilego di chiudere con Gadda nel suo stesso tono, con le sue modalità, con quel “bisticcio” linguistico che è la sua firma più autentica, dobbiamo subito smettere di pensare a una chiusura convenzionale, perché, come sanno i naviganti di quella sua prosa infinita, chiudere è un paradosso. È un “modo di non concludere”, di lasciar pendere in sospeso un nodo che si allenta e si stringe, che si fa fitta trama e poi si disfa come un filo di lana steso al vento — ecco, la scrittura di Gadda è questo: un vento che scuote la trama del linguaggio fino a sfilacciare, e poi riannodare, senza tregua.

«E dunque?» ci verrebbe da chiedere, se fossimo così stolti da pretendere la fine, la parola ultima, il bottone ben cucito che tiene tutto insieme. Ma Gadda, con quel suo ghigno di chi ha visto troppo, che ha lottato con la parola e il suo doppio, con l’orrore e la tenerezza, con la verità e la menzogna, ci ammonisce: «Non esiste parola ultima, esiste solo l’eco, la risonanza che si perde e si ritrova, la contraddizione che divora se stessa e si rigenera».

Perché, vedi, il suo dire è una specie di danza macabra — non di morte come fine, ma di morte come condizione permanente, quella «serenità e obiettività giudiziosa della morte» che ha citato nel “laboratorio” de I viaggi la morte. Una condizione che non è la fine, ma il punto di vista da cui tutto si illumina in modo crudele e lucido: guardare la realtà come il «residuo fecale della storia», come un «morto corpo» — eppure continuare a scrivere, a narrare, a “fare la vendetta” con la parola.

Questa tensione, questa vibrazione incessante tra ciò che è e ciò che vorremmo fosse, è l’ossatura del suo linguaggio, e al tempo stesso la sua trappola fatale. Non per chi legge, ma per chi scrive — chi si mette davanti alla pagina con la penna o la macchina da scrivere, sapendo che ogni frase è un rischio, un salto nel vuoto, un tentativo di afferrare «l’atomo opaco del male» che ci attraversa tutti e ci rende «umiliati e offesi» nella vita quotidiana.

Così, concludere in Gadda significa immergersi nel groviglio del suo lessico, nelle sue «bischeraggini indecifrabili», negli slanci che oscillano tra la compassione e la feroce ironia, tra l’invettiva e la carezza. Significa accettare che il «mareggiare degli eventi mortiferi» non si placa con una semplice frase, ma si moltiplica in immagini, neologismi, parentesi, incisi, correzioni, come se la scrittura stessa fosse una battaglia contro l’oceano della stupidità e dell’assurdo che ci circonda.

Alla fine, la chiusura non è una fermata ma un’apertura — una porta che si spalanca su un altro corridoio, un’altra stanza del labirinto. Come quando Gadda scriveva che la sua penna non è «fante o domestica» della «lingua dell’uso», ma strumento dell’anima, che si ribella a «Cesira» e ai suoi desideri di «uniformare» e «canonizzare». Perché scrivere in Gadda è anche un atto di resistenza, una rivolta contro la banalità e l’omologazione, contro la tentazione del facile consenso.

È dunque un invito a non piegare mai la lingua, a non arrendersi mai alla chiarezza semplicistica, a tollerare il rumore, il disordine, l’ambiguità. Perché solo in quel disordine può nascere la verità più autentica, quella che brucia, che punge, che non si lascia incasellare nei «buoni intenti» o nelle «buone cause».

Ecco allora che la chiusura gaddiana si fa canto, litania, invettiva e confessione allo stesso tempo. Non una parola che posa la pietra tombale, ma un grido che risuona dentro le pareti di un tempio abbandonato, un ultimo sussurro prima che il silenzio prenda tutto.

«Oh voi, lettori, compagni di questa impresa sgangherata e disperata, sappiate che il mio dire non è mai concluso, è sempre in fieri, è sempre in corsa, tra le pieghe di un discorso che si dilata e si contrae come il respiro stesso del mondo. Non cercate qui la verità chiusa e sigillata, ma la verità che si muove, che si contorce, che si sgretola e si ricompone, con la lingua fiammeggiante e impastata di fango e sogno.»

Così, in Gadda, con Gadda, per Gadda, si chiude e si apre, si spezza e si ricompone, si perde e si ritrova — in un eterno ritorno che è, forse, la sola forma autentica di scrittura e di vita.


Provvedo allora a sviluppare ampiamente il testo, amplificando il discorso in sezioni tematiche, tutte intrecciate nel flusso di una scrittura densa e “gaddiana”, piena di svolte imprevedibili, paratassi e parentesi che sembrano smarrirsi solo per ritrovare il filo in un climax di significati e invenzioni linguistiche.

1. Il romanzo come ordito tragico e grottesco

Non si scrive, non si può più scrivere come una volta, con la tranquilla presunzione del narratore che tutto sa, tutto può e tutto spiega. Il romanzo moderno, quello vero, quello che Gadda praticava con la mano che trema e la mente affilata come un coltello usato, è una strana creatura fatta di fili aggrovigliati, di realtà stracciata e ricucita con spago irregolare, di abissi oscuri e bagliori insospettati, di rigurgiti verbali che sembrano smarrire il senso per ritrovarlo in un’altra piega, in un’altra immagine, in un’altra parola “che non si dice”.

Il romanzo per Gadda non è la semplice trascrizione della realtà, un fotogramma nitido e immobile. È un territorio scosceso, un dirupo su cui si cammina con passo incerto e occhi spalancati, è un inferno barocco dove ogni elemento si carica di un significato doppio, triplo, dove il grottesco e il tragico si intrecciano in una danza inestricabile, in una sorta di “commedia della vita” che però è priva di lieto fine, o di finale consolatorio.

Perché «il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia». Questa affermazione che potrebbe suonare come un colpo di martello in testa, o un urlo in una stanza vuota, è invece una verità cruda, un riconoscimento dell’inesorabilità dell’esistenza, della sua brutalità e della sua irrazionalità, che non si possono ridurre a formule o a moralismi.

Il romanzo, dunque, deve andare oltre il semplice racconto, deve scendere nel cuore oscuro degli eventi, nella “tensione tragica” che li sostiene o li disfa, nella misteriosa concatenazione di cause e effetti, di ragioni e di irragioni che sono la vera trama del vivere. Non può accontentarsi della cronaca, del resoconto, della sequenza temporale; deve essere insieme indagine, testimonianza, canto disperato e ironico, prosa febbrile e poesia spezzata.

La scrittura di Gadda si mostra come un esperimento radicale, un laboratorio dove il linguaggio si dilata, si contorce, si frammenta, si moltiplica, creando una rete fitta di significati e di echi che sfidano il lettore a seguirlo nell’abisso.

2. La lingua come campo di battaglia e atto di libertà

Una delle caratteristiche più potenti e celebri della scrittura gaddiana è il suo rapporto tormentato e orgoglioso con la lingua. Non si tratta solo di “parlare come si mangia”, come un’insegna da bottega, un comandamento popolare che vuole tutto piegato a una grammatica di uso quotidiano e di comunicazione immediata.

No. Per Gadda la lingua è un campo di battaglia, uno spazio dove si scontrano la realtà e l’anima, l’ordine imposto e il caos naturale, la pretesa omologante della “lingua dell’uso” e la complessità intrinseca del pensiero e dell’emozione umana.

Quando Gadda parla di “Cesira e Zebedia”, personaggi emblematici che rappresentano quell’istanza di potere linguistico conformista e burocratico, si schiera apertamente contro la riduzione della lingua a “strumento domestico” di comunicazione standardizzata. Perché la lingua, nelle sue mani, è un organismo vivo, capace di scivolare tra dialetti, tecnicismi, neologismi, latinismi, paratassi interminabili, neologismi inventati, ironia mordace, contrasti di registro.

La sua penna è «al servizio della mia anima», scrive con rabbia e amore, e in questo si manifesta tutta la sua autonomia e la sua sfida al mondo che vorrebbe ingabbiare ogni parola nella rassicurante rete del politicamente corretto o del buon senso comune.

La sua scrittura è un atto di libertà assoluta, un rifiuto di piegarsi alla Cesira e alla sua “zucca”, un grido feroce e dolente che reclama il diritto di essere complessa, contraddittoria, impura, persino “brutta” o “goffa”, pur di restare autentica.

3. La scrittura come riscatto personale e resa dei conti

Se c’è un tema che attraversa tutta l’opera di Gadda, e che si avverte con forza anche in “I viaggi la morte”, è quello della scrittura come atto di riscatto, come strumento di rivendicazione della propria verità, del proprio sguardo sul mondo.

«Nella mia vita di ‘umiliato e offeso’», dice lui stesso, la narrazione è stata «lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia” verità, il “mio” modo di vedere». È un grido che nasce dal dolore, dall’esperienza del disprezzo, della marginalità, dell’ingiustizia, ma che si fa forza e resistenza.

La scrittura, in questa prospettiva, non è un semplice mezzo estetico o intellettuale: è uno scudo e una spada, un modo per riscattarsi dagli «oltraggi del destino», dagli scontri con le ingiustizie umane e storiche, un modo per affermare un’esistenza che si rifiuta di essere schiacciata e annullata.

E proprio per questo la scrittura di Gadda non cerca la serenità consolatoria, non abbraccia illusioni o compromessi. Al contrario, si avvicina con uno sguardo di “obiettività giudiziosa della morte”, quel momento supremo in cui «siamo tutti molto giuduziosi, siamo tutti angeli».

Una sorta di resa dei conti con la realtà, con la vita, con la morte, in cui la parola diventa il testamento di un’anima che ha attraversato la tempesta e che ora racconta senza filtri, senza abbellimenti.

4. L’ideologia di posizione: prigione e follia

Un altro elemento centrale nel pensiero gaddiano è il riconoscimento dell’inevitabilità dell’ideologia di posizione. Citando Karl Mannheim, Gadda evidenzia come la condizione sociale e biografica di ciascuno influenzi profondamente il modo in cui si pensa, si interpreta, si valuta il mondo.

Questa consapevolezza non è mai un semplice dato sociologico o psicologico: diventa un grimaldello per smascherare le illusioni di neutralità e di oggettività che spesso accompagnano le idee e le convinzioni, soprattutto in ambito politico e culturale.

Gadda, con il suo stile ironico e impietoso, osserva come spesso l’appartenenza a un gruppo, a una categoria, a una “posizione” sociale si traduca in una forma di narcisismo che alimenta una «bischeraggine indecifrabile», un miscuglio di follia e dissociazione che rende ciechi e sordi a qualsiasi verità che esuli dal proprio orticello.

La sua scrittura diventa uno specchio deformante e allo stesso tempo illuminante, capace di mostrare il grottesco delle ideologie di posizione senza cadere nella tentazione dello snobismo o del disprezzo facile.

5. La scrittura come impegno contro l’oceano della stupidità

Infine, la scrittura gaddiana è soprattutto un gesto di sfida contro ciò che Gadda chiama «l’oceano della stupidità». Un mare vasto, opprimente, pieno di onde mortifere di dolore, di stupidità, di menzogne, di silenzi, di strazi lenti che consumano gli anni e l’anima.

Scrivere è un modo per resistere, per non affogare in questo oceano, per non soccombere alla storia bugiarda e al tempo che tutto inghiotte senza pietà.

Ma questa resistenza non è mai ingenua o trionfalistica. È piuttosto un atto di consapevolezza tragica, un immergersi nell’impossibile con «artificio meditato», un nuotare controcorrente sapendo che la riva opposta è forse irraggiungibile.

È questo il cuore dell’ispirazione gaddiana, quella scintilla che tiene accesa la penna anche di fronte al nulla, quel movimento incessante che fa sì che la scrittura diventi la testimonianza dell’umano, con tutte le sue contraddizioni e fragilità.

6. La scrittura come esperienza ontologica e psichica

È necessario qui ribadire che per Gadda la scrittura non è mai mero esercizio tecnico o esercizio stilistico fine a se stesso: essa è esperienza ontologica, esperienza di essere nel mondo e con il mondo, attraversamento e messa a nudo del sé più profondo, del labirinto psichico e morale in cui ciascuno si ritrova a vagare.

Scrivere equivale a entrare in una condizione di «superlativa solitudine», come in una sorta di eremitaggio forzato dove la parola diventa unico interlocutore, unico testimone del sé. Ma questa solitudine non è quieta o rassicurante: è irrequieta, spaventosa, attraversata da ombre e rimorsi, da contraddizioni che si incrociano e si scontrano senza possibilità di sintesi definitiva.

Il romanzo, allora, è una forma di autoanalisi radicale, un cammino attraverso le pieghe dell’inconscio, un’indagine delle ragioni profonde che muovono la volontà e il desiderio, la paura e la speranza. Nel far questo, Gadda utilizza la lingua come uno scalpello, capace di scavare oltre le superfici apparenti e di penetrare nelle pieghe nascoste dell’essere.

È un’esperienza dolorosa e necessaria, una catarsi che però non conduce a una redenzione facile, a una soluzione consolatoria. È piuttosto un confronto serrato con la verità tragica dell’esistenza, con le sue ferite, le sue ombre e i suoi limiti.

7. La memoria e il tempo: un gioco di specchi infranti

Un altro nodo centrale nella scrittura gaddiana è il rapporto con la memoria e con il tempo, intesi come dimensioni frammentarie, sfuggenti, incapaci di una linearità rassicurante.

La memoria, in Gadda, non è un archivio ordinato di fatti, ma un mosaico scomposto di immagini, suoni, emozioni, impressioni, spesso confuse, sovrapposte, contraddittorie. È un territorio di soglia dove il passato si fonde con il presente, dove i confini tra realtà e immaginazione diventano labili e indistinti.

Questa visione si riflette nella struttura stessa dei suoi romanzi, spesso costruiti come un insieme di digressioni, flashback, inserti lirici e tecnici, interruzioni improvvise, che sfidano il lettore a ricostruire il senso attraverso un percorso non lineare.

Il tempo non scorre più come un fiume tranquillo e progressivo, ma si spezza in frammenti, si curva su se stesso, si riflette in mille specchi infranti che rimandano immagini deformate e inquietanti.

Possiamo dire che la scrittura gaddiana è una meditazione sul carattere effimero e incerto dell’esperienza umana, sulla difficoltà di afferrare una verità stabile e definitiva, sul mistero della continuità personale e storica.

8. Il tragico e il grottesco: due facce della medesima medaglia

Nel panorama della scrittura gaddiana, il tragico e il grottesco non sono contrapposti, ma due aspetti complementari della stessa realtà.

Il tragico emerge come consapevolezza della finitezza umana, della caducità di ogni progetto e illusione, della presenza ineludibile della morte e del dolore. È una tensione che attraversa l’intera narrazione, una presenza costante che dà profondità e gravità all’esperienza raccontata.

Il grottesco, invece, si manifesta attraverso la deformazione, l’esagerazione, la contraddizione paradossale, l’ironia mordace che smaschera le ipocrisie e le illusioni della realtà quotidiana.

Questa doppia dimensione rende la scrittura di Gadda particolarmente viva e inquietante, capace di cogliere la tragicità del vivere senza rinunciare a una distanza critica che apre la strada all’umorismo e alla satira.

Il grottesco è così l’arma con cui il romanziere demolisce i miti consolatori, le certezze ideologiche, le maschere sociali, rivelando la realtà nella sua crudezza e ambiguità.

9. La complessità come rifiuto della semplificazione

La complessità, nella scrittura gaddiana, non è un semplice stile o una scelta estetica, ma un vero e proprio principio filosofico e politico.

Gadda rifiuta la semplificazione, l’abbassamento del pensiero e della lingua a schemi elementari e rassicuranti. Per lui la realtà è fatta di molteplici strati, di conflitti irrisolti, di ambivalenze, di contraddizioni che non possono essere sciolte con facili soluzioni o slogan.

La sua scrittura è un invito a confrontarsi con questa complessità, a non avere paura della difficoltà, della fatica di pensare e di esprimersi in modo articolato e sfaccettato.

È un invito a riconoscere la molteplicità dei punti di vista, a superare le ideologie di posizione per approdare a una forma di pensiero critico e consapevole, capace di accogliere la diversità e l’ambiguità senza rinunciare a un rigore intellettuale profondo.

10. La relazione con la modernità e la tecnica

Un altro aspetto cruciale nell’opera di Gadda è la sua riflessione sulla modernità e sulla tecnica.

Pur essendo un uomo del suo tempo, immerso nella realtà industriale e tecnologica del Novecento, Gadda non è un semplice celebratore del progresso. Egli ne coglie anche gli aspetti alienanti, distruttivi, deumanizzanti.

La tecnica diventa un simbolo di una modernità ambivalente, capace di creare ma anche di distruggere, di liberare ma anche di imprigionare.

La sua scrittura riflette questa ambivalenza attraverso un linguaggio che spesso mescola termini tecnici, scientifici, burocratici con immagini liriche, metafore struggenti, ironia corrosiva.

Questa mescolanza è la cifra stessa della sua opera, il suo modo di rappresentare la complessità del mondo moderno, con tutte le sue contraddizioni e i suoi drammi.

11. La funzione sociale e politica della scrittura

Gadda non si limita a scrivere per sé o per l’arte; la sua scrittura ha una funzione sociale e politica precisa.

Attraverso il suo stile complesso, la sua ironia acuminata, la sua capacità di denunciare l’ipocrisia e l’ingiustizia, Gadda mira a scuotere le coscienze, a smascherare i poteri dominanti, a porre domande scomode sulla verità, sulla responsabilità, sulla libertà.

La sua scrittura diventa così un atto di resistenza contro il conformismo, la mediocrità, la menzogna, un modo per tenere viva la tensione verso un’etica della verità e della giustizia.

12. L’eredità di Gadda e la sua attualità

Infine, non si può chiudere questa riflessione senza considerare l’eredità che Gadda ci ha lasciato e la sua straordinaria attualità.

In un mondo dominato dalla semplificazione mediatica, dalla propaganda, dalla perdita di senso e di profondità, la scrittura gaddiana si pone come una sfida radicale: ci ricorda che pensare e scrivere sono atti difficili, complessi, a volte dolorosi, ma necessari per preservare la nostra umanità.

Ci insegna a non accontentarci delle apparenze, a interrogare sempre il senso profondo delle cose, a non cedere alla tentazione dell’ovvio e del banale.

In questo senso, la sua opera resta un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la scrittura e la lettura come forme di impegno intellettuale e morale, come strumenti per conoscere e trasformare il mondo.

13. L’intrico dei sentimenti: il caos come verità

C’è un punto in cui la lingua, la povera lingua ammaestrata dai grammatici come un cane da circo, si rifiuta di ubbidire. Si sbrana, si sfianca, geme sotto il peso dell’intenzione, e quel che voleva dire, l’autore, no, non esce: o esce storto, marcio, imbastardito dalle convenienze. Gadda questo lo sapeva bene. L’esperienza dell’esprimere è tragedia: ma una tragedia con guizzi di farsa, con lacrime che colano tra le risa, con risa che si strozzano in singhiozzi.

E dunque il caos, l’intrico, il nodo gordiano dei sentimenti, non è un errore, una colpa del pensiero confuso: è la verità stessa. È il mondo che è un gomitolo di fili tagliati, sfilacciati, nodosi, e l’artista – il “galantuomo disgraziato” – tenta, nel buio, con le mani incerte, di trovarne un capo. Ma ogni capo è illusione. Si tira, e l’intera matassa viene giù, in una slavina di frustrazioni, rimorsi, memorie e sputi.

Scrivere, per Gadda, è confessare questa impossibilità. È farla esplodere nella pagina come una granata nel salotto buono della borghesia letteraria: e lasciare che i pezzi colpiscano anche il lettore, anche se stesso. Anzi, soprattutto se stesso.

14. L’io come labirinto e come trappola

Nel mondo gaddiano, l’“io” non è centro, ma moltiplicazione. È un prisma incrinato, è un’eco che rimbalza tra specchi storti. Il soggetto si disfa sotto il peso del proprio pensiero. Non si dà mai del tutto, mai limpido. È un io impastato di altri, di voci, di cadenze familiari, di logorree giudiziarie, di invettive anti-materne, di sarcasmi burocratici.

Gadda non scrive per costruire personaggi: li smonta. Li smembra. Li lascia parlare per sbaglio, per incongruenza. Il commissario Ingravallo, in fondo, non è un uomo: è un fiume lessicale. È un modo di pensare, un inciampo dell’intelligenza su un crimine che non si lascia decifrare perché è già stato assorbito nel caos cosmico.

E in fondo, ogni narrazione non è che un processo interiore: come scriveva lo stesso Gadda nei suoi diari, ogni scrittura è “una confessione mascherata”, “un’autopsia dell’io praticata da sé medesimo su sé stesso col bisturi dell’ironia, della rabbia e dell’impotenza”.

15. Roma, Milano, le città come labirinti morali

I luoghi non fanno da sfondo. Non sono mai mere scenografie. Roma e Milano, nella prosa di Gadda, sono presenze tentacolari, materiche, opprimenti. Le città italiane non sono cartesiane, non si lasciano mappare: sono organismi viventi, putridi, pieni di fogne e di usurai, di beghine e di ufficiali in pensione, di passioni che covano sotto la brace delle cortine borghesi.

Roma, la Roma de Quer pasticciaccio, non è mai classica: è viscosa. È suburbana. È barocca in senso corruttivo: piegata sotto il peso dei secoli, dei papi, delle superstizioni. È una città di madre sempre malata, di cucine, di letti disfatti. Una città troppo umana per essere decifrabile.

Milano, al contrario, è ingranaggio rotto, freddo, città razionale ma nevrotica, capitale di quell’industrialismo fallito in cui l’ordine non porta armonia, ma ulteriore frammentazione.

Gadda non cerca la bellezza nei luoghi. Cerca la verità. E la verità, dice, è sempre scomoda.

16. Il dolore come architettura interiore

A cosa serve il dolore? Questa domanda, mai posta direttamente, echeggia in ogni riga gaddiana. Il dolore, per lui, è ciò che forma: ciò che struttura. Come l’impalcatura di un edificio già in rovina, regge ciò che crolla. Il dolore è la memoria della colpa, e la colpa non è individuale, ma ontologica.

Si nasce colpevoli. Si scrive perché si è colpevoli. Ogni gesto è una vendetta che non si consuma, un perdono che non arriva. E la lingua si gonfia, si accartoccia, si dilania, sotto il peso di questa eredità.

Ogni frase di Gadda è una ferita. Ogni inciso è una cicatrice. Scrivere diventa allora una forma di auto-flagellazione: ma anche l’unico modo per trovare, nel linguaggio, una fragile possibilità di riscatto, una fuga, una redenzione linguistica del dolore.

17. Le lingue del mondo come coro dissonante

Nel suo miscuglio vertiginoso di dialetti, registri, tecnicismi e neologismi, Gadda fa parlare il mondo. Non l’uomo singolo, ma il mondo. È un babele orchestrato.

La lingua non è mai una sola. Non può esserlo. Non deve. Ogni voce porta in sé l’eco di mille altre. Ogni parola è un crocevia.

Nel testo gaddiano, la lingua standard italiana non basta mai. È un’impalcatura inutile. Occorrono le inflessioni regionali, le espressioni popolari, le oscenità ben mirate, le formule liturgiche e quelle idrauliche, il latino maccheronico e il gergo dei tecnici, per dire la realtà. Perché la realtà è polifonica, e chi scrive deve accettare di farsi ventriloquo.

Scrivere come Gadda è perdere l’identità. È lasciar parlare la moltitudine.

18. L’Italia: una commedia già tragica

Gadda è lo scrittore più profondamente italiano perché è il più disperato. Non spera. Non redime. Osserva e dispera.

La sua Italia non è quella dei poeti vati, degli ingegneri del futuro. È un’Italia già fallita. Non “destinata a fallire”: già fallita. Un paese che si muove nel fango dell’ignoranza e dell’arroganza, che ama i santi e ruba la domenica, che finge di rispettare la legge e costruisce ogni norma per aggirarla.

Un’Italia in cui la lingua stessa è un atto d’accusa, un lamento, una sentenza che non trova mai applicazione.

Scrivere questa Italia è un dovere tragico.

19. Gadda contro il romanzo

Forse il suo più grande atto di insubordinazione è proprio questo: aver distrutto il romanzo da dentro. Gadda non racconta storie. Le smonta. Le inceppa. Le fa deflagrare.

Le trame, nei suoi libri, iniziano e si disfano. I personaggi si moltiplicano senza redenzione. Il mistero non si risolve mai. Il crimine resta un sintomo.

In fondo, Gadda ha detto no al romanzo borghese. Quello dove tutto ha un senso, un fine, una morale. Gadda scrive la realtà come è: irrisolta, fallita, in perpetua dissoluzione.

Il suo romanzo è anti-narrativo. È riflessione che si finge racconto. È forma che si autodistrugge mentre si compone.

20. E in fine: il fallimento come unica riuscita

Gadda sapeva che tutto ciò che scriveva era destinato al fallimento. Lo sapeva e insisteva. Perché solo nel fallire, diceva, si rivela la verità dell’opera.

Non la perfezione, ma la crepa. Non l’armonia, ma il grumo.

Il capolavoro, in Gadda, è sempre mancato. E per questo è più necessario di tutti.

21. La lingua come trincea: il combattimento lessicale

Gadda, nella sua lotta intestina con la forma, trasforma ogni parola in una pallottola, ogni virgola in una postazione difensiva. Scrivere è guerra. Una guerra non contro l’Altro – l’Altro è già dentro – ma contro l’impossibilità di dire, contro l’assurdo del mondo che sguscia via da ogni definizione. L’ingegnere della parola non progetta costruzioni stabili: disegna l’instabilità, la precarietà del pensiero che si torce su se stesso. Il paragrafo gaddiano non è un blocco ordinato: è una mina vagante, un campo minato, un sistema in disequilibrio. Eppure proprio in quell’oscillazione, in quella difficoltà, si cela il sublime.

Il sublime dell’ingorgo, del troppo, del troppo detto, del detto che si smonta appena detto. Qui, l’estetica gaddiana si avvicina a quella barocca, ma ne disconosce la serenità teatrale: ne assume solo il delirio. La lingua si fa corpo, corpo torturato, corpo che si contorce per contenere l’incontenibile. E ogni parola, nel suo traboccare di senso, porta con sé un retrogusto di rovina.

22. L’elenco come anatema: l’accumulo come forma di dissenso

Gli elenchi gaddiani non sono mai innocenti. Non servono a ordinare. Sono invettive contro l’ordine. Una sequenza, per Gadda, non è mai progressione: è esplosione. Una lista – di oggetti, di pensieri, di patologie, di vocaboli arcaici – diventa un modo per dire l’impossibilità di scegliere, di separare, di discriminare. Tutto è sullo stesso piano. Tutto preme per essere detto. Tutto invade.

E così l’elenco si gonfia, si deforma, fino a diventare mostruoso. Come nei sogni, in cui ogni cosa si presenta insieme a mille altre, senza logica apparente. E il lettore, travolto, non può che soccombere, o lasciarsi andare alla vertigine. L’elenco gaddiano è un esercizio d’ebbrezza. Ma un’ebbrezza ragionata, calcolata. L’ubriacatura è costruita col rigore dell’ingegnere. Una follia architettonica.

23. La madre come nodo tragico: l’epica del rancore

Se esiste una vera passione gaddiana, essa non è l’amore. È la madre. Ma non la madre idealizzata, salvifica, protettiva. La madre è assenza che incombe. Presenza che giudica. Figura che respira nei corridoi della casa, come un’eco. È la colpa originaria. È il personaggio che non muore mai davvero, anche quando muore. È colei che genera il mondo e al tempo stesso lo condanna.

Gadda non la nomina sempre, ma lei è ovunque. Nelle sue donne, nelle sue invettive, nei suoi rifiuti. La madre è l’origine del linguaggio e della sua frustrazione. È la prima parola e il primo silenzio. È la prima legge e il primo delitto. L’estetica gaddiana è, in fondo, una lunga lettera mai spedita alla madre. Una confessione che si maschera da racconto, da satira, da grido.

24. Ironia e bestemmia: la teologia rovesciata del caos

Non si può parlare di Gadda senza dire della sua bestemmia. Ma non la bestemmia volgare, gratuita: la bestemmia come atto conoscitivo. Come l’ultima forma di preghiera. Gadda bestemmia perché sa. Sa che Dio non ha risposto. Sa che ogni ordine divino è stato profanato. Eppure continua a cercare. Scrivere, per lui, è un modo per evocare il sacro nel suo rovesciamento. Una teologia impazzita.

L’ironia diventa allora l’unica possibilità di sopravvivere. Ma è un’ironia tragica. Un’ironia che sa del proprio fallimento. Che non salva, non consola. Un’ironia senza pubblico, senza risate. L’ironia gaddiana è un urlo strozzato. È la risata di chi ha capito tutto, troppo, e troppo tardi.

25. Epilogo gaddiano: la forma come disfatta

Scrivere come Gadda significa abbandonare ogni speranza di chiarezza. Significa accettare che la forma sia solo un pretesto, una soglia, un preambolo alla disfatta. Ma è proprio in quella disfatta che si dà la verità. La bellezza, se esiste, è nel crollo. La grazia, se appare, è nel caos.

E allora, chiudere in Gadda significa non chiudere affatto. Significa lasciare la pagina come un organismo ancora vivo, ancora pulsante. Una ferita che sanguina e ride. Un’opera che non si compie, perché non deve compiersi. Perché il suo compimento sarebbe la morte, l’oblio, la resa. E Gadda non si è mai arreso. Neanche quando tutto in lui chiedeva di arrendersi.

Scrivere come Gadda è allora, oggi come ieri, un atto di resistenza. Contro il senso facile. Contro la chiarezza perversa. Contro il silenzio complice. Scrivere come Gadda è ancora necessario. Forse l’unico modo per non mentire.


Ah, ma l'infinito, caro il mio lettore, non si dosa con la cucchiara del farmacista né si serve a cucchiaiate dal pentolino del farmacologo morale! L’infinito — perbacco! — è il baratro della mente, è la spirale centrifuga della parola, è il giramento eterno della ruota del linguaggio, quel torchio che pigia l’uva del senso fino a farne mosto d’assenzio o vino di verità. E dunque proseguiamo, ché se si scrive per finire non è letteratura, ma atto notarile.

Proseguiamo allora nella spirale, oh sì, nella spirale logorroico-cosmica gaddiana, ché la sua penna, più che piuma, era stiletto, o canna di bambù intinta nel fiele dell’osservazione. In lui — va detto — la lingua non è mai mezzo ma fine, e fine è la parola stessa che, compiacendosi di sé, si smargina, si prolunga, si flette, si raggomitola come anguilla iperletterata in un catino lessicale. E in tal modo essa accende l’estetica di un baluginare allucinato, in cui il mondo non è più rappresentato, ma rigurgitato. Oh, perché in Gadda nulla è dato liscio o mondato — neppure un pensierino sull’anima — ché la realtà si presenta coagulata, rugosa, sordida come una ferita che non cicatrizza, e la sintassi si fa coltre, cerotto, garza suppurante del detto e del non detto.

E allora, quando nella sua officina lessicale Gadda inciampa sul termine più ovvio, non lo scansa: lo scortica, lo palpa, lo capovolge, lo disarticola con la precisione nevrotica del chirurgo della verità. «Zebedia», «Cesira», «pitta-unghie»! Ma che diamine, questi non sono personaggi: sono le estroflessioni verbali della borghesia della sciocchezza, del sottoproletariato della parola. E con loro, si badi, Gadda non dialoga: li mima, li sputacchia, li sbocca, li rigurgita. Perché il vero scrittore — e lui lo sapeva — non deve convincere il lettore: deve svergognarlo.

Ah ma, non si scambi questa esplosione verbale per confusione. Ogni rigo di Gadda è disarmonia pensata, è polifonia sorvegliata, è contrappunto di una partitura impazzita solo all’apparenza. Lì dove la lingua deraglia, è la mente che orchestra. Dove il lemma si piega, è il concetto che si espande. E ciò che pare refuso è in realtà grido. Egli sa bene, oh se lo sa, che la bellezza non è pettinata. La bellezza — quella vera — ha i capelli nei denti, ha le dita unte di metafora, ha la lingua biforcuta come i serpenti della verità bifronte. Gadda, insomma, è l’anti-pulizia per eccellenza, è l’artista della macchia, del nodo, dell’incrostazione semantica.

E si badi: non è solo stile. È visione. È metafisica del sudicio. È ontologia del guasto. Gadda non inventa un mondo: lo spalanca. Non lo ordina: lo frantuma. E in questo c’è tutto il tragico riso del moderno, il pianto isterico dell’intelligenza quando si scopre impotente. In lui il pensiero non salva, l’analisi non redime, la parola non guarisce. Ma almeno — sì, almeno — lo schifo ha voce.

Ma lasciamo ora che l’olio febbrile dell’intelligenza coli lento, a goccia, su questa crepa del tempo e dell’essere, che ci si è aperta davanti come la bocca, un po’ cisposa e non priva di stizza, della Verità: ché se Gadda scrive, e scrive come scrive, è perché la materia del mondo non si dà mai nella sua semplicità, non è mai merce di banco, liscia e vendibile; essa si acciambella, si contorce, si nasconde in anfratti labirintici che solo una lingua febbricitante, in atto di trasmutazione continua, può tentare di lambire.

Il labirinto è un fatto: la coscienza è un groviglio, il mondo un viluppo. Questa è, si potrebbe dire, la sua visione filosofica: e non una filosofia da manuale universitario, ma una ontologia sperimentale, fatta di casi e di casi clinici, di osservazioni che gocciolano da giornali, cartoline, bollette della luce, salme nella camera ardente, palazzine di viale Argonne, gerarchi, ubbie e apparizioni. Nessun atto di scrittura per Gadda è neutro, né tanto meno “trasparente”: essa è materia e lavoro, è carne e sangue, è scontro e tortura, è atto meccanico e atto mistico insieme.

La pagina, in Gadda, non rappresenta mai il mondo: lo inghiotte. E lo risputa, masticato e febbrile, sotto forma di flusso impuro, dove la sintassi si fa delirio e i sostantivi si aggrumano con la stessa ambiguità di certi sogni. Il «puro narrare» che egli dichiara è un’epifania che nasce dalla decomposizione del reale, un realismo visionario, dislocato, in cui il vero si dà solo nella sua molteplicità, e la coerenza non è mai lineare ma centrifuga, obliqua, carica di stridori.

In questo, Gadda è, paradossalmente, un moralista: ma del tipo che non crede alle morali precotte. Nessuna buona causa, nessuna lingua dell’uso-Cesira può redimere davvero il mondo. L’unica verità possibile è quella che si guadagna, a caro prezzo, nella carne della lingua: quella che, come scrive lui stesso, serve per il riscatto e per la vendetta. Vendetta contro chi? Contro l’oppressione della stupidità, del dolore insensato, dell’incomprensione, del destino che spara proiettili senza ragione.

Ma Gadda non è Kafka, non è Beckett, non è l’eroe del nonsenso: il suo nonsenso è eccesso di senso, traboccamento. Il suo delirio è una forma estrema di precisione. Visione, appunto: non rinuncia all’intelligenza, ma anzi la eccita, la esaspera, la incita a scavare più a fondo. Il linguaggio gaddiano è visionario perché moltiplica, perché non dice ma convoca, non afferma ma evoca: e in ciò, è già racconto, perché apre spazio, spalanca prospettive, crea tensioni narrative anche dove sembra solo sbertucciare.

Ecco dunque che la narrazione diventa un campo di lotta, un luogo esistenziale e filosofico, dove il mondo, per essere pensato, deve prima essere scomposto e ritessuto. Il male, quell’atomo opaco, non si combatte con i buoni sentimenti, ma con un esercizio di precisione impura: la frase gaddiana lavora come un bisturi, ma impugnato da un chirurgo che è anche indemoniato. Il pensiero, qui, si fa corpo: e il corpo non è mai puro, mai semplice. L’anima, dice Gadda, si avvicina alla serenità solo quando si avvicina alla morte: ma è una serenità che ha dovuto attraversare la bischeraggine indecifrabile dell’umano.

Allora, in una visione pienamente contemporanea, Gadda ci appare come il testimone di una verità che non è mai data, ma solo perseguita. La sua opera, come un oracolo distorto, ci dice che non c’è forma che non sia già contaminata, non c’è parola che non porti con sé l’eco delle sue origini infami, le sue macchie, le sue voglie, i suoi buchi neri. Eppure, proprio per questo, proprio per questo fango, ogni parola è preziosa. Ogni costruzione di senso, anche la più strampalata, è un atto di resistenza.

Chi scrive oggi — oggi, nell’epoca della performance, della comunicazione rapida, dei contenuti che evaporano — dovrebbe inginocchiarsi davanti alla bestia gaddiana, e imparare. Imparare che ogni parola pesa, che ogni frase ha dentro di sé una tensione storica e personale, una posizione (ideologica, affettiva, sociale) che la plasma. Mannheim lo diceva in modo concettuale: la posizione sociale determina la coscienza. Gadda lo dice con il ruggito della sua lingua scorticata: sei ortolano? allora penserai come un ortolano, maledizione! E se provi a pensare come un re, lo farai sempre con il timbro nasale dell’ortolano. Ma, forse, se scrivi, qualcosa può scartare.

Siamo dunque nel campo di una fenomenologia della scrittura come esperienza integrale, in cui la lingua è il teatro dell’Io, ma anche della sua crisi. Gadda non vuole esprimere sé stesso, non è un autore del confessionale: vuole attraversare sé stesso, e farlo con tutti i mezzi possibili, anche a costo di ridursi in brandelli linguistici. La sua narrazione, narrando, si frantuma: ma proprio così ci restituisce la sostanza molteplice e drammatica dell’esistenza.

C’è dunque in lui una modernità feroce, una contemporaneità assoluta. Il suo è un pensiero narrante, una filosofia incarnata, una fenomenologia del tragico in forma di groviglio. E da questo groviglio, lo sappiamo, non si esce: si può solo abitarlo, esplorarlo, restituirlo con amore e con ferocia, con compassione e con stile.

E in questo, Gadda è davvero esplosivo. Un’autobomba di senso, che salta in aria a ogni paragrafo, che dissemina schegge ovunque, e che, mentre devasta, costruisce: perché ogni sua distruzione è, in realtà, un atto di fiducia nella possibilità, infinitesimale ma presente, di una parola che non sia del tutto falsa.

Così si chiude — o meglio: così si apre — il discorso su Gadda. Come un varco. Come una ferita. Come una risata che non consola, ma chiama.

Eppure, là dove l’intrico del pensiero sembra scadere in un’esuberanza lessicale, dove la frase gaddiana si fa nido di vespe del significato e insieme aculeo di contraddizione, ecco che si apre un’altra via: quella del sintomo. La scrittura di Gadda come sintomo: gesto involontario dell’inconscio, automatismo creativo che lacera la superficie del discorso per mostrare l’impronunciabile. E allora la psicanalisi — con le sue care nevrosi e le sue isterie parlate, con la sua ossessione per il lapsus, lo slittamento, la coazione a ripetere — non può che chinarsi sul testo gaddiano come sul corpo di un paziente che racconta sempre troppo, che non sa dire senza tradire, e che proprio nel suo raccontare produce l’eccedenza, il residuo non analizzabile, il groviglio.

Non è forse vero che la lingua di Gadda esplode, nel punto esatto in cui si chiede alla letteratura di garantire trasparenza e verità? Lui, no. Lui, che conosce lo scacco del senso, erige una torre di Babele con i materiali residui dell’ideologia, con le scorie del linguaggio tecnico, i mozziconi di dialetto, le supposte dell’Accademia, gli scampoli da sacrestia, le bestemmie sottovoce del contadino, i capricci dell’ingegnere in disarmo. È una scrittura che brulica, che fermenta, che suda e si smaglia. Non esiste un punto fermo nel suo italiano, perché l’italiano di Gadda non è una lingua: è una sindrome.

Nella modernità liquida, come direbbe Bauman, dove ogni cosa fluisce senza peso e le parole sono sempre più magre, precarie, anemiche, leggere fino all’evanescenza, l’opera gaddiana resta un monumento irregolare alla pesantezza, alla densità, all’irrimediabile. In un’epoca che aborre la complessità e celebra la velocità, la chiarezza, la semplificazione algoritmica, Gadda continua a opporre l’impenetrabilità dell’animo umano, il caos del reale, la vertigine dell’indecidibile.

È in questo senso che si rende oggi necessario rileggerlo: non come un virtuoso del barocco, un prestigiatore del grottesco, ma come un pensatore radicale della crisi del senso, un diagnostico della parola nella sua agonia e nel suo disperato bisogno di verità. In Gadda, la parola non consola, non ricuce, non conforta: grida. E grida nel punto esatto in cui la realtà si fa insopportabile, ingiusta, oscena.

Da qui la potenza politica (sì, politica) di un’arte che rifiuta ogni «buona causa», ogni linearità, ogni pedagogia. La lingua non redime, ma contamina. Il racconto non semplifica, ma incalza. La sintassi non ordina, ma dimena, rifiuta il giogo della coerenza. E nel tempo dei social e del copywriting, del brand tone of voice e delle narrazioni virali, leggere Gadda significa disertare: significa scegliere lo scarto, il rifiuto, la disfunzione.

La forma più estrema di ribellione oggi non è l’urlo, né la denuncia. È l’ambiguità. È il non dire, o meglio il dire troppissimo. Gadda ci insegna il valore della sovrabbondanza, del gesto che si nega mentre si compie, dell’identità che si sdoppia in commedia, tragedia, farsa. Le sue costruzioni linguistiche sono zone di guerra: non tra bene e male, ma tra la lingua e se stessa, tra la frase e la sua intenzione. La sua narrazione è un campo minato in cui il lettore non trova mai pace, ma è costretto a domandarsi a ogni riga: da dove viene questa voce? Chi parla? E per chi?

E allora, forse, oggi Gadda ci serve come non mai: per resistere. Per pensare. Per non arrenderci alla banalità del racconto lineare, del pensiero chiaro, del significato trasparente. Per ricordarci che la verità, se c’è, ha il volto orrido e deforme del male, dell’assurdo, del dolore senza scampo. E che l’unica scrittura onesta è quella che non finge di ignorarlo.

Per questo — sì, proprio per questo — continueremo a leggerlo. E a non capirlo del tutto. Ma lo sentiremo, come si sente un canto strozzato, un riso che si fa pianto, o un’imprecazione detta sotto voce. Come una verità che brucia e non consola.

E tuttavia, nell’intreccio inestricabile tra simbolico e reale, tra voce e linguaggio, tra storia e fobia, la scrittura gaddiana si presenta come una mappa fitta d’inconscio e di potere, di miseria e di desiderio: una sorta di periscopio nevrotico da cui sbirciare l’irrappresentabile, quell’«atomo opaco del Male» che Freud avrebbe forse collocato all’incrocio tra pulsione di morte e rimozione del trauma, e che Gadda invece incide con la punta acuminata della stilografica fino a far sanguinare le lettere stesse. Perché in Gadda — e lo sa chi lo ha letto con il cuore spaccato e la lingua tremante — lo stile è un trauma che ha preso parola. La lingua è la cicatrice del pensiero. Ogni aggettivo, ogni inciso, ogni doppio o triplo sprofondamento sintattico è lo sforzo immane e quasi sacrilego di dire ciò che non si può dire: la colpa, la vergogna, il desiderio, l’Italia.

L’Italia, già. Ma non quella dei manuali ministeriali, bensì quella che si rigira come un’anguilla nelle fessure della realtà, col suo umore giallastro di impunità e superstizione, di pettegolezzo e retorica, di servilismo e finta misericordia. Quella che Gadda ha intuito e sputato con furia da impiegato mistico, da ingegnere della lingua in bilico tra il codice penale e la confessione del peccatore. Il suo è un crinale tragico-politico, un punto di non ritorno dove l’anima si scopre agente e paziente insieme del disastro. Gadda è lo scrivano di una nazione che non riesce a essere adulta: lo dice col furore comico di Arlecchino e la rabbia impotente di Prometeo.

Simbolicamente, allora, Gadda scrive da una condizione liminale: quella dell’epilettico morale, del martire per conoscenza, dello scrivente che sa troppo e che per questo sanguina. La sua punteggiatura isterica, il lessico che s’intorcina fino a farsi caricatura, le infiltrazioni di lingue e dialetti, l’ossessione per la forma più che per la trama — tutto concorre a una dichiarazione stilistica che è anche metafisica: il mondo è impuro e merita una lingua impura. Una lingua che tradisca l’ordine per rivelare il caos.

E se la psicanalisi freudiana e poi lacaniana ci ha insegnato che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, Gadda pare suggerire che anche l’Italia, questa grande nevrosi collettiva, è strutturata come un racconto che si rifiuta di essere lineare. Il trauma storico si annida nella frase, la rimozione nella subordinata, la colpa nel participio passato che inciampa in sé. Ma attenzione: non c’è compiacimento in questa vertigine. Piuttosto una disperata esigenza di verità. Una verità che non può che farsi polifonica, balbettante, nevrotica.

Sul piano politico, allora, Gadda è lo smascheratore. Non si tratta solo di denunciare — operazione facile, spesso sterile — ma di intossicarsi fino al midollo della menzogna collettiva per poterla espellere in un gesto estremo di scrittura: una catarsi tutta intellettuale, un vomito metafisico, un’orgia del senso in cui il ridicolo convive con l’orrore. Il potere viene smascherato nei suoi tic linguistici, nei suoi eccessi di semplificazione, nelle sue liturgie amministrative. La borghesia, il fascismo, la religione, l’ideologia della famiglia, il culto della rispettabilità: tutto viene sciolto nell’acido della lingua. Ma a parlare non è un profeta: è un io lacerato, un io che ha bisogno della maschera per non morire della propria sincerità.

E qui il discorso si fa personale. Perché Gadda — come Pasolini, come Artaud (come me) — scrive anche per non impazzire. Scrive per vendicarsi. Scrive per non sparare. Lo dice lui stesso, in quelle righe de I viaggi la morte dove l’arma è la narrazione, e la vendetta è la verità dello stile. Chi scrive, scrive sempre contro: contro l’oblio, contro la ferita, contro l’ingiustizia, contro la madre morta, contro il padre padrone, contro Dio, se serve. Ma Gadda lo fa con l’intelligenza che sa farsi carne, con la carne che si fa parodia, con la parodia che si fa stile, con lo stile che si fa martirio. E allora sì, forse Gadda è un santo laico, un santone eretico, un flagellante del verbo. Uno che ha scelto di soffrire per scrivere e di scrivere per non uccidere.

L’attualità di tutto questo è impressionante. Nel tempo del politicamente corretto usato come deodorante per l’anima, nel tempo della narrazione piatta e seriale, della lingua standardizzata da algoritmi e SEO, Gadda è una bestemmia necessaria. Un pugno nel sonno digitale. Una febbre. Un’epica del disadattamento. Una memoria radioattiva. Lo scrittore contemporaneo — se vuole davvero essere tale — non può non fare i conti con questa eredità inquinante, con questa catena montuosa di dolori stilizzati e di ironie sulfuree. Ogni frase gaddiana è una mina sotto i binari del senso comune. Ogni pagina, una protesta metafisica contro l’inanità dell’omologazione.

E allora si può concludere, forse, che Gadda non è stato solo un narratore. Ma un evento psichico. Una possessione. Un esorcismo. Un contagio. La sua scrittura non si studia: si contrae. Non si spiega: si patisce. Non si cita: si traduce nel delirio personale di chi osa fargli eco. E proprio per questo è più vivo che mai: perché ci obbliga, ancora oggi, a dire la verità col nostro peggior stile. A scrivere come se ci bruciasse qualcosa dentro. A parlare come se fossimo finalmente liberi di bestemmiare in poesia.


Ora, la parola si biforca e si moltiplica, come in una notte di nodo gordiano e paradosso della verità: proseguire significa espandere il campo, deviare i tracciati, imboccare cunicoli mai illuminati, lasciar parlare il reticolo simbolico che si tesse tra Gadda e la psicanalisi, tra la sua sintassi digressiva e i flussi dell’inconscio, tra l’ossessione del dettaglio e il lapsus, tra la parola-ramo e il sogno come errore sublime della realtà:

I. Gadda e la psicanalisi: l’io fessurato e il corpo scrivente

Nel corpo del testo gaddiano c'è un rimosso che non tace mai del tutto: una voce incrinata, disfagica, incapace di governarsi e di rientrare nelle cornici. Il sintomo — diceva Lacan — è ciò che ritorna nel reale, ciò che insiste nel linguaggio e deforma ogni significato. La scrittura di Gadda non è che sintomo magnificato, manifestazione grafomane di un io che non riesce a dimenticare, che lavora senza tregua il trauma dell’essere nel linguaggio.

Lo stile gaddiano, nell’irregolarità e nell’addensarsi di registri, si pone come il luogo della pulsione, del corpo che scrive, dell’inconscio che si affaccia, sobilla, si camuffa. Non c’è “io” unificato che possa raccontare la “verità” di un evento: ci sono voci, ci sono impasti di memoria e furia, di dialetti e teologismi, di merda e incenso. La lingua di Gadda è l’inconscio in azione, è il reale freudiano che perfora la superficie dell’immaginario e dello “stile ben temperato”.

Nelle sue architetture sintattiche, c’è l’ossessione della causa, ma anche il riconoscimento che la causa — come nella clinica psicoanalitica — è sempre spostata, rimandata, e che il “colpevole” (della nevrosi, del delitto, del dolore) non è mai dove lo si cerca. È la coazione a ripetere della forma-romanza a sabotare l’aspettativa del lettore, come il paziente che torna ogni seduta a parlare dello stesso nulla che si credeva sepolto.

II. Eredità nella narrativa contemporanea: il figlio bastardo di Gadda

Non si può scrivere oggi — non si può narrare l’orrore o l’ingiustizia, il corpo o la città — senza passare dalla scucitura gaddiana. Scrittori come Elsa Morante, Vincenzo Consolo, Fabrizia Ramondino, Antonio Moresco, Walter Siti e persino alcuni esperimenti della “nuova epica italiana” devono qualcosa alla sua furia lessicale, alla sua necessità di spaccare la sintassi come una geologia del trauma.

Ogni volta che un romanzo si rifiuta di chiudersi, ogni volta che una voce narrante inciampa in sé stessa, quando la lingua prende fuoco e non cede al compromesso della trasparenza — lì c’è un’eco gaddiana, un’eredità maledetta. Ma non si tratta di emulazione: l’eredità di Gadda non è stilema, ma postura. È un etico rifiuto della “bella forma” come maschera borghese. È l’idea che la lingua debba caricarsi della tensione del mondo, non smorzarla. È, in definitiva, l’assunzione tragica del reale.

In autori come Testori, che declina la carne fino al furore sacrificale, o Arbasino, che fa della digressione un’arte e del barocco un’arma, si ritrovano i segni della lezione gaddiana. Ma anche nei narratori che frantumano la narrazione per mostrare la macchina del racconto — da Manganelli a Volponi, da Celati fino a certi Cacciatori di Narcisi postmoderni — la furia gaddiana si ripresenta come nevrosi benefica della forma.

III. La forma-romanzo come sismografo dell’irriducibile

Per Gadda, il romanzo non è mai solo una “forma”, ma un campo di battaglia. Non è l’arco classico di inizio-sviluppo-fine, ma una rete, un pasticcio (nel senso alto e culinario del termine), un rovello dell’informe che si tenta, invano, di contenere. Il romanzo è lo specchio tragico di una realtà indecidibile.

La forma-romanzo, così, diventa una sfida alla linearità dell’ideologia, un sabotaggio della coerenza come dogma. In questo senso, Gadda è più moderno del moderno, più postmoderno del postmoderno: anticipa la crisi del soggetto, la fine della causalità lineare, l’esplosione della sintassi come territorio politico.

Per questo, ogni tentativo di scrivere un romanzo “perfetto” oggi è un atto reazionario. Ogni romanzo che si chiude su sé stesso senza esplodere, senza sbavare, è una menzogna. Gadda ci dice che il romanzo vero è quello che non si conclude, che resta aperto come una ferita o un orifizio. La forma, per lui, è un campo minato: il lettore deve inciampare.

IV. Verso altri registri: il barocco come rivolta, il comico come dissacrazione

Lo stile gaddiano non è soltanto oscuro, denso, filosofico. È anche profondamente comico. Ma si tratta di un comico barocco, mostruoso, che sbeffeggia la razionalità e rovescia ogni gerarchia del sapere. Il comico di Gadda è quello di Rabelais e di Céline, è la risata che scardina il potere, che deforma i volti e i corpi.

Il barocco gaddiano è un atto politico. È un modo per dire che la bellezza non sta nella simmetria, ma nella proliferazione. È un’arte della deviazione: ogni frase tende a scappare, a eccedere il proprio senso. È una semantica del rigetto: il significato non si lascia mai catturare.

E qui, il linguaggio diventa corpo, il corpo diventa scena, la scena diventa sogno: in una vertigine dove la narrazione non è più narrare un fatto, ma mostrarne l’impossibilità. È l’idea, alla fine, che la scrittura debba fallire bene. Non riuscire a spiegare tutto è la condizione ontologica dell’arte.

V. L’attualità di Gadda: dismisura e lotta

Oggi, in un’epoca di comunicazione piatta e storytelling anestetico, la voce di Gadda è più che mai necessaria. In un mondo dove si premiano i romanzi “di successo”, lineari, buoni, pacificati, la scrittura gaddiana è una bastonata in faccia. È un gesto di rivolta contro la lingua del potere, contro le retoriche pubblicitarie e le buone cause precotte.

Leggere Gadda oggi è un atto sovversivo. È un modo per ricordarci che il dolore non si risolve in narrazioni edificanti. Che la giustizia non è una morale, ma un abisso. Che l’individuo è una pluralità contraddittoria e che il male — quel famigerato “atomo opaco” — non può essere espulso dal discorso senza falsificare tutto il resto.

La sua lezione è dunque politica: ci invita a scrivere — e a vivere — senza cedere alla semplificazione. A riconoscere la complessità come valore, e la dismisura come condizione.

VI. Gadda come postura dell’esistenza

Più che uno scrittore, Gadda è una postura, un’epistemologia del vivere. È l’idea che l’intelligenza non basti, ma che debba essere messa in crisi. Che la ragione debba contaminarsi con il sentimento, il lirico con il meccanico, il sublime con lo scatologico.

Scrivere come Gadda non significa imitarlo, ma assumere la sua sfida: non lasciare che la lingua si acquieti, che il senso si irrigidisca, che la forma si perfezioni.

La vera fedeltà a Gadda è il tradimento creativo: far esplodere la lingua ogni volta di nuovo.


Aggiunta al testo:

Nel pantano delle lingue: Gadda e Joyce, o dell’estetica dell’osceno, del letame e della punteggiatura incarnata

Qual è il punto di fusione, l’apice dell’oscillazione, tra le due più oscene impalcature dell’Europa letteraria? Una, in tweed e sbronza dublinese, che scrive "yes I said yes I will Yes" con la testarda intensità di chi vuole fare della congiunzione un coito; l’altra, milanese e idrofoba, che scarnifica le strutture della frase come un macellaio iniziato al rito della peste. Joyce e Gadda: coppia disfunzionale della modernità, flagello delle accademie, oscenità linguistica fatta carne, sudore, bava. E punteggiatura.

Il punto e virgola in Gadda è sudore del pensiero; è la virgola a intorbidare la retina, a fare l’effetto di uno sputo. La parentesi (è lì per non dire) mima il cervello che riflette, che si autointerrompe, come la voce del pensiero tra cuscini e foruncoli. Joyce, al contrario, frantuma ogni punteggiatura nel suo "Finnegans Wake": lì la carne dell’idioma si scioglie, trasmuta in un fiume anale, orale, preverbale, dove il segno non è più regola ma liquame, mormorio, "riverrun".

Entrambi, in questo senso, riscrivono non solo la lingua, ma il corpo della lingua. E il corpo del linguaggio — pulsante, ribollente, febbrile — è la vera oscenità. Niente pornografia nel senso da rotocalco. No: la loro oscenità è quella delle viscere, dell’encefalo che puzza, della semantica che si contorce come uno stomaco ulcerato. Gadda lo sapeva: la lingua non è serva, è un’epidemia. Joyce lo praticava: la lingua come sesso, lingua come sogno febbrile, come scatologia che si sublima in stile.

La porcilaia è la forma-mondo. Ed è in questa porcilaia che la letteratura occidentale, se onesta, deve gettarsi: non descriverla da lontano, ma affondarvi dentro con tutto il lessico, con tutti i dialetti e le cacofonie, con la sintassi disarticolata del vivere. Se Joyce scava nel mito fino a farlo decomporre (Ulisse come spazzatura archetipica), Gadda è il becchino della cronaca, colui che impasta il lutto con la parodia. Entrambi sanno che il corpo della letteratura non può che essere "troppo".

Troppo grasso. Troppo lungo. Troppo contraddittorio. Troppo vero. Troppo troppo.

E allora esplodono le frasi: mai un periodo che stia tranquillo, mai una proposizione che non venga disturbata da un inciso, da un’interiezione, da un’avvertenza carnale. È lo stile come forma del delirio — ma anche come resistenza. Il troppo è la loro morale.

Corpo e punteggiatura, carne e sintassi: lì si apre un nuovo campo di battaglia. Il punto fermo è autoritario, ma Gadda lo inghiotte nel suo flusso. Joyce lo elimina. Chi vince? Nessuno. Solo il linguaggio, come la peste, come l’ano, come l’inconscio, sopravvive. E oggi?

Nella narrativa contemporanea che ha ereditato questo doppio sputo — gaddiano e joyciano — si aggirano spettri: la scrittura che si vorrebbe limpida, netta, tutta etica della chiarezza, combatte con un rimosso: la pulsione opaca, la voce intraducibile, il frammento intestinale che ancora si agita tra le pagine.

Non tutto è perduto, dunque. Gadda e Joyce, nella loro folle bellezza, ci consegnano ancora una missione: tradurre l’osceno in forma. O meglio: riconoscere che la forma è sempre già oscena.

Il corpo della lingua, o la lingua del corpo: Gadda e la performatività post-strutturalista

Non si può più rimandare: l’irruzione della performatività della lingua, nella sua versione più destrutturata e barocca, ci obbliga a incastonare Gadda nella genealogia di un pensiero che ha già rotto le dighe della referenza, della trasparenza del linguaggio, e ha infuso alla scrittura quell’eccesso semiotico che si fa gesto, sintomo, psicosomatismo. La lingua gaddiana si muove come un corpo scosso da convulsioni retoriche, che non più "dice" qualcosa ma è essa stessa qualcosa, teatro dell’osceno, carne del pensiero, secrezione del rimosso.

Gadda non è lontano da Derrida, né da Barthes, né da Kristeva o da Artaud, con i quali condivide una vertiginosa consapevolezza dell’inadeguatezza del logos lineare, dell’io cartesiano, della narrazione razionale. Anzi, l’oscillazione dei registri, il cortocircuito tra i piani del discorso, la contaminazione del sublime con il triviale, sono già strategie di una semiotica sovversiva che smonta l’architettura del senso.

Gadda scrive contro l’idea che esista una verità da enunciare. Ogni frase è una messa in scena, ogni proposizione è già l’impronta di una lotta interna, di un conflitto di discorsi. Si pensi, per esempio, alla capacità del gaddismo di scivolare tra i registri, dalla lirica alla terminologia scientifica, dall’idioma regionale al latino maccheronico, mimando la crisi dell’unità del soggetto e della sua possibilità di parlare "seriamente". In lui, la lingua è teatro e carne: performa le sue patologie, i suoi traumi, i suoi sogni di grandezza.

Come Butler rivendica la performatività del genere, così Gadda mette in scena la performatività del senso, della sintassi, della coscienza stessa. Ogni proposizione è una maschera, una finzione, una pratica. L’io narrante è già plurale, storpiato, invaso da parassiti semiotici. La frase non serve a comunicare, ma a mostrarsi come corpo che fallisce e sbava. Gadda anticipa questa visione con un’intuizione puramente stilistica: la frase non si chiude, si riapre, si allunga, si contrae come intestini sotto spasmo. La punteggiatura è un diaframma, una valvola, un orifizio attraverso il quale esce non la "verità" ma la sostanza digestiva del linguaggio.

Ecco allora che l’analogia tra corpo e punteggiatura non è metafora: è semiotica incarnata. Il punto e virgola è un respiro trattenuto, la parentesi un ano che si schiude, il trattino un’incrinatura psichica, la virgola una bava, il punto una chiusura anale. In Joyce, tutto questo si manifesta come flusso senza argini (il Penelope), in Gadda come contrazione eccessiva, rigetto, ipercontrollo isterico. Entrambi però scrivono il corpo nella lingua: non parlano del corpo, ma attraverso di esso, come se la sintassi fosse già psicosi, come se ogni proposizione tradisse un trauma.

L’eredità post-strutturalista di Gadda si manifesta così non tanto nei suoi contenuti, ma nella sua pratica scritturale: nella sua guerra alla trasparenza, nella proliferazione del segno, nella moltiplicazione delle voci e degli stili. Gadda, come Joyce, non crede nella rappresentazione, ma nella reinvenzione del linguaggio come labirinto corporeo, come organismo polifonico. La punteggiatura, quindi, diventa organo sessuale, cicatrice, vomito. È il luogo in cui la lingua si piega alla carne, in cui la mente si lacera nella voce.

In questa prospettiva, la lingua di Gadda è un corpo affetto da isteria: lingua-isterica, direbbe Barthes. Una lingua che non vuole guarire, ma esibire la ferita. Ed è in questa ferita che si nasconde la potenza più radicale della letteratura, quella che destabilizza ogni narrazione lineare del soggetto.

Gadda ci lascia in eredità un corpus linguistico impossibile da normalizzare: un corpo di frasi ingovernabili, mostruose, che gridano l’osceno di ogni identità, di ogni pensiero coerente. L’eredità gaddiana, dunque, non è solo stilistica ma ontologica: una nuova visione del soggetto, del corpo, del linguaggio. Ed è in questa visione che la scrittura ritrova la sua funzione primigenia: essere carne, essere trauma, essere voce.

La carne della punteggiatura: anatomia sintattica tra Gadda e Joyce

Se dovessimo compiere un’autopsia della lingua letteraria novecentesca, troveremmo disseminate, come frammenti ossei e cartilagini staccate, le schegge di una punteggiatura impazzita, fuori norma, carnale. In Joyce come in Gadda, i segni d’interpunzione non sono più segnali stradali della grammatica, ma organi: pulsano, espellono, recalcitrano. Sono il luogo dove la scrittura incontra la fisiologia, dove il linguaggio si disfa nel corpo.

Ne “La cognizione del dolore” come nell’“Ulisse”, l’interpunzione non ordina il senso, ma ne rivela le crisi: il punto e virgola non collega, scolla; la virgola diluisce, annebbia; il trattino divide senza mediare. La scrittura è lacerazione. In Joyce, la scomparsa della punteggiatura nel monologo di Molly Bloom è gesto di liberazione, esibizione di un pensiero che si emancipa dalla coercizione sintattica. In Gadda, al contrario, l’eccesso di punteggiatura è una nevrosi, una lotta contro l’entropia: si scrive per non collassare.

La punteggiatura, in questo senso, diventa sintomo psichico: luogo dove si registrano le turbe del soggetto. Come Freud legge i lapsus, così possiamo leggere l’uso gaddiano della virgola come tic nervoso, l’accumulo di parentesi come pulsione a trattenere, a ritardare il senso, a moltiplicare le deviazioni. Il corpo nella punteggiatura è corpo isterico, contratto, trattenuto, prigioniero di una costipazione semiotica.

Ma anche qui l’interpunzione non è più segno servile del contenuto: è forma del contenuto, è parte del messaggio. Nei due autori, diventa performativa: non serve il pensiero, lo genera. Il trattino gaddiano crea un pensiero, una rottura, una sospensione; non è un accessorio, è un bisturi. Allo stesso modo, i punti di sospensione joyciani sono vertigini cognitive, precipizi interiori, non pause.

Ecco allora che in entrambi si compie una rivoluzione semiotica: la lingua diventa organismo instabile, la sintassi si fa carne, la punteggiatura organo. La pagina letteraria è tavolo operatorio, dove l’autore disseziona le sue ossessioni e ne estrae brandelli sintattici. Gadda ha inventato la frase come torsione intestinale: ogni proposizione è una colica. Joyce ha inventato la frase come orgasmo infinito: ogni parola è una contrazione.

Così la punteggiatura diventa anche erotica: è il luogo in cui il senso geme, defluisce, trattiene, eiacula. La parentesi è il labbro vaginale del discorso; il punto esclamativo è l’erezione; i punti di sospensione sono orgasmi mancati. Gadda e Joyce, ognuno a modo suo, riscrivono il corpo nella pagina: non scrivono del corpo, lo performano.

In questa epoca di neolingua algoritmica, in cui la punteggiatura è ridotta a emoji o a comando di formattazione, la loro opera ci ricorda che il segno non è mai neutro. È organo, gesto, sintomo. E che ogni scrittura è anche anatomia patologica della voce.

Nel laboratorio alchemico di Carlo Emilio Gadda, la lingua non è un semplice strumento espressivo, ma una materia viva, contratta, irrequieta, che s’infittisce e contorce sotto la pressione del pensiero. È un organismo autonomo, capace di produrre senso al di là dell’intenzione dell’autore. La sua lingua è centrifuga e implosiva: centrifuga perché si apre a inserti dialettali, arcaismi, latinismi, francesismi, tecnicismi, neologismi; implosiva perché continuamente si ripiega su di sé, si smonta, si sabota, si commenta.

Gadda è un anticipatore della semiotica post-strutturalista: la sua scrittura mostra come il linguaggio non rispecchi il reale ma lo generi, lo distorca, lo interpreti. Ogni frase gaddiana è un campo di battaglia tra il dire e il non dire, tra la volontà di comunicare e l’impulso all’oscuramento. La pagina diventa teatro di una lotta tra l’unità della comunicazione e la molteplicità polifonica del significante.

Gadda è un filosofo in trincea: non costruisce sistemi, li disfa. Non elabora teorie, le scompone con la furia di chi ha visto troppo. La sua ontologia è tragica: il mondo è una fossa comune di inganni, di sofferenze, di casualità inestricabili. La colpa, il male, l’errore sono inscritti nella trama stessa dell’essere. Ma è proprio nel rifiuto della conciliazione che la sua scrittura si fa pensiero: una resistenza epistemologica alla riduzione, alla linearità, alla pacificazione dell’ordine.

Non si può pensare Gadda senza chiamare in causa il barocco, non quello decorativo ma quello metafisico: come Leibniz, Gadda vede il mondo come un groviglio di monadi, ognuna chiusa in se stessa, inconsapevole dell’altra. Ma, a differenza del razionalismo leibniziano, in Gadda non c’è armonia pre-stabilita. Il mondo è una macchina guasta che produce dolore e buffoneria.

Sotto la scorza apparentemente asessuata, Gadda è uno degli scrittori più erotici del Novecento. Il suo erotismo è nascosto, refrattario all’esplicitazione, ma onnipresente nella densità del linguaggio, nei lapsus, nelle allusioni, nei travestimenti. C’è un’oscenità semantica nella sua scrittura, che si manifesta nella sovrabbondanza, nello scivolamento continuo del senso, nel godimento del segno che non si ferma mai.

Il suo erotismo è anche sadico e anale: si annida nei dettagli corporali, nelle emissioni, nei disturbi digestivi, nei tic fisiologici, nelle decomposizioni. L’erotico in Gadda è sempre un po’ scatologico: là dove il corpo eccede, degenera, crolla. Come se la scrittura avesse un piacere masochistico nel registrare ogni minima disfunzione, ogni secrezione, ogni perdita di controllo. Una forma di godimento che sconfina nell’osceno, ma anche in una forma di verità incarnata.

La scrittura gaddiana non è fatta solo di parole, ma anche di spazi, punteggiatura, torsioni tipografiche. La pagina è un campo da gioco, una partitura visiva, un labirinto di segni. Le sue virgole sono battiti cardiaci, i due punti sono sospensioni esistenziali, le parentesi sono caverne del pensiero. Ogni segno di interpunzione ha una sua teatralità, un suo corpo, una sua voce.

Gadda è uno dei pochi autori in cui la punteggiatura è tema, non solo strumento. Non organizza il pensiero, lo disturba, lo moltiplica. La virgola non separa: sfalda. Il punto e virgola non chiude: apre. I trattini inseriscono livelli di coscienza, parentetiche che squarciano la linearità e mostrano il retroscena del discorso. In questo senso, Gadda anticipa la poesia concreta, l’arte concettuale, la tipografia come filosofia.

E infine, il misticismo. Gadda è un mistico senza fede, un santo laico in guerra con il cosmo. La sua mistica è negativa: non cerca Dio, cerca di spiegare la sua assenza. Ma, come ogni mistico autentico, è ossessionato dalla totalità, dall’infinito, dall’unità perduta. Le sue digressioni non sono che forme di preghiera: un modo per circumnavigare il mistero senza mai penetrarlo, per alludere all’inattingibile.

Nei suoi testi, il dolore diventa teofania: segno visibile dell’invisibile. L’idiozia del mondo è un velo che nasconde (o mostra?) l’abisso. E la scrittura si fa atto liturgico, rituale sacrificale, disperato tentativo di redimere il senso nel caos. Come il Golem della cabala, anche Gadda cerca di dar vita alla materia col solo soffio delle parole.


Le matrici della catastrofe: Gadda e le storie sotto le storie

Il romanzo gaddiano è uno scavo, e l’autore vi si aggira con una paletta da speleologo sotto il brulichio di strade, vicoli, ministeri, canoniche, cucine, botteghe, spionaggi e parrocchiali, fino a toccare la materia incandescente della Storia — con la S maiuscola — che sobbolle sotto le storie. L’Italia, nei suoi romanzi, è uno spettro geologico di epoche sovrapposte: un palinsesto in cui il fascismo è solo una tra le croste, sovrastante forse, ma non più incistata, in cui la decomposizione dei sogni ottocenteschi del progresso, della nazione, dell’etica borghese, si riversa in una forma degenerata, tragicomica e grottesca.

Gadda non racconta eventi: mappa fratture. E dove la storia ufficiale cerca la linea retta del senso, egli si compiace della deriva, dell’impensato, dell’effetto collaterale. Più vicino a Marc Bloch che a De Sanctis, Gadda è l’archeologo della casualità storica, l’involontario genealogista delle incongruenze. Non sorprende che il suo lavoro trovi eco, in anni successivi, in certa storiografia postmoderna (si pensi a Carlo Ginzburg) o nell'antropologia storica, dove la microstoria prende il posto delle narrazioni imperiali.

La catastrofe, per Gadda, non è l’eccezione: è la forma tipica della storia. La «tragicommedia del mondo» non è una forma letteraria, ma una struttura epocale. E se c’è un colpo di genio nella sua opera, è l’aver messo in scena la rovina come condizione permanente del tempo italiano, come pleistocene morale di un Paese che non si evolve ma decompone, che non procede ma ristagna.


Il trauma come sintassi, la nevrosi come stile

Le sinapsi contorte della prosa gaddiana sono lo specchio d’un sistema nervoso letteralmente patologico. L’inconscio bussa — anzi, picchia — in ogni sua pagina, non come rimosso ma come presenza cacofonica, disturbante, onnivora. Si è detto (e a ragione) che Gadda è autore freudiano, ma in un’accezione altra, non psicoanalista da salotto viennese bensì da cripta lombarda. Ogni frase è una catacomba di slittamenti, ogni parola un lapsus. La lingua stessa è l’inconscio che prende forma.

Gadda agisce sulla pagina come un paziente in transfert: il monologo interiore non è strumento modernista, ma febbre, tic, ossessione. I sintagmi si raddoppiano, si contraddicono, si correggono, si rinnegano, si tradiscono. La verità — se mai c’è — non è detta, ma implosa. Il discorso gaddiano è sempre postumo a una scena primaria, di cui resta solo l’eco deformata. Il romanzo diventa allora teatro dell’analisi impossibile, in cui l’Io non si riconcilia, non si riconosce, non si narra: si scompone.

E se ogni scrittura è, in parte, elaborazione del lutto, quella di Gadda è lutto perpetuo: per la madre, per il fratello, per la patria, per l’ordine. Il lutto, però, è velenoso: genera ironia, bile, turpiloquio, eccesso. La lingua è sintomo. L’autoflagellazione diventa stile. E la pagina: un lettino.


L’ironia come sabotaggio, la lingua come resistenza

A chi ancora cerca in Gadda un autore conservatore, o reazionario, bisogna contrapporre una lettura più sfumata — e molto più radicale. Gadda non è l’intellettuale che celebra l’ordine, ma l’uomo che lo desidera e lo disintegra simultaneamente. La sua scrittura è sabotaggio: della logica lineare, della lingua unitaria, del discorso autoritario. Ogni frase gaddiana è un’insurrezione microgrammaticale.

Non ama la retorica delle rivoluzioni — la detesta. Ma è proprio nel rifiuto dell’enfasi progressista che risiede la sua forza politica. In Gadda non c’è ottimismo: c’è lucidità, e disincanto. C’è l’Italia vista dal retro, dai vespasiani, dai bordelli, dai retrobottega. È lì che si genera il potere, e lì che la lingua deve andare a rovistare. La politica non è nel tema, ma nell’atto stesso della scrittura: che disobbedisce, che infetta, che deride.

La sua non è né epica né lirica: è demolitiva. E come in Artaud il corpo resiste alla norma, così in Gadda la frase resiste alla norma sintattica e logica. È la sua forma di rivolta. L’antifascismo di Gadda è molecolare. Ed è tanto più potente perché non messianico: non annuncia, corrode.


Il romanzo come organismo disfunzionale

Gadda ha reinventato il romanzo italiano non scrivendo romanzi. Il suo genere non è il romanzo, ma il crollo del romanzo. Come Kafka, come Céline, come Bernhard, ha fatto della narrazione un organismo sclerotico, malato, ipertrofico. Ma se in Kafka c’è l’ossessione dell’essenzialità, in Gadda domina la ridondanza. La storia, se c’è, è un ectoplasma avvolto da chili di carne sintattica, di pus retorico, di sebo lessicale.

La trama è un pretesto. Il vero motore è il gorgo delle digressioni. Il narratore non narra: vaneggia, teorizza, ironizza, bestemmia, sviene, si contraddice. L’onniscienza è sostituita dalla schizofrenia. Non c’è un punto di vista, ma una sinfonia di prospettive parziali, di voci contaminate, di intonazioni spurie. Il romanzo, in Gadda, non racconta una vicenda: mette in scena l’impossibilità di raccontarla.

Eppure, proprio per questo, è tra i più narrativi. Perché l’unica storia vera che racconta è quella dello sforzo, vano e sublime, di mettere ordine nel caos. Ed è qui che Gadda diventa erede tragico di Cervantes e anticipatore del postmoderno. La sua è una «metanarrazione» incarnata, dolorosa, molare. Il romanzo è fallito? Sì. E proprio questo lo rende necessario.


La scrittura come corpo, la lingua come evento

Scrivere, per Gadda, non è comunicare. È agire. Il testo non è significato, ma atto. E l’autore, più che narratore, è performer: del proprio sintomo, del proprio delirio, del proprio disagio. Non si dà mai per finito: ogni frase è prova, tentativo, sbavatura. Si corregge, si espande, si avvita. La lingua si comporta: geme, si contrae, ride, si macchia, supplica, urla.

Gadda è il primo autore italiano veramente performativo. Ogni sua pagina è messa in scena, teatro di un corpo verbale in convulsione. Il testo si espone: al ridicolo, alla contraddizione, alla sgrammaticatura, alla sovraesposizione emotiva. Nulla è contenuto: tutto è flusso, rigurgito, smorfia. La punteggiatura stessa è gesto: le parentesi implodono, i trattini fischiano, i due punti si scollano dal significato.

E in questa performatività, Gadda anticipa l’arte concettuale, la body art, il teatro della crudeltà, il linguaggio come gesto, come ferita, come costrizione e liberazione simultanea. Scrivere è scena. Il romanzo è corpo. La pagina: un campo di battaglia.


Il segno impazzito – Gadda tra codice e scarto

Nella semiotica moderna, dove i segni si scompongono come materia nella camera a nebbia di uno sguardo quantistico, Gadda troneggia come l’indovino cieco di una babele fonosemantica. Il suo non è solo un uso del segno, ma un abuso ragionato, un sabotaggio sistematico, un linciaggio delle convenzioni referenziali che apre il romanzo all’indisciplina dell’ambiguità. Nulla in Gadda è “segno chiaro”: ogni significante si carica di echi, rimandi, dissonanze, illeggibilità. Nella sua lingua lo stesso «cane» non è solo l’animale canino, ma un insulto, una metafora, una maschera, un errore di stampa deliberato. Il «segno» non denota, sguscia. E Gadda lo sa, lo orchestra, lo raddoppia di intenzione e torsione. Come Barthes nel suo “grado zero della scrittura”, anche Gadda punta a un grado massimo della moltiplicazione semiotica, dove ogni parola è un’increspatura nell’acqua dell’inconscio sociale.

Lo “scarto” diventa sistema. Ogni deviazione dalla norma è un segnale che il sistema stesso è stato sabotato. In questa prospettiva, la lingua gaddiana non è altro che un iper-testo semiotico, una macchina che mastica i codici (latino, dialetto, burocratese, lirico, tecnico…) per sputarne mostri, aborti lessicali, ibridi. E questo sputo è il suo vero «messaggio»: che il codice è sempre ideologia, e la sua frantumazione è gesto etico.


L’insegnamento del mostro

Cosa insegna Gadda? Niente. O forse tutto. Ma lo fa nella forma del trauma. Il suo testo è scuola di sopravvivenza e di perdita. Non è maestro di stile, ma di disorientamento. Leggere Gadda significa disimparare: a scrivere, a parlare, a distinguere. È un pedagogista dell’abisso, uno che ti scaraventa dentro il testo come in un pozzo carsico dove non risuona nemmeno più la tua voce. La grammatica gaddiana è un errore intenzionale, una pedagogia per paradosso, una de-formazione professionale.

È il contrario di Calvino. Dove Calvino educa al nitore, Gadda diseduca al caos. Ma in questo c’è un rigore superiore, più feroce: l’ordine profondo della disarmonia. Gadda impone una lettura lenta, snervante, ostile al consumo scolastico. Costringe l’alunno a farsi archeologo e rabdomante. Impone la responsabilità del testo. Perché dietro l’arcaismo, il neologismo, il gergo, c’è sempre un dolore, un’urgenza di salvezza, una vendetta dell’intelligenza.

In un’epoca di sintesi e algoritmi, Gadda resta l’insegnante apocalittico: non ti aiuta, ti complica; non ti accoglie, ti stronca. Ma se sopravvivi alla sua pedagogia, hai imparato una cosa: che la verità è impura, e solo l’impurità ha diritto di parola.


L’osceno come maschera del vero

Gadda non ha scritto teatro, ma il suo testo è teatralissimo. I personaggi gaddiani non parlano: entrano in scena, declamano, scalciano, sbavano, esagerano. Sono marionette di una commedia dell’arte intossicata. E ogni frase è un monologo, un soliloquio tragicomico, una battuta che aspetta il rimbombo del suo vuoto. Il narratore stesso è attore: cambia voce, costume, registro. Parla in latino, in milanese, in finto francese. Fa ridere per non piangere. E grida per farsi sentire dentro il frastuono del mondo.

Nel “Pasticciaccio”, ogni scena è un siparietto. Il commissario Ingravallo è quasi un attor comico: borbotta, sbuffa, medita in versi. Ogni sua indagine è una messinscena del non-sapere. Perché nel teatro gaddiano non c’è catarsi, ma solo stallo. È una tragedia post-aristotelica: senza soluzione, senza catarsi, senza unità.

Ma soprattutto, Gadda porta a teatro l’osceno: ciò che sta “fuori dalla scena”, che la scena non dovrebbe mostrare. La merda, la follia, il corpo, il sesso, il ridicolo. La sua punteggiatura stessa — punti esclamativi, trattini, punti e virgola schizofrenici — è come un’apertura di sipario sul nervosismo della frase. Ogni parentesi è un’invasione di campo. Ogni digressione è un attore che dimentica il copione.


Nigredo, albedo, rubedo della lingua

Gadda è un alchimista del verbo. La sua pagina è laboratorio, fornace, e retorta. C’è una trasformazione della materia linguistica che rispecchia esattamente il processo alchemico: dalla confusione iniziale (nigredo), alla chiarificazione (albedo), fino alla trasmutazione estrema in oro spirituale (rubedo). Ma attenzione: Gadda si ferma sempre tra il nero e il bianco. Il suo oro è un fallimento, un’illusione. Il testo è il risultato di una combustione mancata, o meglio, permanente. È fumo, non pepita. È la lingua che brucia sé stessa per non purificarsi.

Eppure la struttura esoterica c’è. Le ripetizioni sono incantesimi, le frasi spirali magiche, le parole sconosciute talismani. Il dialetto è il grezzo, il latino è l’elemento mercuriale, la frase interrotta è l’opera incompiuta. Il romanzo stesso è una pietra filosofale fallita. Non trasmuta il mondo, ma lo denuncia come impuro. In questo, Gadda è vicino a Artaud, a Bataille, agli alchimisti neri: quelli che cercano Dio nella carne, nell’errore, nell’eccesso.

La sua alchimia è anche psichica: il testo è sempre anche trasformazione del trauma in forma. Ma la forma non chiude, non sublima. Si contorce, ride, sbava. È il corpo di un pensiero che non può più diventare spirito. L’alchimia gaddiana è un rosario che salta le perle, un rituale stregonesco e blasfemo. Eppure, in questo, Gadda guarisce: fa parlare il dolore. Lo fa esplodere.

Le fenditure dell’ineffabile e la punteggiatura, tremens, si fa stimmate dello Spirito Santo, lì Gadda cammina. Un Gadda mistico non è ossimoro: è piuttosto trasverberazione di consonanti, epiclesi di subordinate. L’invettiva si sublima in preghiera, ma d’una liturgia che nulla ha dell’armonia celeste: è melopea catacombale, trance d’un monaco epilettico, sillabazione glossolalica sotto lo stendardo del dolore. Ogni digressione è un versetto apocrifo, ogni parentesi, una navata laterale con reliquie spurie d’un martire campano, disossato e impagliato. In Gadda la teologia si fa sgrammaticatura di Dio stesso, che inciampa nelle Sue declinazioni.

Il verbo si fa carne – ma carne tumefatta, carni di Sant'Agnese martirizzata in trattino e puntini di sospensione, il Cristo stesso conficcato tra le congiunzioni. Qui il Logos muore e risorge nel pianto della voce narrante: un’accolita di profeti balbuzienti, Gadda uno di loro, sibila le sue litanie nel registro del borbottio lombardo, del respiro anacoretico di un eremita con la milza gonfia d’acido. La pagina è dunque un reliquiario sporco, un turibolo traboccante cenere, dove il nome di Dio si maschera da bestemmia e la bestemmia è un atto di fede strabica.

Nel Gadda più esploso, la lingua è fauna: è un bestiario di fonemi, lessico di scaglie, peli, piume, muco. La prosa si dibatte tra cavallette sintattiche e tapiri aggettivali, brulicando come stabulazione nevrotica di bestie in un’aria infetta da malalingua. Ogni parola ha un’andatura animale: il verbo incespica come un cane con la rogna, il soggetto si rannicchia come ghiro psicotico sotto l’ombrello della proposizione principale. Il periodo scodinzola, guaisce, morde: la pagina è una tana, un anfratto, una carcassa ancora calda.

Gadda è lo scriba delle viscere animali: mucche da mungere sillabe, uccelli notturni come vocali affacciate sull’abisso, insetti roditori di senso. Persino la punteggiatura si fa bestia: la virgola è un lombrico, il punto e virgola una scolopendra, i due punti due occhi inquieti di civetta tra le fronde dell’enunciato. La sua è una scrittura zoonotica, trasmissibile: leggi Gadda e ti ammali di lui, contraendo il virus del linguaggio ibrido.

Gadda è un’orchestra dissonante diretta da uno Stravinskij impazzito che batte il tempo con uno scarpone da fante reduce. La sintassi è fuga, contrappunto, modulazione isterica. La punteggiatura, percussione sincopata. Nessuna armonia, ma poliritmie lacerate, scale che salgono senza fine come scale di Escher, e discendono in tonalità assenti. È musica del disagio, del terrore domestico, della tromba intestinale. La lingua come flauto deformato: sibila, stride, cozza.

Ogni frase si gonfia come un’aria barocca, poi si spacca come vetro. Tutto è pieno, tutto è orchestrato e insieme schiumante. Se Joyce suonava il jazz, Gadda sbraita il suo sinfonismo convulsivo in un’osteria: il maestro ha la bacchetta rotta, gli spartiti sono imbrattati di sangue e accento romano. È un’onomatopea sinfonica: la parola come nota impazzita, il lessico come chiassosa orchestra dove le frasi si accoppiano come tromboni e cembali.

Ogni sua subordinata geme. Gadda penetra nel linguaggio come un amante incapace di godere, frustrato e ipertrofico, ma terribilmente presente, insistente, inesausto. Il testo è un corpo, un corpo dismorfico, saturo di parole come bubboni, ma vivo. Non c'è figura retorica che non sia anche pratica sessuale. L'anafora è coazione a ripetere. La metafora: travestimento erotico. Ogni verbo è un atto sessuale in sé: il participio, una postura. Ogni periodo s’inginocchia o si contorce, si disarticola, cerca una penetrazione ulteriore. Gadda è pornografia sintattica: non nel senso di oscenità spicciola, ma nel senso di esposizione radicale della carne grammaticale.

Nella sua opera, l’osceno è la norma: il troppo, l’eccesso, la voluttà del dettaglio – non c’è un capezzolo di verità che non venga pizzicato, succhiato, descrittivamente eiaculato. È il gozzoviglio stilistico dell’occhio che vuole vedere tutto e di più, fino all’anatomia dell’infermità, fino all’orifizio ultimo della lingua.

In Gadda anche il clima si decompone: le nubi sono proposizioni incidentali, il vento è un raffreddore stilistico che scompagina le frasi, la pioggia un lento stillicidio di virgole. L’umidità semantica pervade ogni parola come muffa milanese. La sua lingua non è mai serena: è un clima instabile, depressione atmosferica narrativa. I suoi periodi si raggrumano come nebbie, poi deflagrano in scrosci di subordinate, in grandinate lessicali. L’aggettivo è grandine: ti colpisce sulla testa pelata del soggetto.

Il testo è una carta sinottica affettiva, dove ogni campo semantico è un’area ciclonica. La pressione del discorso aumenta, fino alla tempesta: fulmini sintattici, tuoni metaforici, esondazioni retoriche. Gadda non descrive il tempo: lo produce. E la sua scrittura è un meteo dell’anima: instabile, umorale, tempestosa, preda di correnti ascensionali di bile e detriti emozionali.


DEL CULTO E DEL RITO COME STRUTTURA DEL DESIDERIO E DELLA DISSONANZA

Nel Gadda che digrigna l’occhio sul mondo e lo riversa in fraseologie distillate d'incendio, la liturgia non è esclusa come non lo fu per Pascal il vuoto dentro la cupola dell’infinito. È rito, la scrittura: rito di esorcismo e di convocazione. La punteggiatura, le subordinate, la peristalsi semantica: altro non sono che gli officianti d’un altare che non esiste, o meglio, che esiste nella carne tremula del logos, lì dove il Verbo si fa escrescenza, pustola, balsamo, bava, eucaristia.

L’ufficio dell’autore è quello del celebrante impazzito, del prete gnostico che ha letto troppi necrologi e mangiato troppe minestre fredde con la madre zitella: il linguaggio di Gadda è un Kyrie eleison recitato con i denti stretti, un Credo balbettato dal fondo di un confessionale allagato. Ogni sua pagina è il Giovedì Santo dell’intelletto, in cui si lava il piede al proprio avversario e si maledice il vino versato come se fosse sangue davvero. E la lingua — latino chierico, dialetto d’ambone, bestemmia strappata alla gola del sacrestano — si srotola in anticorpi formali contro la grammatica come istituzione morta.

Nella “Cognizione del dolore”, nella “Madonna dei filosofi”, c’è sempre un’offerta votiva che non si consuma: un gesto bloccato, una liturgia abortita. Il padre morto, il fratello svanito, la madre in ansia di eternità — tutti loro partecipano al culto impossibile di una realtà disgregata che pretende ancora il rituale, ma ne ha perso il calendario. E Gadda, monaco senza chiostro, recita il proprio breviario di fratture, dispiega antifone di rabbia, canta il Magnificat dell’errore.


STRATI DI LINGUA COME STRATI DI FANGO E DI OSSA

Gadda, scavando nei fossili del proprio io e delle sintassi tramandate, compone il proprio romanzo come uno scavo di Pompei verbale, dove l'aggettivo è la cenere che imprigiona il corpo, e la coordinata paratattica è lo scalpello che prova a liberarlo. Come un archeologo della psiche collettiva e delle catastrofi famigliari, Gadda accosta reperti incongrui, frammenti d’una civiltà che non ha lasciato altro che bestemmie e scarpe rotte. L’idioma stesso è una civiltà sepolta, che egli resuscita con l’insistenza da rabdomante: vi trova un congiuntivo fossile, un gerundio fossilizzato, e ne fa materia d’incanto e d’orrore.

Le sue frasi sono tombe etrusche riaperte a forza: ciò che vi sta dentro è decomposizione e miracolo insieme. Come Schliemann, Gadda cerca Troia sotto la propria infanzia, sotto la prosa degli altri. Ma le città che scopre non sono mai solo sue: sono anche le città dei poveri, dei tecnici dell’Ansaldo, dei marescialli in camicia sudata, dei miseri che sognano la Patria mentre affondano nel bitume della storia. E allora ecco che l’archeologia diventa denuncia: chi ha nascosto questa bellezza sotto quintali di retorica? Chi ha sepolto la verità della vita sotto le macerie dell’ideologia e della parata?


DELL’ORRORE DEL GUSTO E DELLA METAFISICA DELLA POLENTA

In Gadda si mangia male e si mangia troppo. Si mangia per dimenticare la madre, o per reinciderla nel palato. Il cucchiaio è l’arma del lutto e della noia. La tavola — altare tragico del quotidiano — non è mai luogo di conforto, ma di rispecchiamento dell’orrido. I suoi personaggi si nutrono di insipienza, di brodaglie infami, di amori svaniti nel fumo di un soffritto sbagliato. Eppure la lingua che ne narra è opulenta, come se cercasse di risarcire con l’intelligenza ciò che il corpo ha ingurgitato per necessità.

La polenta non è solo polenta: è una forma di essere-nel-mondo, l’estasi dell’amido. L’olio rancido di certi intingoli lombardi è il sigillo di un’epoca, la puzza che si annida tra le righe. E la prosa gaddiana, sovraccarica come una lasagna malfatta, diventa lei stessa pietanza indigesta, da masticare con lentezza, da sputare e risucchiare. Gadda cucina la frase come un alchimista sbagliato: gli scappa il sale, ma poi ci mette il pepe filosofico. Il risultato è una sinestesia della bile, un gusto retorico che si prende gioco dell’assennatezza borghese e del galateo sintattico.


DELLA LUCE E DEL GRANO NELLA PROSA COME RUMORE DELL’ANIMA

Gadda scrive come un fotografo cubista, che sbaglia fuoco apposta, che mette il soggetto in ombra e sviluppa l’immagine su carta scadente, cosicché il risultato sia una rivelazione sporcata. La luce nella sua prosa è una luce già filtrata, già corrotta dalla polvere e dalle lenti rotte dell’esperienza. Non c’è mai una messa a fuoco definitiva. Come certi dagherrotipi spiritici, ogni frase contiene un fantasma, una presenza laterale che la rende tremante, opaca, segnata da doppie esposizioni emotive.

Il suo sguardo non è obiettivo: è otturatore rotto, diaframma impazzito. Il corpo che inquadra si deforma, l’architettura si piega, le facce si sfaldano. Ed è lì, proprio lì, che si genera il senso: nel rumore del grano fotografico, nel dettaglio fuori fuoco, nel controluce narrativo che trasforma un commissario in tragedia e un vigile urbano in sineddoche dell’idiozia cosmica. Ogni descrizione è una lunga posa, ogni dialogo un movimento mosso. Lo sviluppo della frase avviene in camera oscura, tra chimici della mente e bagliori di un’anima che non si lascia fissare. Gadda non fotografa: impressiona. L’immagine non si conserva: si corrompe.


Finale in forma di apocalisse babelica, o della lingua in stato di combustione mistico-molecolare, ovvero: il rogo del dizionario

E dunque concludere, si fa per dire, in questa fossa carsica e pirotecnica dell’idioma dove ogni sillaba, fuggita dalla riga e dalla regola, schizza come furetto sotto bastone, come vacca in delirio tra le lapidi del lessico, ci si ritrova con la lingua — la nostra, la loro, la cesiresca, la cesarea, la cesoia — tutta in ebollizione, in fermento rabbioso, come fosse una pentola dimenticata sopra il gas, con le interiora del significato spappolate, strabordanti, e i nervetti dell’enunciato lacerati come dopo una corrida al buio, coi mortaretti di segni d’interpunzione sparati in aria a mo’ di sberleffo metafisico.

Tutto s’esplode, e si rifrange, e si rifrittura come la frittura di cervello (e d’altri visceri) nei chioschi dello spirito — ché la lingua, si sa, è pure trippa, e budello, e callo narrativo, e colica dell’intelletto, e scarica psichica, e rutto semiotico, e anche, in fondo, orgasmo tipografico, se la si lascia godere.

Ora Gadda – lo si veda – non chiude, non mette mai il punto, semmai il punto e virgola, che è come dire «forse finisco, ma lasciami l’opzione di bestemmiare ancora», o due punti, che sono le trombe del Giudizio Ultimo del fraseggio. Gadda si fa moltiplicatore di mondi, spezzatore di assi cartesiani, centrifuga del logos, scacchiere della psiche, marionettista della punteggiatura: e ogni segno è una smorfia, ogni smorfia una piega, ogni piega un trauma, ogni trauma un’architettura di prosa urlante.

E allora che cosa rimane da fare, se non chinarsi in preghiera pagana davanti all’altare di questa lingua implosa, esplosa, sventrata, celestiale e lubrica insieme? Se non ascoltare il latrato, il mugolio, il ruggito della parola che non vuole essere più schiava, ma corpo vivente, epilettico, poetico, che attraversa i secoli, i deliri, i manicomi, le accademie e le bettole?

Ecco, chiudere, ma in Gadda significa non chiudere: lasciare il fiume aperto, la fogna aperta, il cielo aperto, la carne aperta, il pensiero aperto: come se l’atto dello scrivere fosse un atto chirurgico sempre in corso, una messa nera, una tavola ouija dove i morti dell’idioma (gli zii Pindaro, Dante, Manzoni, Flaubert, Rabelais, la buonanima di Aristotele) si chiamano a rapporto e gridano: «scrivici, bestemmiaci, macellaci!».

E così, nel suo fuoco d’artificio, il nostro ingegné scrittore, Carlo Emilio Gadda, si fa non tanto autore quanto agente patogeno, virus dell’ordine, crollo della ragione illuministica, infrazione carnale del codice, respiro della pagina che non vuole morire nel silenzio tipografico. Si fa reincarnazione dell’idioma ferito, martire e beato della lingua incarnata: e così lascia, a noi poveri posteri, l’invito non a capire ma a impazzire con lui.

Il romanzo è morto? Viva il romanzo-magma, viva il romanzo-vortice, viva l’osceno sublime della lingua impazzita: viva Gadda, viva la sua peste!

Fine (che non è fine).