sabato 24 maggio 2025

L’irriducibile: Céline tra forma e infamia nella ricezione postbellica

Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (1941) è, a prima vista, uno dei primi tentativi sistematici di incasellare l’autore di Voyage au bout de la nuit in una struttura critica coerente. Ma una simile affermazione, seppur formalmente esatta, rischia di eludere del tutto la natura ideologicamente fondata del testo, il suo intento non tanto esegetico quanto paradigmatico, e la sua funzione strategica all’interno della temperie culturale e politica francese del primo quarantennio del Novecento. Bardèche, già allora figura centrale di un’intellettualità di destra che oscillava tra estetismo radicale e impegno reazionario, costruisce un profilo di Céline non tanto biografico quanto “teologico-politico”: lo eleva a figura emblematica di una letteratura che si vuole antidemocratica, antiborghese, visceralmente antiumanista. L’intero impianto del volume si fonda su una volontà di legittimazione che eccede il perimetro della critica letteraria: Bardèche offre una canonizzazione laica, un’intronizzazione ideologica.

Il contesto è decisivo: la pubblicazione del saggio avviene nel 1941, in pieno regime di Vichy, quando il dibattito letterario si intreccia sempre più strettamente con l’orizzonte politico e il giudizio estetico assume, in certi ambienti, la forma di un atto di militanza. Bardèche, in quanto cognato e sodale di Robert Brasillach, non si limita a interpretare Céline, ma lo integra in una visione culturale organica, nella quale la dissoluzione del soggetto moderno, la decadenza dell’umanesimo e il rifiuto del liberalismo si saldano con una forma di nichilismo stilizzato, mutuato dallo stesso universo romanzesco céliniano. In tale prospettiva, Louis-Ferdinand Céline non è una semplice biografia letteraria, ma una tessitura ideologica, un dispositivo retorico che cerca di rendere Céline compatibile con un’estetica della reazione. Non si tratta di analisi testuale, bensì di costruzione mitopoietica.

Il risultato è un testo che anticipa molte delle linee interpretative che verranno poi sviluppate — o contestate — nella lunga e travagliata ricezione critica di Céline nel secondo dopoguerra. Se, da un lato, Bardèche è tra i primi a cogliere la frattura stilistica introdotta da Voyage e Mort à crédit, la rottura sintattica, il ritmo sincopato, la voce bastarda che destabilizza il francese letterario canonico, dall’altro lato il suo saggio appiattisce tale innovazione linguistica su una lettura moralizzante, fondata su una presunta “verità negativa” dell’esistenza, che Céline incarnerebbe nella sua radicalità. In tal modo, la scrittura non è più oggetto di indagine formale, ma diventa testimonianza: la conferma di una verità preesistente, di un universo già giudicato e condannato. L’opera diventa documento e l’autore profeta.

È qui che si manifesta con maggiore evidenza la distanza tra l’intervento di Bardèche e la successiva fortuna critica di Céline, che sarà caratterizzata da una progressiva separazione tra il giudizio estetico e quello politico — separazione che, a dire il vero, non riuscirà mai a stabilizzarsi del tutto. Dal secondo dopoguerra in poi, infatti, la figura di Céline diventerà il perno attorno a cui si articoleranno innumerevoli discorsi critici, spesso contraddittori, talvolta paradossali, sempre infiammati. Biografie, studi filologici, edizioni annotate, pamphlet, saggi politici, romanzi ispirati alla sua figura: il corpus secondario céliniano si gonfia fino a diventare, di fatto, un genere autonomo. In questo panorama, il testo di Bardèche, con la sua mistura di adesione ideologica, lucida apologia e lettura “visionaria”, assume un valore inaugurale: è il primo esempio di quella coazione interpretativa che accompagnerà perennemente la ricezione dell’opera céliniana, una forma di esegesi ossessiva che tenta, senza riuscirvi, di chiudere una volta per tutte il “caso Céline”.

Nel secondo dopoguerra, l’opera di Louis-Ferdinand Céline si configura come uno degli oggetti più ambigui e infiammabili della moderna coscienza letteraria europea. Non solo perché essa sorge, si sviluppa e culmina in un’epoca segnata da tensioni ideologiche e cataclismi morali, ma soprattutto perché sfida strutturalmente — nella forma e nel contenuto — ogni tentativo di riduzione, di storicizzazione pacificante, di incasellamento canonico. La crisi della ricezione céliniana è, fin dall’inizio, una crisi della critica stessa, chiamata a misurarsi non con un corpus testuale meramente controverso, ma con un’opera che sembra incarnare la collisione frontale tra estetica e infamia, tra modernità linguistica e abiezione politica.

È in questo contesto che emerge, come figura di riferimento imprescindibile, Henri Godard: filologo, critico, docente, e curatore dell’edizione Pléiade delle opere céliniane presso Gallimard. Il lavoro di Godard, lungo decenni, ha rappresentato il tentativo più coerente, più meditato e più profondo di affrontare la totalità dell’opera di Céline — dai romanzi canonici ai testi minori — senza cedere né all’apologia né alla condanna sommaria. Ciò che distingue Godard non è soltanto l’ampiezza dell’orizzonte critico, ma la capacità di mantenere uno sguardo doppio: da un lato, l’analisi formale e linguistica della rivoluzione céliniana, che trasforma la sintassi francese in uno strumento ritmico, spezzato, allucinato; dall’altro, la ricostruzione del contesto intellettuale e politico entro cui tale rivoluzione si sviluppa, e da cui trae energia, deformazione e ombre. In opere come Céline: le cri dans la prose, Godard ha saputo restituire la portata antropologica della scrittura céliniana: una lingua “scavata dall’interno”, in cui il delirio narrativo è sempre anche diagnosi culturale, e la deformazione è cifra tragica del reale, non semplice esibizione stilistica.

Godard non ha mai rimosso né il collaborazionismo né l’antisemitismo di Céline: li ha anzi affrontati con una lucidità spietata, ponendoli al centro della tensione critica. Per lui, l’oscillazione tra genio e catastrofe non è accidente ma struttura: l’opera di Céline, anche nei suoi vertici romanzeschi (Voyage au bout de la nuit, Mort à crédit, Rigodon), è già percorsa da un disagio ideologico che non può essere dissociato dal gesto artistico. La sua idea di lettura integrale si traduce così in una critica capace di tenere insieme il corpo del testo e le sue pulsioni — linguistiche, politiche, paranoiche — senza ridurlo mai né alla semplificazione morale né all’estetismo.

Ben diverso è l’approccio di Philippe Alméras, la cui produzione su Céline — a cominciare da Céline: entre haines et passion — si situa su un crinale più instabile e spesso discusso. Storico della collaborazione, ma anche esegeta controverso, Alméras si è mosso in una zona liminale tra rigore documentario e tendenza apologetica. Nella sua lettura, l’antisemitismo di Céline viene spesso descritto come una sorta di “scivolamento psicopatologico”, una componente accessoria o delirante, che non intacca — secondo lui — la coerenza letteraria dell’autore. In questa operazione si può cogliere un tentativo di normalizzazione, se non addirittura di “riabilitazione” implicita: una strategia che riconosce le derive ideologiche ma tende a isolarle dal nucleo dell’opera, come se i pamphlet antisemiti fossero incidenti collaterali e non, come invece mostrano molti studi recenti, espressioni organiche di un immaginario già presente — seppur trasfigurato — nei testi narrativi.

Tale posizione ha attirato numerose critiche, soprattutto da parte di studiosi che vedono in Alméras un erede tardivo del clima bardéchiano, dove l’autore Céline — perseguitato, frainteso, ostracizzato — viene assunto come figura vittimaria, incarnazione di un “genio maledetto” più volte stritolato dall’ideologia dominante. Questa linea interpretativa, per quanto lontana dalla violenza retorica dei testi di Bardèche, ne mantiene l’impianto: la trasvalutazione del paria in testimone, l’assorbimento del rifiuto in statuto poetico, la disattivazione critica dell’odio in singolarità irriducibile. Eppure, proprio questa tendenza dimostra quanto Céline resti, anche decenni dopo la sua morte, una figura inaggirabile e disturbante: un autore che costringe la critica a rivelare i propri assunti morali e metodologici, a esporsi nella propria vulnerabilità ermeneutica.

Ma il punto culminante della discussione contemporanea su Céline — e, più in generale, del rapporto tra letteratura e memoria storica — è rappresentato dalla controversia suscitata dall’annuncio, nel 2017, di una possibile ristampa dei tre pamphlet antisemiti (Bagatelles pour un massacre, L’École des cadavres, Les Beaux Draps) da parte di Gallimard. L’editore, che da decenni cura e custodisce l’edizione Pléiade dell’autore, aveva previsto una nuova edizione dei testi, accompagnata da un apparato critico e filologico rigoroso, affidato a Jean-Pierre Dauphin e all’esperta Véronique Robert-Chovin. Ma la notizia, trapelata prima ancora della pubblicazione, ha innescato un’ondata di proteste, prese di posizione istituzionali e dibattiti pubblici di altissima intensità. Serge Klarsfeld, in rappresentanza delle associazioni di memoria ebraica, ha espresso un’opposizione durissima, sottolineando il rischio di riattivazione simbolica di testi profondamente offensivi e, in alcuni passaggi, incitanti all’odio.

Il problema non era — e non è — solo editoriale, ma filosofico: come si può pubblicare, in un contesto democratico e memoriale, testi che non sono solo opinioni estreme, ma vere e proprie costruzioni ideologiche violente, spesso strutturate con precisione retorica per disumanizzare l’altro? La letteratura — si è detto da più parti — ha diritto a tutto; ma quando un testo è costruito non per allargare l’orizzonte dell’umano, ma per ridurlo, per colpirlo, per delegittimarlo, la sua trasmissione editoriale deve essere interrogata non in nome della libertà astratta, ma della responsabilità storica. Ecco dunque che la figura di Céline, lungi dall’essere pacificata, torna a interrogare le categorie stesse della critica, dell’etica e dell’editoria.

Gallimard, dopo un iniziale tentennamento, ha deciso di sospendere il progetto, almeno temporaneamente. Ma il segnale è ormai chiaro: Céline resta una ferita aperta, un enigma che nessuna edizione può sanare del tutto. I suoi pamphlet, ancora oggi non disponibili in edizione corrente, circolano nei circuiti paralleli, fotocopiati, digitalizzati, ripubblicati da editori minori, e usati — talvolta — come strumenti ideologici. Ecco allora che la loro assenza dal catalogo ufficiale non equivale a un’oblazione, ma a un rimosso che ritorna: una censura che si fa presenza fantasmagorica, e che obbliga la critica a un supplemento di interrogazione.

In ultima analisi, la ricezione postbellica dell’opera céliniana non è semplicemente un capitolo di storia letteraria: è una cartografia delle nostre tensioni culturali, delle nostre aporie critiche, dei nostri limiti epistemologici. Céline costringe a chiedersi cosa sia un’opera letteraria, dove finisca l’estetico e dove cominci il politico, se esista una “colpa” della forma, o se la forma possa redimere — o mascherare — la colpa. La sua opera, nel bene e nel male, rimane una camera di risonanza delle patologie del Novecento, e ogni tentativo di leggerla senza esserne turbati, contraddetti o compromessi, rischia di fallire in partenza.

Se si volesse delineare una genealogia degli studi céliniani, Louis-Ferdinand Céline andrebbe considerato come il momento fondativo di un discorso critico che, proprio a causa della sua torsione ideologica, costringe ogni successivo interprete a posizionarsi rispetto ad esso. In tal senso, il libro di Bardèche non solo inaugura un discorso, ma ne condiziona la forma: ogni nuova lettura dovrà prendere le distanze, fare i conti, riflettere sul proprio stesso statuto. La questione non sarà più tanto cosa dice Céline, ma come possiamo ancora leggere Céline, da dove lo leggiamo, e a quale costo.