Nel primo episodio, girato in una lingua di terra nera, aspra, inquietante, un giovane (interpretato da Pierre Clémenti) si muove tra crateri e fenditure geologiche come un’anima pre-umana. Si separa dalla sua comunità, uccide senza motivo apparente, vive da solo, mangia carne umana, accoglie la sua animalità come un gesto sacrificale. È una figura che non parla, che comunica con il corpo, con lo sguardo, con la furia cieca di un essere fuori dalla civiltà ma ancora capace di fondare un'etica, anche se atroce. In questa parte, Pasolini elimina ogni dialogo: ciò che resta è un paesaggio interiore che si fa fisico, una specie di mitologia anti-epica dove la parola è superflua, e dove il cannibalismo è una forma di rottura con l’ordine sociale. Il giovane assassino, nella sua solitudine senza tempo, sembra incarnare l’ultima forma di purezza possibile: una violenza senza giustificazione, ma anche senza ipocrisia.
L’altro episodio, invece, è ambientato nella Germania del dopoguerra, in quella società borghese che Pasolini vede come il vero cuore della nuova barbarie. Qui si svolge la parabola di Julian, interpretato da Jean-Pierre Léaud, figlio indolente e alienato di un industriale tedesco (un Ugo Tognazzi straordinariamente controllato e odioso), legato ai fantasmi del nazismo e alle promesse del capitalismo rampante. Julian è un personaggio emblematico della crisi pasoliniana degli anni Sessanta: rifiuta ogni coinvolgimento, vive isolato, rifugge il sesso, la politica, la religione, ogni forma di partecipazione. È una figura chiusa, anaffettiva, che esprime un solo desiderio, inconfessabile: l’amore per i maiali. E proprio in questo amore indicibile — nella zoofilia come atto ultimo di separazione dalla società — si consuma la tragedia. Quando viene scoperto, i genitori scelgono di non salvarlo, ma di insabbiare tutto. Julian viene sbranato dai maiali, mentre la famiglia borghese sceglie il silenzio e l’apparenza. Nessun grido, nessun pianto: solo l’ordine, la reputazione, l’accettabilità sociale.
Le due parti del film, pur non interagendo mai direttamente, si rispecchiano come due facce di una stessa moneta: la natura e la storia, il crimine puro e quello ideologico, la fame carnale e quella borghese di dominio. In entrambi i mondi, l’uomo è solo, prigioniero dei propri impulsi o della propria sterilità. Il cannibale e il zoofilo sono due manifestazioni estreme di un desiderio che la società rifiuta ma che segretamente conserva, reprime, disloca. Se nel primo episodio la violenza è dichiarata, messa in scena come atto sacro e arcaico, nel secondo si traveste da ordine, da legalità, da educazione. Ma è una violenza più profonda, perché strutturale, legittimata, borghese.
L’interpretazione degli attori è di altissimo livello e contribuisce in modo decisivo alla riuscita del film. Pierre Clémenti incarna una bellezza feroce, indomabile, una fisicità mistica e minacciosa che ben si presta alla dimensione sacrale dell’episodio “archetipico”. Franco Citti, presenza fissa del cinema pasoliniano, lo accompagna come un angelo decaduto, testimone muto e ambiguo della violenza. Nell’episodio “tedesco”, Tognazzi è incredibilmente misurato: non è un mostro, ma un padre mediocre, un uomo pragmatico, perfettamente adattato alla nuova Germania che vuole dimenticare il passato. Léaud, invece, costruisce Julian con i tratti della nevrosi e dell’apatia, quasi un personaggio di Beckett precipitato nella borghesia del boom economico. Accanto a loro, Marco Ferreri appare in un cameo ironico e feroce, e Anna Wiazemsky interpreta una giovane marxista, unica voce critica nel vuoto morale della borghesia.
Pasolini, con questo film, non costruisce solo una parabola etica o politica, ma compone un vero e proprio trattato filosofico per immagini. Porcile è un testo allegorico, stratificato come una tragedia greca e crudele come un saggio di antropologia radicale. Non c’è nessun compiacimento estetico, ma una tensione continua tra corpo e parola, tra istinto e ideologia, tra natura e cultura. Eppure, proprio in questo conflitto irrisolto, il film trova la sua verità profonda: l’uomo moderno è diventato “porco” non perché ama gli animali, ma perché ha dimenticato la propria bestialità originaria. La società borghese, nel suo ordine apparente, nel suo rifiuto del desiderio e della colpa, è più bestiale della giungla preumana.
A distanza di oltre cinquant’anni, Porcile resta un film irriducibile, eretico, inquietante. Non si lascia addomesticare né accademizzare. Non è un film che si possa “piacere”: è un’opera che si affronta, che si patisce, che si attraversa come un deserto. Ma è anche un’opera che ci parla ancora, oggi più che mai, in un mondo che sembra aver sostituito i porci veri con algoritmi ben educati, e dove la violenza non si vede più perché è diventata sistema.
Altri strati, come si fa con le croste della terra o i sogni che si incrostano all’infanzia. Perché Porcile, nella sua doppia struttura, non è solo un film di Pasolini: è la sua personale discesa agli inferi — un Inferno bifocale, dove ogni figura è simbolo, ogni frase è una sentenza, e ogni silenzio, un’abiura.
Dopo il 1968, dopo la rivoluzione mancata o abortita, Pasolini non crede più al potere salvifico della lotta. Non crede né nella religione né nella politica, e meno che mai nella borghesia — quella che lui stesso, nella celebre invettiva, definiva “la vera forza del male in Italia”. Porcile è quindi una preghiera laica recitata in una lingua ormai esausta, un film che non cerca redenzione, ma espiazione. Non c’è più spazio per il miracolo, né per l’innocenza: l’unico “eroe” possibile è un cannibale senza parola o un giovane che si lascia divorare pur di non cedere alla menzogna. Due martiri, due corpi sacrificati sull’altare dell’indicibilità.
Il paesaggio lunare dell’episodio arcaico è girato sull’Etna: la scelta non è casuale. È la montagna del fuoco, dove si cela la forza distruttiva della natura. Pasolini mette in scena un Eden già perduto, dove l’uomo non è ancora uomo ma è già assassino. È come se volesse mostrarci il peccato originale non come atto singolo, ma come condizione esistenziale. E tuttavia, quel paesaggio, con la sua bellezza abissale, custodisce ancora una forma di sacro: il sacro terribile, numinoso, che sgorga dalla vita e dalla morte. Nessun Dio, ma solo la materia: pietra, sangue, sole. E il volto di Clémenti, che diventa totem, maschera, idolo. Una bellezza feroce e sfuggente, da sacrificare perché troppo assoluta.
Nel secondo episodio, invece, tutto è parola. Ma è una parola corrosa, ideologica, già consunta nel momento in cui viene pronunciata. Julian discute con la giovane marxista (una Wiazemsky algida e luminosa) di lotta, di classe, di rivoluzione, ma tutto suona finto, recitato, accademico. La politica è diventata un discorso vuoto, e la ribellione, un vezzo. È la fine delle grandi narrazioni, diremmo oggi. Julian non partecipa: si rinchiude. La sua devianza non è azione, ma rifiuto. Ama i maiali non per desiderio erotico, ma per disperazione simbolica. I maiali non giudicano. I maiali non parlano. I maiali non chiedono ideologie. In loro, Julian cerca una purezza che gli uomini — e le donne — non sanno più offrire.
Ma allora, cos’è davvero Porcile? Un film politico? Un saggio sulla perversione? Una tragedia moderna? Un anti-Vangelo? Forse tutte queste cose insieme, e nessuna. È un film che frantuma le categorie, che disarticola la narrazione, che si sottrae. Come un animale notturno, fugge la luce. È un’opera negativa, nel senso più radicale: mostra ciò che resta dopo la caduta della storia, dopo la fine delle utopie. È la condizione dell’uomo moderno, incapace di credere, di amare, di uccidere — eppure colpevole.
Nel finale, la voce fuori campo annuncia la decisione di non fare nulla per salvare Julian. Il padre, il capitalista, sceglie il silenzio. E quel silenzio è la vera condanna. Non c’è processo, non c’è dibattito, non c’è empatia: solo la legge del disonore, della vergogna privata che vale più della verità. E Julian muore. O meglio: viene digerito, dai suoi porci, dai suoi pari. L’immagine è terribile, ma Pasolini non la mostra. Ci risparmia lo spettacolo del corpo sbranato. Ci lascia solo l’eco, la voce, e il silenzio. E nel farlo, ci inchioda.
E noi, oggi, dove siamo? Siamo ancora capaci di vedere Porcile? Di reggerlo? In un mondo che estetizza tutto, anche l’abiezione, e trasforma la devianza in genere da streaming, il film di Pasolini resta un enigma. Non si consuma. Non si binge-watching-izza. È troppo colto per essere pulp, troppo carnale per essere solo filosofia, troppo scandaloso per essere accettato, troppo poetico per essere dimenticato.
Eppure, come un maiale che affonda nel fango, anche noi — spettatori — ci ritroviamo immersi. A disagio, sporchi, impauriti. Ma finalmente vivi.
Come ogni profeta, Pasolini non spiegava: mostrava. E in Porcile, ciò che mostra è un mondo senza redenzione, dove anche la ribellione è inghiottita nel nulla. Ma proprio per questo, il film diventa un atto di resistenza, un atto poetico, un grido muto che continua a scavare dentro chi lo ascolta.