1. L’evento e la sua marginalità apparente
Firenze, 25 maggio 1969. In un’Italia ancora stretta nelle maglie del conformismo cattolico e del codice Rocco, un piccolo gruppo di persone omosessuali e trans* si raduna in strada per dire basta. Non è un corteo vero e proprio, non ci sono striscioni o slogan scanditi in coro, non ci sono telecamere o dirette radiofoniche. C’è però un gesto semplice e radicale: distribuire volantini, mettersi in mezzo alla città, guardare in faccia l’indifferenza o la derisione, e pronunciare l’impensabile.
L’evento è minuscolo nei numeri, ma enorme nella portata simbolica. È un gesto che sfida l’invisibilità, che strappa via dalla notte dei corpi e dei desideri la coltre della vergogna. È uno di quegli episodi che la storia ufficiale lascia ai margini, forse per pudore, forse per ignoranza, o forse perché mette a disagio ogni narrazione progressista che preferisce pensare il movimento LGBTQIA+ come una serie ordinata di “primi passi” verso l’uguaglianza.
Eppure, il 25 maggio 1969 non è un esperimento, non è una curiosità, non è un errore. È un inizio. O meglio, è una faglia in una storia che non sapeva ancora di potersi scrivere.
2. L’Italia alla fine degli anni Sessanta
Per comprendere appieno la forza e la solitudine di quel gesto, bisogna calarsi nel contesto italiano dell’epoca. L’anno è denso di trasformazioni: il 1968 ha fatto esplodere nelle università e nelle piazze una voglia di cambiamento che travolge le forme tradizionali del potere — autorità paterna, gerarchia scolastica, repressione poliziesca. Ma questa ondata non investe ancora il campo della sessualità queer.
Se da una parte si assiste a una crescente liberazione del desiderio eterosessuale — con le battaglie per il divorzio, la contraccezione, e la rottura del tabù sul piacere femminile — dall’altra parte l’omosessualità resta confinata al silenzio, alla clandestinità, alla patologia. I codici penali non puniscono più esplicitamente gli atti omosessuali come nel ventennio fascista, ma la repressione sociale, culturale e psicologica è ancora totale. Non esistono associazioni di tutela. Non esistono linguaggi di autodeterminazione. Non esiste quasi nemmeno la possibilità di nominarsi.
La parola “omosessuale” viene ancora pronunciata sottovoce, con ironia o disprezzo. Non è un’identità, è un'accusa. Essere visti è pericoloso, e scegliere di farsi vedere è un gesto di rottura, di lotta, ma anche — potenzialmente — di annientamento.
Firenze, in questo scenario, diventa un teatro paradossale. Culla del Rinascimento, città d’arte e cultura, ma anche luogo di controlli rigidi, di perbenismo borghese, e di sorveglianza sottile. Eppure è proprio lì, in mezzo a quella compostezza, che un gruppo di persone decide di non stare più zitto.
3. Il caso Lavorini e la costruzione del nemico omosessuale
La miccia che incendia la protesta del 25 maggio a Firenze è anche un’altra: l’omicidio di Ermanno Lavorini, ragazzino di 12 anni rapito e ucciso pochi mesi prima, nel febbraio del 1969, a Vecchiano, vicino a Pisa. È un delitto efferato, ambiguo, che scuote l’opinione pubblica italiana, ancora più fragile perché poco abituata a misurarsi con l’infanzia ferita. Ma ciò che accade dopo è forse ancora più sconvolgente: la stampa, la magistratura, la politica — e soprattutto la polizia — trasformano quell’omicidio in una scusa per alimentare una vera e propria caccia alle streghe contro le persone omosessuali e trans.
Le cronache si popolano di figure losche, «invertiti» che frequentano i giardinetti, «travestiti» che si aggirano nella notte, uomini «con precedenti». Si fabbrica una mitologia del mostro, una mappa del pericolo morale. La morte di un bambino diventa il pretesto per scavare in una presunta rete perversa che, nella narrazione dei giornali, è fatta di ammiccamenti, reticenze, sguardi devianti. L’omosessuale torna a essere, come nell’immaginario del fascismo, un sabotatore della razza, un nemico interno, un predatore.
Ciò che colpisce, col senno di poi, è la sistematica strumentalizzazione dell’omosessualità come colpa a priori. Alcuni dei sospettati vengono accusati non tanto per prove materiali, ma per la loro “natura”: essere gay, in quel clima, equivale a essere colpevoli. Ed è questo clima velenoso che rende ancora più straordinario il gesto di chi, a Firenze, decide di uscire allo scoperto.
Il corpo queer, che per secoli era stato tollerato solo se nascosto — nei salotti, nei bordelli, nei confessionali, nei sottintesi — ora si mostra e parla. La protesta nasce anche come risposta morale: non siamo mostri, non siamo assassini, non accetteremo che la vostra paura vi giustifichi nel calpestare le nostre vite.
In questo senso, la protesta fiorentina è un atto di rovesciamento simbolico: mentre la società proietta sull’omosessuale tutte le sue angosce e colpe, quel piccolo gruppo ribalta il quadro e mostra che la violenza non è nelle loro mani, ma in quelle di chi perseguita, isola, deride.
4. Il gesto politico: corpi queer nello spazio pubblico
Quello che accade il 25 maggio non ha ancora un nome preciso. Non è un pride, non è un sit-in, non è una manifestazione come la intendiamo oggi. È, prima di tutto, una presenza. I corpi queer, sempre esclusi dalla rappresentazione pubblica, si fanno presenza nello spazio civile. E questo basta per fare paura.
È importante ricordare che, per chi è abituato a vivere nel nascondimento, camminare in gruppo può già essere un gesto eversivo. Distribuire volantini — ancor più se firmati, ancor più se si rischia l’identificazione — è un atto di autoaffermazione radicale. Non ci sono protezioni legali, né reti associative, né sostegni politici. Il gesto, in quel momento, è completamente nudo: esiste solo nella sua verità vulnerabile.
È un gesto senza protezioni e senza alibi. Non si può dire “siamo qui per altri” o “per un principio astratto”: chi è in strada lo fa per sé, con il proprio corpo, con il proprio nome. E questo lo rende tanto fragile quanto potente. È l’inizio di quella che Michel Foucault chiamerà più avanti “l’emergere delle soggettività oppresse”: non semplicemente chiedere diritti, ma esistere come soggetti politici attraverso la visibilità.
Il gesto, se lo leggiamo in chiave storica, segna una discontinuità antropologica. È la rottura con secoli di rappresentazione dell’omosessualità come vizio privato, come colpa nascosta, come amore muto. È il passaggio — ancora timido, ancora irto di rischi — dal silenzio all’enunciazione. Ed è soprattutto un gesto incarnato. Perché a parlare non sono solo le parole scritte sui volantini, ma il fatto stesso di essere lì, in piedi, davanti a tutti, visibili e ostinati.
Quella visibilità è la scintilla iniziale di tutto ciò che verrà dopo. Anche se pochi li vedono, anche se nessuno li applaude, anche se verranno dimenticati — per decenni — dalla storiografia ufficiale.
5. La piazza come corpo dissidente
La piazza, in quella domenica del maggio fiorentino, non è semplicemente il luogo fisico di una protesta. È un corpo collettivo, una presenza refrattaria alla normalizzazione, un organismo sociale che rifiuta di stare nei margini. A occuparla sono i corpi che, fino ad allora, erano stati relegati all’ombra: corpi femminilizzati, corpi travestiti, corpi desideranti senza permesso, corpi fuori luogo.
In questo senso, l’apparizione queer nello spazio pubblico ha la forza eversiva di un’apparizione sacrilega: profana lo spazio normativo con la sua sola esistenza. La piazza, che la politica ufficiale vuole ordine, rappresentanza, legalità, si riempie invece di disordine simbolico, di presenze illegittime, di esistenze impensabili per l’epoca. E proprio in questo disordine, in questa irregolarità visiva e narrativa, nasce un senso nuovo del politico.
Il corpo queer non rappresenta nessuno se non sé stesso, ma proprio per questo scardina la rappresentazione tradizionale: non parla in nome di un’ideologia, ma in nome di una verità incarnata. Il gesto di scendere in piazza, per una persona trans o omosessuale nel 1969, non è negoziabile, non è recitabile, non è simbolico: è reale fino al rischio fisico, all’insulto, al carcere, alla gogna mediatica.
Così, il corpo stesso diventa linguaggio politico, atto linguistico vivente. Se lo spazio urbano è stato fino a quel momento codificato come eterosessuale, patriarcale, produttivo, allora la semplice presenza di chi non rientra in quei codici riscrive il significato stesso della città.
Quella piazza fiorentina non è “una delle prime proteste LGBTQIA+” solo in senso cronologico. È una profezia di insubordinazione, un laboratorio spontaneo e silenzioso di trasformazione della cittadinanza. Il fatto che non abbia prodotto né un’organizzazione stabile né un documento teorico è parte della sua potenza: è gesto puro, è incandescenza priva di istituzione.
6. Il linguaggio che non c’era
Chi ha protestato quel giorno non aveva parole. E se le aveva, erano parole prese in prestito, zoppicanti, negate. Non esisteva ancora un vocabolario condiviso dell’identità: non si parlava di “identità di genere”, non si usava il termine “transfobia”, non si aveva nemmeno un nome positivo per dire “omosessuale”. Le parole in uso erano tutte contaminate: “invertito”, “pederasta”, “perverso”, “depravato”, “anormale”.
Ma proprio in questa assenza lessicale nasce una delle forze più profonde di quella protesta. Quei corpi e quei gesti anticipano il linguaggio. Fanno quello che fa sempre il desiderio quando rompe un recinto: balbettano, inventano, rifiutano i nomi imposti, dicono senza ancora sapere cosa stanno dicendo.
È, potremmo dire, una forma di “prelinguaggio queer”. Non è ancora l’elaborazione teorica dei movimenti degli anni Settanta. Non è l’attivismo strutturato dell’Arcigay o del MIT. È qualcosa di anteriore, di più arcaico e radicale: la rivendicazione del diritto a essere nominati diversamente, a esistere fuori dalla nominazione patologica.
Se la lingua dominante ti definisce come anomalia, il primo gesto politico è non accettare di parlare quella lingua. I volantini distribuiti il 25 maggio non sono potenti solo per il loro contenuto — di cui si sa poco — ma per la loro semplice esistenza. Sono scrittura queer già nel fatto che sono apparsi, che sono stati letti da occhi estranei, che hanno bucato la cortina del silenzio.
Questa assenza di linguaggio codificato rende ancora più difficile, oggi, la storiografia di quell’evento. Non ci sono slogan memorabili, non ci sono interviste, non ci sono registrazioni. Ma c’è qualcosa che sopravvive nel gesto stesso: una volontà semiotica, una forza che precede e insieme fonda la lingua del futuro.
Possiamo allora dire che la protesta del 25 maggio è un gesto di scrittura preistorica: come graffiti su una parete che nessuno sapeva ancora di poter leggere.
7. Firenze–New York: sincronie carsiche
Nel raccontare la storia dei diritti LGBTQIA+, l’asse narrativo dominante ruota quasi sempre attorno a Stonewall come spartiacque. Il 28 giugno 1969 diventa, nella ricostruzione storica, l’alba del movimento moderno. Eppure, Firenze era lì — un mese prima — a gridare la stessa rabbia, forse con meno rumore, ma con un’eguale intensità esistenziale. Allora la domanda non è più: “Perché Firenze non ha avuto lo stesso impatto?”, ma: “Perché abbiamo deciso di ricordare solo uno dei due incendi?”.
Non si tratta di ridimensionare Stonewall. Il Greenwich Village fu teatro di un’insurrezione tanto simbolica quanto concreta, e produsse effettivamente una serie di conseguenze strutturate. Ma leggere Firenze come un episodio isolato o “precursore” significa mancare il senso sincronico di ciò che stava accadendo in molti luoghi del mondo occidentale: ovvero, che le minoranze sessuali e di genere non erano più disposte ad abitare il margine in silenzio.
Firenze e New York, in quell’anno decisivo, non sono due episodi separati, ma due facce di un medesimo trauma, due affioramenti di una rivolta carsica che serpeggiava ovunque — spesso in forma sotterranea, spesso inarticolata, ma con un’urgenza irriducibile.
Il mondo queer del 1969 è un mondo senza cittadinanza, senza rappresentanza, eppure pieno di desideri in fermento, di corpi compressi che iniziano a sfidare la pressione normativa. Firenze e Stonewall sono, in questo senso, due esplosioni di pressione. E ogni esplosione ha una sua geografia, una sua temperatura, un suo modo di accadere: quella americana fu una sommossa, quella italiana un gesto proto-politico, più fragile, più silenzioso — ma non meno radicale.
8. Geografie della memoria e del silenzio
Perché allora Stonewall è diventato un mito e Firenze un’eco minore, conosciuta da pochissimi? Le ragioni sono molte, ma una delle più profonde riguarda la geografia della memoria e i dispositivi culturali del racconto.
Negli Stati Uniti, l’emersione del movimento LGBTQIA+ fu accompagnata da un processo di auto-narrazione immediata: i protagonisti scrissero, testimoniarono, organizzarono gruppi e commemorazioni. In Italia, invece, la repressione linguistica e culturale era tale che non ci fu né mitologia né archiviazione: quel gesto rimase orfano di narrazione, e come ogni gesto orfano, fu dimenticato.
Le parole della stampa — come “La Nazione” del 26 maggio 1969 — non sono cronaca oggettiva: sono atti di contro-narrazione, sono dispositivi di cancellazione simbolica. Ridicolizzare, insinuare, sospettare: questi erano i verbi usati per svuotare di senso l’evento, per assicurarne l’insignificanza.
Eppure oggi, rileggendo quegli articoli, noi li rovesciamo: facciamo di quelle parole ostili prove a discarico, fossili della nostra sopravvivenza politica. Là dove un giornalista voleva ridicolizzare, noi oggi leggiamo la traccia di un’invisibilità che si stava spezzando. La memoria queer agisce sempre in controtempo: prende le macerie e ci costruisce cattedrali.
In questo senso, l’oblio di Firenze non è solo un accidente storico. È parte della nostra condizione: essere stati dimenticati è la forma più comune di sopravvivenza queer. Ma ricordare Firenze oggi — senza vittimismo, senza competizione con Stonewall — significa riconoscere che la storia queer non ha un centro, ma una mappa stellare di accensioni simultanee, fiammelle inaspettate che hanno scaldato il buio.
9. Scrivere il nemico: il giornalismo come dispositivo repressivo
Nel maggio 1969, quando “La Nazione” pubblica il suo resoconto su quella piccola protesta fiorentina, non fa cronaca: fa biopolitica. L’articolo non descrive: ordina, distingue, ricolloca le soggettività deviate in un paesaggio morale. L’ironia sprezzante, l’allusione al “folclore”, l’invito implicito a non prenderli sul serio: tutto concorre a un gesto di risemantizzazione repressiva.
La stampa, come strumento della norma, non è solo spettatrice: è coautrice del trauma. Lì dove un gruppo di giovani osa rivendicare umanità e diritto, il giornale interviene per riscrivere l’evento in termini di disturbo, colore, anomalia da cabaret. È un’operazione raffinata: non la violenza frontale, ma la delegittimazione semiotica. Un sabotaggio lessicale, insomma.
Eppure, è proprio da queste righe intrise di disprezzo che oggi ricostruiamo la portata dell’evento. La lettura queer è una pratica archeologica: scava sotto la superficie dell’insulto, legge nell’offesa la prova dell’impatto, riconosce nel dileggio il segno che la norma ha vacillato.
Ciò che più infastidisce il giornalista dell’epoca non è l’omosessualità in sé, che pure è già criminalizzata e patologizzata. È il fatto che quella soggettività esca dal silenzio, si manifesti, si nomini, si dichiari “ingiusta” la repressione. Il crimine non è essere queer: è parlare come soggetto. E questo, allora come oggi, è l’atto più radicale.
10. Microstorie queer: genealogie intermittenti
Ogni storia di liberazione è fatta di microfratture, lampi, interruzioni nel continuum del silenzio. La protesta di Firenze non fu la “prima marcia”, né generò immediatamente un movimento strutturato. Ma fu una crepa storica, un’interferenza nel discorso dominante. E oggi, rileggendola, possiamo darle il nome che all’epoca le fu negato: politica.
Le genealogie queer non sono mai lineari. Sono intermittenti, carsiche, non autorizzate. Non hanno manifesti stampati, ma fogli volanti; non hanno leader carismatici, ma corpi stanchi, giovani, spaventati e furibondi che decidono di mostrarsi.
Questa assenza di linearità è ciò che spesso ha fatto credere che in Italia “non ci sia stata una vera storia di movimento LGBTQIA+ prima degli anni Settanta”. Ma è una lettura coloniale della temporalità politica: impone al dissenso queer una forma “evolutiva” che gli è estranea. Il dissenso queer non evolve: riemerge, scompare, resiste, rinasce con altri nomi.
Raccontare oggi l’episodio di Firenze significa costruire genealogia dal margine, accettando la frammentarietà come forma della verità. E ogni testimonianza ritrovata, ogni articolo, ogni ricordo orale, ogni volantino sopravvissuto è un pezzo di questa costellazione.
Dobbiamo imparare a leggere le microstorie come architravi della storia politica queer, non come eccezioni. Solo così potremo costruire una memoria non fondata sull’eroismo o sull’epopea, ma sulla vulnerabilità organizzata, sulla potenza del gesto piccolo che infrange il silenzio.
11. Corpi fuori posto: la paura della visibilità
Uno dei tratti più radicali della protesta del 25 maggio 1969 fu la presenza fisica dei corpi queer nello spazio pubblico, e non tanto il contenuto dei volantini, che pure erano importanti, ma l’atto stesso di esserci. Di essere lì: riconoscibili, leggibili, vulnerabili e — finalmente — ingovernabili.
Il corpo queer che rompe l’anonimato è sempre un evento politico. È il corpo che sfida l’architettura del controllo, che si espone allo sguardo, che trasforma il marciapiede in arena. La sua sola presenza incrina la pretesa di neutralità dello spazio urbano. Il suo modo di camminare, di vestirsi, di guardare, scompone il codice della rispettabilità.
In un’Italia ancora piegata dal moralismo e dal maschilismo cattolico, il corpo deviante fa paura. Ma non perché fa male: fa paura perché mostra un’alternativa, perché è prova vivente che esiste un fuori dalla norma, che si può abitare un’esistenza non regolata dalla riproduzione, dal binarismo, dalla vergogna.
Ecco perché i corpi delle persone trans* erano — e sono tuttora — i più perseguitati: perché portano l’ambiguità nel cuore stesso dell’ordine simbolico. Non sono solo “fuori norma”: sono la prova che la norma è costruita. Per questo vengono prima ridicolizzati, poi invisibilizzati, poi criminalizzati. La società non sopporta il corpo che contraddice la biologia come destino.
Il 25 maggio fu la prima volta, forse, in cui questi corpi italiani queer non chiesero più di essere compresi, curati o perdonati. Chiesero solo di essere lasciati in pace. Ma lo fecero visibilmente. E questo bastò per essere considerati sovversivi.
12. La piazza come spazio di soglia
La piazza — quella vera, fisica, urbana — è sempre una soglia tra l’ordine e la sua contestazione. Non a caso i regimi la temono, i governi la sorvegliano, e i movimenti la invocano. Ma per le soggettività LGBTQIA+, la piazza è ancora di più: è uno spazio rituale.
È lì che il corpo queer compie la sua mutazione da soggetto deviante a soggetto politico. È nella piazza che la solitudine diventa gruppo, che l’ansia si tramuta in voce collettiva. La piazza è lo spazio dove l’“io” si pluralizza senza perdersi, dove la marginalità non si annulla ma si connette.
La protesta fiorentina accadde non in un bar o in un’abitazione privata, ma in strada, là dove il rischio era massimo. La decisione di manifestare non fu semplicemente tattica. Fu profondamente simbolica. La città appartiene anche a noi, dicevano quei corpi — anche se non ci volete, noi esistiamo. E questo gesto è il contrario della richiesta di tolleranza: è una dichiarazione di legittimità.
Non serve un corteo di cinquantamila per cambiare la storia. Basta che qualcuno, per la prima volta, non si nasconda più. La piazza di Firenze fu piccola, ma bastò a mostrare che la soglia era stata oltrepassata.
13. La normalità è una menzogna (e un’arma)
Ogni sistema repressivo ha bisogno di un centro apparente, di un’idea di equilibrio a cui ancorarsi per legittimare la punizione del diverso. Questo centro si chiama “normalità”, parola docile e feroce, usata ovunque e raramente messa in discussione. Eppure, la normalità non esiste in natura: è un costrutto culturale, una finzione narrativa elaborata per escludere.
Nel 1969, la “normalità” italiana è bianca, maschile, eterosessuale, cattolica, coniugata e silenziosa. Tutto ciò che devia da questa immagine non è semplicemente “diverso”: è perturbante, potenzialmente pericoloso, patologico o criminale. L'omosessuale non è “uno che ama diversamente”, ma uno che mette in crisi il concetto stesso di mascolinità. La donna trans non è “una che cerca sé stessa”, ma una che disfa l’ordine naturale dei generi.
La “normalità” è uno strumento coloniale interno: definisce il centro e lo protegge producendo la marginalità come sua ombra necessaria. Non è quindi un ideale positivo, ma una griglia di esclusione, un confine, una sentenza. E ogni soggettività queer è una sua disobbedienza incarnata.
I manifestanti del 25 maggio non chiedevano di essere “normali”, ma di non essere più schiacciati da quella finzione. Il loro gesto non fu un tentativo di normalizzazione, bensì di liberazione dalla tirannia del concetto stesso. Non volevano diventare come gli altri: volevano il diritto di essere come sono, senza doversi nascondere né correggere.
14. Ricordare è un atto rivoluzionario (e queer)
Quando si parla di memoria queer, non si parla mai solo del passato. Si parla di presente e di futuro, perché ricordare, per le soggettività marginalizzate, non è mai un gesto neutro. È un’azione politica, una sfida all’oblio imposto, una vendetta simbolica contro chi ha cercato di cancellarti.
Raccontare oggi la protesta di Firenze significa rimettere in circolo nomi, corpi, desideri, paure che il discorso dominante aveva espulso dalla storia. Significa dire: “c’eravamo anche noi”. Ma non in una nostalgia folkloristica: in una linea di combattimento, in una continuità di lotte.
La memoria queer non ha monumenti, ma ha archivi viventi, sguardi che si incrociano tra chi c’era e chi oggi resiste. Non è una collezione ordinata: è una costellazione ribelle. Ogni volta che recuperiamo un volantino, un’intervista, un articolo, non stiamo solo archiviando: stiamo armando il presente di consapevolezza, stiamo creando genealogie.
Ricordare è anche un modo per smascherare la violenza sistemica dell’oblio. Perché dimenticare è una scelta politica, sempre. E ricordare, per chi è stato cancellato, è un atto di autoaffermazione, di cura collettiva, di giustizia poetica.
Non celebriamo il 25 maggio solo perché fu il “primo” gesto, ma perché continua a parlare nei gesti di chi oggi lotta, scrive, si espone, ama, con lo stesso coraggio. E in un’Italia che continua a produrre repressione, questa memoria non è una fiaccola: è un incendio.
15. L’attivismo come legame affettivo
Quando si parla di “attivismo”, si tende spesso a immaginarlo come un esercizio politico arido, fatto di slogan, comunicati e manifestazioni. Ma per chi è queer, e per chi vive una marginalità strutturale, l’attivismo è prima di tutto un atto d’amore. Non è solo opposizione al potere: è cura, legame, sopravvivenza collettiva.
I gesti di quel 25 maggio 1969 — la decisione di uscire per strada, di sfidare l’ostilità e i manganelli, di distribuire volantini — sono in sé atti profondamente affettivi. Quei corpi, insieme, non solo rivendicavano diritti: si sostennero, si tennero per mano nell’urto contro il disprezzo. Si riconobbero.
L’affettività queer non è un corollario della lotta: è il suo cuore pulsante. Perché chi viene espulso dalla famiglia, dalla scuola, dal lavoro, ha bisogno di nuove costellazioni affettive, di nuove forme di appartenenza che non siano gerarchiche, ma orizzontali, fluide, nutrienti.
Ogni collettivo LGBTQIA+ che nasce è una risposta a un trauma. Ogni assemblea, ogni volantino, ogni abbraccio scambiato fuori da un centro sociale, è una piccola riappropriazione del diritto di esistere. La politica queer, come ci ricorda Audre Lorde, nasce dalla carne, dal desiderio, dalla tenerezza. Non si tratta solo di abbattere muri, ma di creare spazi in cui respirare insieme.
Ecco perché, nel ricordo della protesta fiorentina, non c’è solo rabbia: c’è anche commozione. Perché quei pochi corpi che sfidarono la polizia e la vergogna sociale non erano soli, e non lo sono ancora oggi. Esiste una genealogia affettiva della ribellione queer, fatta di sguardi, carezze, lettere, baci dati di nascosto, e finalmente — anche — urla in piazza.
16. Queer è anche antifascista, anticoloniale, anticapitalista
Ogni lotta queer che non riconosce i suoi intrecci con altre lotte di liberazione è destinata a diventare una caricatura rispettabile, integrata e inutile. Il 25 maggio 1969 fu un gesto queer, ma anche profondamente antifascista. E lo fu per la sua sfida all’ordine patriarcale, al controllo poliziesco, alla normazione dei corpi e dei desideri.
In quel momento, Firenze non era solo la città degli Uffizi e dell’Arno, ma anche un epicentro di repressione morale. La stampa, la Chiesa, la polizia: tutte le forze dell’ordine simbolico erano schierate contro quella “devianza”. Ma la devianza non era un accidente: era un sintomo, una crepa nell’edificio borghese che cercava di restaurarsi dopo le ondate del Sessantotto.
Chi scese in piazza quel giorno non voleva diventare “buon cittadino”: voleva rovesciare le regole. In questo senso, la loro azione anticipava ciò che oggi chiamiamo intersezionalità: non si può liberare il desiderio se non si abbattono anche le prigioni del razzismo, del sessismo, del nazionalismo, del dominio coloniale.
La repressione contro i corpi queer è sempre stata anche una forma di controllo economico e sociale: punire chi non produce secondo logiche neoliberali, chi ama senza creare famiglie nucleari, chi fugge ai binari di genere e ruolo. Il capitalismo, che finge di essere neutro, in realtà nutre e si nutre dell’esclusione.
Ed è per questo che ogni Pride, ogni occupazione, ogni flash mob che rivendica orgoglio e liberazione queer non può che essere anche anticapitalista. Non per ideologia, ma per coerenza materiale. Perché non basta voler “essere accettati”: occorre disinnescare l’intero meccanismo che genera esclusione.
17. Il corpo come terreno di lotta e il peso della vergogna
Il corpo queer è da sempre un campo di battaglia. Nel 1969, come oggi, non si combatteva solo per i diritti legali, ma per la liberazione del corpo dalla vergogna imposta. In una società che equipara la sessualità “normale” a qualcosa di naturale e giusto, il corpo queer diventa sinonimo di trasgressione, scandalo, pericolo.
La repressione poliziesca è quindi anche un tentativo di “normalizzare” quei corpi, di annientarne la visibilità, di trasformarli in corpi silenziosi e invisibili. Ma ogni gesto di resistenza — come la protesta di Firenze — è una dichiarazione di possesso del proprio corpo, del proprio piacere, della propria identità.
La vergogna, che per molto tempo ha segnato la vita delle persone LGBTQIA+, è un’emozione imposta dall’esterno, un dispositivo di controllo. Liberarsi dalla vergogna significa sottrarre ai poteri repressivi l’arma più efficace che hanno: la paura del rifiuto, dell’emarginazione, della violenza.
In questo senso, la rabbia che animava quei manifestanti era anche rabbia contro la vergogna: un grido che diceva “non siamo più disposti a nasconderci, a sentirci sporchi, sbagliati, indegni”. Quel grido è una rivendicazione di dignità incarnata.
Il corpo diventa quindi, nella storia queer, non solo soggetto di violenza, ma anche luogo di resistenza e di affermazione. Un corpo che osa mostrarsi, abbracciarsi, amare pubblicamente, diventa un atto politico e poetico.
18. Narrazioni autonome: riscrivere la storia queer
Raccontare la protesta del 25 maggio non è solo un esercizio di memoria: è un atto di riappropriazione storica. La storia ufficiale tende a cancellare o banalizzare le lotte queer, relegandole a episodi marginali o folkloristici. Costruire narrazioni autonome significa invece rimettere al centro quelle voci, quei corpi, quei desideri che furono negati.
La narrazione dominante, soprattutto negli anni ’60 e ’70, è quella del conformismo: gli attivisti LGBTQIA+ sono o “vittime” o “eccentrici”, mai protagonisti delle proprie storie. La protesta fiorentina sfida questa rappresentazione, ponendo le basi per una storia scritta dai soggetti queer stessi.
Questa riscrittura è necessaria per sottrarre la memoria queer al rischio della strumentalizzazione o della museificazione. Solo attraverso narrazioni autonome si può mantenere viva la dimensione politica e trasformativa della storia LGBTQIA+.
Inoltre, narrare in modo queer significa anche de-costruire il tempo lineare, recuperare i tempi spezzati e i frammenti, e costruire una storia che sia fatta di connessioni, sovrapposizioni, conflitti e ricomposizioni.
La protesta del 25 maggio diventa così una mappa di riferimento, un nodo da cui partire per tracciare tutte le altre battaglie, visibili e invisibili, del movimento queer italiano. Ogni racconto che la richiama è un atto di ribellione contro l’oblio e l’omertà.
19. La responsabilità intergenerazionale e la memoria attiva
La memoria della protesta del 25 maggio 1969 a Firenze non deve restare un ricordo congelato nel passato, ma diventare una memoria attiva, un ponte tra generazioni. Le persone LGBTQIA+ di oggi, spesso immerse in un contesto diverso, più visibile e talvolta più accettato, hanno la responsabilità di riconoscere da dove vengono le conquiste e da quali sacrifici nascono.
Questa responsabilità è anche un dovere politico: non dimenticare significa continuare a lottare, soprattutto in un presente che spesso sembra voler riaffermare vecchie forme di esclusione e violenza. La memoria attiva si traduce in educazione, in narrazioni condivise, in pratiche di solidarietà che non lascino indietro nessuno.
La conoscenza di quelle prime scintille di rivolta permette alle nuove generazioni di riconoscere la propria eredità, di capire che l’orgoglio e la libertà si costruiscono ogni giorno, anche nel quotidiano, con la tenacia e il coraggio di chi, prima di loro, ha detto “basta”.
20. Lotta continua: il movimento LGBTQIA+ tra presente e futuro
La storia del 25 maggio è un monito e un invito. Il monito è che la lotta per i diritti non è mai conclusa, perché le forme di oppressione si trasformano e rinnovano. L’invito è a non smettere mai di scendere in piazza, di denunciare, di tessere legami solidali.
Oggi, mentre in Italia e nel mondo si approvano leggi repressive, si attaccano le minoranze e si tenta di rimettere in “ultima fila” chi è diverso, la protesta queer torna ad avere un valore centrale. Non solo come difesa, ma come proposta radicale di trasformazione sociale.
Il movimento LGBTQIA+ continua a essere un laboratorio di nuove forme di comunità, di affetto, di resistenza. Non si tratta solo di ottenere pari diritti formali, ma di ripensare le strutture di potere, i modelli di famiglia, le definizioni di identità.
Il 25 maggio 1969 ci ricorda che la ribellione parte da un gesto semplice, ma potente: non tacere più, non accettare più l’ingiustizia, rivendicare la propria esistenza con orgoglio e forza.
Questa è la lezione che il passato ci consegna e che ci spinge a costruire un futuro di libertà autentica per tutte e tutti.