Era come se la notte avesse deciso di mostrarsi a cielo aperto, con un atto scandaloso, sfacciato, quasi brutale. Niente più segreti nelle pieghe del buio: ogni fremito svelato, ogni respiro portato alla luce, un duello contro il destino. Ed eccolo, il poeta, che si confronta con il Fato, come un pugile provato dai troppi incontri ma ancora in piedi, ancora ostinato a vivere la vita, fronte candida e sincera, come un giovane che prova a domare i polverosi pollini di sogni mai nati, abortiti prima ancora di germogliare.
È la danza dell'inizio del Duemila, quel tempo incantato e disincantato, dove il Desiderio – con la sua "D" maiuscola – ha già spogliato se stesso, si è tolto l'armatura e ora sta lì, nudo, come un’eco che rimbalza, non più temuto, non più utile. Così la solitudine si erge a diva, come una cantante ormai logorata dalle troppe serate, un passero che si è lasciato dissanguare da una folla di vampiri, ognuno un compagno ingannevole, un amore spezzato dai giochi crudeli che si imparano già sui banchi di scuola.
Piccoli frammenti d'amore si aggrappano alla vita come aria necessaria per un respiro disperato, “- o come un verso / per avere una probabilità di rinascita -”. Fuori, il mondo è un teatro crudele, si diverte a offendere, a infliggere con sadica gioia “tutte le notizie”, mentre in lontananza i campanili attendono, sospesi sopra la linea dell'alba, come promesse mai mantenute, luci fioche in un cielo ancora troppo scuro.
E le persone? Si trasformano in incontri fugaci, come un dito magro e ingobbito che segna le pagine di una vita passata. Ecco il bello sconosciuto che si ferma, che resta un momento, “al Nonostante”, come se dicesse: “Anche qui ci sei, anche qui siamo stati insieme in qualche modo”. I versi allora si fanno rifugio, piccoli chioschi aperti nel deserto, custodi di un'ultima sfida, un ultimo contrasto.
Le parole ormai sono sassi, pesanti e inutili per raccontare il minimo, e il poeta, seduto su una panchina che pare la soglia di una caverna, osserva il mondo mentre il verso si sfalda, si dissolve, come cenere sparsa al vento. Ogni parola è una resa, la pagina il testamento di ciò che non sarà. Giungiamo infine al confine ultimo, alla parete che diventa architetto d’un incanto. La parola si fa ancora, una lapide per ancorare il cuore alla terra.
I sentimenti sono stati, sono ormai memoria. I figli, sogni di futuro, non verranno. Solo la musica rimane, autocompiaciuta del suo stesso incanto. C’è ancora una fame di dialogo, un desiderio di parole, ma ogni tentativo finisce in afasia, in un respiro vuoto. Resta il piacere del vivere, anche se frammentato, in intervalli e iati. E la voce? E’ come tela che scompare, dissolta, e rimangono solo le tracce di un inaridimento.
Ecco, l’età dei licheni è arrivata, un’epoca dove ogni parola si stringe come una chela, in cerca di un appiglio, e il buio colma il mondo. L’abbandono non è padrone, ma il silenzio accetta la tregua, in una strana vivacità dell’immobile. Forse la vera fortuna, la bellezza, è proprio questa: non morire, e restare, sospesi in un racconto incompiuto. "Credo che il piacere, se lasciato, / sia un'immensa fortuna, un racconto / da sogno, vicinanza, pronuncia."