lunedì 12 maggio 2025

Jean Dubuffet e l'Art Brut: libertà e identità nell'arte contemporanea

Jean Dubuffet, figura rivoluzionaria e carismatica dell’arte europea del secondo dopoguerra, ha lasciato un segno profondo e provocatorio nella storia dell’arte contemporanea, opponendosi apertamente ai canoni estetici dominanti e proponendo una visione antiaccademica, viscerale, liberata da ogni forma di manierismo. La sua attività artistica fu contrassegnata da un instancabile desiderio di rompere le regole, di destrutturare il bello convenzionale e restituire dignità espressiva a ciò che la cultura ufficiale aveva sempre relegato ai margini. In particolare, Dubuffet è conosciuto per aver coniato il concetto di Art Brut, l’arte “grezza”, creata al di fuori del sistema dell’arte istituzionalizzata, spesso da autodidatti, bambini, malati psichici o reclusi, che egli considerava custodi di un’autenticità perduta.

Il suo lavoro si distingue per l’uso di materiali insoliti e poveri – sabbia, catrame, cenere, paglia, cemento – miscelati con la pittura a olio, per ottenere superfici fortemente materiche, quasi crostose, dove la gestualità diventa corpo e graffio, ferita e rilievo. Questa scelta materica non era affatto decorativa: per Dubuffet rappresentava un atto radicale di restituzione del mondo alla sua dimensione più brutale e immediata. I suoi quadri e le sue sculture sembrano scaturire da un’energia primigenia, infantile, a volte ironica, altre volte inquietante, sempre tesa a rivelare il fondo più nascosto e pulsante dell’essere umano. Era profondamente convinto che l’arte dovesse sgorgare senza mediazioni, direttamente dall’istinto, dal corpo, dal subconscio.

Nel suo studio, a Vence prima e poi a Parigi, si respirava un’atmosfera febbrile, come se lo spazio stesso si fosse trasformato in un’estensione della sua mente irrequieta. Grandi vetrate lasciavano entrare una luce diffusa, essenziale per i suoi lavori stratificati, mentre i materiali erano sparsi ovunque: barattoli, sabbie, oggetti trovati, tele cucite, e cartoni grezzi. Dubuffet lavorava spesso a terra, inginocchiato o piegato, aggredendo letteralmente la superficie, come in un rito tribale. Il suo rapporto con la creazione era fisico, quasi carnale. Non disdegnava nemmeno la tridimensionalità: molte delle sue opere si trasformavano in vere e proprie installazioni, ambienti da attraversare e abitare, come accade nella serie Coucou Bazar, dove pittura, scultura e performance si fondono in un’unica esperienza sensoriale.

Per entrare più a fondo nel suo universo creativo, è disponibile un video significativo:
Jean Dubuffet's World within a World - Sotheby’s,
che mostra come Dubuffet non volesse soltanto rappresentare il mondo, ma inventarne uno nuovo, parallelo, popolato da segni, colori e forme che sfuggono a ogni classificazione. La sua visione era quella di un’arte totalizzante, capace di inglobare ogni aspetto della realtà e deformarla per farne emergere la verità più profonda, anche a costo di scandalizzare o disorientare.

Dubuffet non fu soltanto un pittore o uno scultore, ma un autentico teorico dell’arte, un pensatore sistematico del disordine, uno sperimentatore ossessivo che rifiutava i confini tra generi, tecniche e discipline. Il suo pensiero è documentato in numerosi scritti, spesso redatti in uno stile idiosincratico, frammentario, carico di neologismi e spiazzanti cambi di registro: non solo un mezzo per chiarire il proprio lavoro, ma una vera e propria estensione concettuale della sua arte. In testi come Asphyxiante culture (1951), Dubuffet attacca frontalmente il sistema culturale borghese, colpevole – secondo lui – di soffocare la creatività genuina sotto il peso delle convenzioni, del culto dell’opera finita, della venerazione accademica del passato. In quelle pagine non c’è solo critica, ma una visione utopica e radicale: l’arte come zona franca, linguaggio primitivo, sorgente di sovversione interiore.

Un elemento centrale della sua opera è il concetto di terrain d’expérience, un “campo sperimentale” dove ogni forma visiva poteva essere testata, abbandonata, ripresa. Dubuffet costruiva veri e propri cicli – come Corps de dames, Hautes Pâtes, Texturologies, L’Hourloupe – ognuno dei quali segnava una svolta nel suo percorso e proponeva un universo autonomo, con leggi visive proprie, coerenti, spesso in opposizione al precedente. La serie L’Hourloupe, in particolare, occupò oltre un decennio della sua vita (dal 1962 in poi) e diede origine non solo a opere su carta e tela, ma a sculture monumentali, ambienti immersivi, architetture dipinte, veri e propri labirinti cromatici composti da linee nere, superfici piatte rosse, blu, bianche. L’idea era quella di un mondo parallelo, popolato da figure mobili, oggetti ambigui, dove la realtà appariva solo come una traccia – deformata, giocosa, instabile.

In parallelo alla produzione plastica e pittorica, Dubuffet raccolse, catalogò e promosse instancabilmente opere di artisti “non ufficiali”, con una dedizione quasi museale. La collezione di Art Brut che egli donò alla città di Losanna nel 1971 costituisce tuttora uno dei nuclei più ricchi e sorprendenti di arte outsider al mondo. Dubuffet non si limitava a raccogliere questi lavori come curiosità etnografiche, ma li considerava esempi supremi di verità espressiva, liberi da ogni corruzione culturale. Per lui, un disegno di un paziente psichiatrico poteva contenere una forza visionaria mille volte superiore a quella di un’opera da galleria. In questo senso, il suo ruolo non fu solo quello di artista, ma anche di “archivista dell’inconscio collettivo”, custode di una contro-storia dell’arte.

L’atteggiamento di Dubuffet verso la creazione era profondamente anarchico, ma anche intriso di una spiritualità laica, fatta di immersione totale nell’atto del fare. Il suo studio non era uno spazio ordinato, bensì un caos organizzato, un organismo vivo dove tutto poteva diventare opera – un bastone, un ritaglio, un pezzo di stoffa, un graffio sulla parete. Osservare Dubuffet al lavoro significa assistere a una specie di trance lucida, a un rituale in cui l’artista si dissolve nel gesto, e in cui l’errore, il caso, l’informe sono accettati come collaboratori invisibili. Questo modo di fare, lontano anni luce dalla precisione fredda del modernismo geometrico, ha esercitato un’influenza sotterranea ma potente su generazioni di artisti, da Jean-Michel Basquiat a Anselm Kiefer.

Addentriamoci in alcune delle opere cardine di Jean Dubuffet, per poi concentrarci su due progetti architettonici visionari e fondamentali nella sua parabola artistica: La Closerie Falbala e Le Jardin d’Hiver.

Opere principali: tra materia, visione e sovversione

Uno dei primi momenti di rottura esplicita con la pittura tradizionale si verifica con la serie delle Hautes Pâtes (1945-1947), in cui Dubuffet impasta materiali grezzi — sabbie, gessi, catrame, ceneri, trucioli — mescolandoli alla pittura ad olio in spessori talvolta monumentali. Opere come Vue de Paris: la Rue Galande o Le Métafizyx rivelano una Parigi oscura, rugosa, deformata, abitata da presenze simili a graffiti rupestri, come se la città fosse un corpo scabroso da esplorare col tatto più che con lo sguardo. Queste tele non si possono “guardare” soltanto: vanno attraversate, come se la superficie pittorica fosse un suolo disordinato, stratificato di storia e pulsazioni primitive.

Negli anni ’50 Dubuffet si immerge nella serie delle Texturologies, astrazioni microscopiche e ripetitive che esplorano la trama della materia stessa, quasi come se si stesse osservando la pelle della terra o il reticolo di una corteccia al microscopio. È un periodo di introspezione e analisi formale, in cui l’artista si interroga sul confine tra immagine e struttura, tra caos e ordine. Le opere di questa fase — ad esempio Texturologie VI o Champ de pierres — appaiono come paesaggi interiori, deserti mentali in cui ogni segno ha una dignità autonoma e al tempo stesso si dissolve nell’insieme.

Ma è con L’Hourloupe che Dubuffet spalanca le porte a un immaginario senza precedenti. Cominciata nel 1962 e durata oltre dodici anni, questa serie nasce da alcuni disegni a penna fatti durante telefonate, da cui egli sviluppa un lessico visivo che abbandona la materia grezza per privilegiare la linea: spessa, nera, serpentina, che delimita campiture piatte rosse, blu e bianche. Le figure — umane, animali, architettoniche — si deformano, si moltiplicano, si fondono. L’Hourloupe non è solo uno stile, ma un mondo, uno spazio alternativo abitato da personaggi totemici e oggetti volubili. È un universo psicotropo, dove ogni cosa è soggetta a mutazione continua. Opere come Le Banlieusard o Praticables sono esempi emblematici di questa vertigine plastica: mobili, scale, corpi, città diventano enigmi visivi, quasi ideogrammi.

La Closerie Falbala (1971-1973): architettura della mente

Realizzata a Périgny-sur-Yerres, a sud-est di Parigi, La Closerie Falbala è un monumento autobiografico e poetico, un luogo mentale reso architettura, che Dubuffet concepisce come contenitore per il suo capolavoro pittorico, Le Cabinet Logologique. Ma non si tratta di un semplice edificio: La Closerie è un’opera totale, una costruzione onirica in vetroresina dipinta, che riprende integralmente l’estetica di L’Hourloupe.

La struttura appare come una grande piattaforma ondulata — quasi un foglio spiegazzato, un paesaggio cerebrale — delimitata da muri sinuosi, squillanti di nero, rosso e blu. Al centro, una piccola “casa” geometrica, che custodisce lo spazio sacro del Cabinet. L’esterno è un giardino illusorio, ma anche una mappa mentale: ogni elemento sembra uscito da un sogno stilizzato. Entrarvi significa abbandonare ogni riferimento reale e accedere a una sorta di cervello reso ambiente, in cui i pensieri prendono forma scultorea.

Questa creazione non era destinata al pubblico, ma a pochi iniziati, visitatori solitari e silenziosi. Dubuffet concepisce La Closerie come uno spazio di riflessione profonda, quasi un tempio privato dell’immaginazione. È l’estensione architettonica del suo universo visivo, dove l’arte non è rappresentazione, ma condizione esistenziale.

Le Jardin d’Hiver (1968-1970): la natura reinventata

Diversa, ma altrettanto radicale, è l’opera Le Jardin d’Hiver, concepita come spazio immersivo e sensoriale. Lontano da ogni idea naturalistica, questo “giardino d’inverno” è un ambiente chiuso, interamente dipinto secondo le regole di L’Hourloupe, dove pareti, pavimenti, colonne, sedute, alberi, funghetti, creature, sono parte dello stesso continuum visivo.

La natura viene reinventata come sistema di segni, stilizzata in forme essenziali e ipnotiche: qui si passeggia tra simboli, non tra fiori. Tutto è soffice, tondeggiante, pittorico, disorientante. È un anti-giardino, dove la vegetazione non cresce ma si ripete, dove il tempo non passa ma gira in cerchio. Come in La Closerie Falbala, anche qui Dubuffet costruisce uno spazio mentale, ma più giocoso, quasi infantile, come se la memoria di un parco venisse filtrata attraverso un sogno fumettistico.

Oggi conservato a Villeneuve-d’Ascq, nel LaM - Lille Métropole Musée d’art moderne, Le Jardin d’Hiver resta uno degli esempi più folgoranti di come Dubuffet sia riuscito a portare la pittura dentro la tridimensionalità, senza mai abbandonare il senso ludico e poetico dell’invenzione.

Procediamo allora a delineare l’eredità di Jean Dubuffet in due ambiti dove la sua opera ha lasciato segni duraturi, seppure talvolta carsici: l’architettura contemporanea e le arti performative. A seguire, esamineremo come la critica abbia accolto (o respinto) la sua produzione dal culmine degli anni ’70 fino all’attuale rivalutazione internazionale.


Influenze sull’architettura contemporanea: dalla de-forma al corpo architettonico

La sfida che Dubuffet lancia all’architettura è una delle più radicali del secondo Novecento: egli propone una concezione anti-geometrica, anti-funzionale e profondamente anti-modernista dello spazio costruito. Lontano dalle linee ortogonali del razionalismo e dal culto dell’efficienza, egli immagina ambienti come organismi mentali, labirinti ludici, corpi-paesaggio deformati e abitabili.

Architetti come Friedensreich Hundertwasser, Antoni Gaudí (a posteriori), ma anche esponenti più concettuali del decostruttivismo (come Frank Gehry o Zaha Hadid nei suoi momenti più liberi) hanno tratto ispirazione, diretta o indiretta, dal principio dubuffettiano secondo cui l’architettura deve emozionare, sorprendere, destabilizzare, diventare un’estensione del pensiero immaginativo. Alcune installazioni temporanee di Daniel Libeskind e gli spazi psicotropi di Peter Cook e dell’Archigram richiamano quel principio di “costruzione assurda” che Dubuffet aveva esplorato già negli anni ’60 con i suoi praticables e con La Closerie Falbala.

Ma ancor più evidenti sono le affinità con la cosiddetta architettura outsider o “visionaria”, che trova esempi nella Maison Picassiette, nel Palais Idéal di Ferdinand Cheval, nelle torri di Simon Rodia a Watts, o nelle costruzioni di Nek Chand in India: tutti spazi dove la materia è “impazzita” di segni, e l’abitare diventa una funzione poetica, non razionale.

Dubuffet viene oggi riconosciuto come un precursore delle installazioni architettoniche immersive, che trovano espressione nelle pratiche contemporanee di artisti-architetti come Thomas Hirschhorn, Pipilotti Rist, Olafur Eliasson e Ernesto Neto, per i quali lo spazio è qualcosa da attraversare con il corpo intero, come una performance continua.


Arti performative: un teatro mentale di segni mobili

Pur non essendo stato direttamente un uomo di teatro, Dubuffet ha influenzato profondamente le pratiche performative postmoderne, soprattutto attraverso i suoi praticables (oggetti mobili e ambienti abitabili creati tra il 1966 e il 1972), concepiti come “scenografie mentali” più che come ambienti statici.

Questi lavori hanno trovato eco in forme teatrali e coreografiche che rifiutano la narrazione tradizionale in favore della discontinuità, dell’assurdo, del gesto astratto. I legami sono forti con l’esperienza del The Living Theatre e, successivamente, con le pratiche di Robert Wilson, Meredith Monk, Pina Bausch, fino alle esperienze di teatro visivo e installativo più recenti, come quelle di Romeo Castellucci o Philippe Quesne, il quale ha persino omaggiato Dubuffet nel suo spettacolo La Mélancolie des dragons.

Nell’ambito della danza, coreografi come Trisha Brown e Anna Halprin hanno fatto largo uso di ambienti destrutturati e relazioni fluide tra corpo, suono e segno visivo: esattamente il tipo di spazio che Dubuffet aveva sognato nei suoi giardini cerebrali. La pittura, nel suo universo, non era mai solo bidimensionale: era evento, era comportamento, era scena.


Ricezione critica: oblio e rinascita

Negli anni ’70, Dubuffet è ancora percepito come una figura centrale dell’avanguardia francese. La retrospettiva al Guggenheim di New York nel 1973 lo consacra presso il pubblico americano, mentre in Europa la sua influenza è trasversale. Tuttavia, con l’avanzare degli anni ’80 e l’affermazione di una nuova estetica neo-espressionista (Basquiat, Schnabel, il ritorno alla pittura “forte”), Dubuffet viene spesso relegato a un ruolo marginale, considerato troppo idiosincratico per essere assimilato a una corrente specifica, e troppo “spiazzante” per il mercato.

È solo a partire dagli anni 2000, con la riscoperta dell’Art Brut come chiave per comprendere le tensioni dell’arte contemporanea, che il suo nome riemerge come nodo centrale nella genealogia del pensiero visuale. Mostre fondamentali — come Jean Dubuffet: Soul of the Underground (MoMA, 2016) e Jean Dubuffet: Brutal Beauty (Barbican, Londra, 2021) — hanno riportato in auge la sua figura, facendo dialogare la sua opera con le urgenze dell’oggi: l’inclusione dei margini, la critica al sapere accademico, il corpo come segno, la materia come verità.

Oggi Dubuffet è visto non solo come un artista, ma come un filosofo visivo del caos. La sua ricerca sulla non-forma, sul fuori luogo, sul non conforme si è rivelata profetica: ha anticipato le estetiche queer, decoloniali, e neurodivergenti che stanno rimodellando le pratiche artistiche del XXI secolo.




Parlare dell’Art Brut non significa semplicemente descrivere un genere artistico un po’ fuori dagli schemi. Significa entrare in un mondo parallelo, dove la creatività non ha filtri, non ha regole, non cerca pubblico né applausi. È come aprire una porta segreta nella casa dell’arte, e trovare una stanza buia e piena di voci — voci strane, intense, fragili, ossessive. Ma vere.

Per Jean Dubuffet, l’Art Brut non era un hobby eccentrico, né una provocazione intellettuale. Era una necessità. Era il sogno di liberare l’arte da tutto quello che la soffoca: la moda, la critica, il mercato, l’istruzione, l’ambizione. Tutto ciò che inquina, in un certo senso, il gesto creativo originario. Lui la chiamava “arte allo stato puro” — non perché fosse semplice, ma perché era radicalmente libera. Una libertà quasi selvaggia, viscerale, che poteva perfino spaventare.

Il termine Art Brut nasce proprio da lì: arte grezza, cruda, non raffinata. Ma attenzione, Dubuffet non usava “grezza” in senso dispregiativo. Al contrario, per lui era un elogio. Significava non addomesticata, non corrotta dai canoni. Un’arte nata fuori dal recinto, tra chi non si è mai sognato di entrare in un museo, o magari non ne ha mai nemmeno sentito parlare. Parliamo di bambini, pazienti psichiatrici, autodidatti totali, spiriti liberi, outsider veri. Gente che disegna per necessità, che costruisce mondi per tenere insieme la testa, che inventa simboli e linguaggi solo loro.

Dubuffet ne era talmente affascinato da creare, nel 1948, una vera e propria “Compagnia dell’Art Brut” insieme ad amici come André Breton. Più che un gruppo artistico, era una confraternita di cercatori d’oro: giravano per ospedali, soffitte, conventi, stazioni di posta — ovunque ci fosse la possibilità di scovare un’opera che nessuno avrebbe mai chiamato “arte”, e che proprio per questo aveva per loro un valore immenso. Un valore umano, espressivo, rivoluzionario.

E infatti, le opere raccolte da Dubuffet non hanno nulla a che vedere con i linguaggi artistici convenzionali. Sono cose che tolgono il fiato: fogli pieni di segni incomprensibili, intere città disegnate a mano in isolamento, templi costruiti con ciottoli da un postino in pensione, ritratti erotici di regine immaginarie disegnati da una donna rinchiusa in manicomio. L’arte, qui, è urgenza, è ossessione, è preghiera. Non decorazione.

Prendiamo Adolf Wölfli, ad esempio: internato in un ospedale psichiatrico in Svizzera per gran parte della sua vita, costruì nei suoi taccuini un universo personale, con regni, monete, musica e storie. Oppure Aloïse Corbaz, anche lei rinchiusa, che creava meravigliosi fogli pieni di imperatrici e amori assoluti, tutti tracciati con colori pastello e desideri incompresi. O ancora Ferdinand Cheval, che dopo vent’anni a portare la posta a piedi decise di costruire, pietra dopo pietra, il suo palazzo ideale nel cortile di casa. Una visione.

Ma l’Art Brut, per Dubuffet, era più di una raccolta di meraviglie. Era un atto politico. Voleva demolire il concetto stesso di cultura come gabbia. Per lui, l’arte accademica era un travestimento, una posa. L’Art Brut invece era onesta, brutale, autentica. Un’arte che non si fa bella per gli altri, che non si fa spiegare. Che nasce, semplicemente. E questo era, per Dubuffet, l’unico vero miracolo.

Questa idea, ovviamente, non è stata digerita facilmente. Negli anni, l’Art Brut è stata spesso fraintesa, banalizzata, commercializzata. In ambito anglosassone si è iniziato a parlare di Outsider Art, con un approccio a volte più aperto, a volte più superficiale. Sono nate fiere, mostre, collezioni — alcune molto serie, altre discutibili. Ma lo spirito originario di Dubuffet, quello spirito radicale, ha continuato a circolare, in forme nuove.

Oggi l’eredità dell’Art Brut si ritrova nelle pratiche di artisti neurodivergenti, in atelier protetti, in progetti sociali, ma anche nel lavoro di artisti contemporanei che rifiutano la professionalizzazione, che vogliono tornare a un gesto istintivo, libero, magari infantile. E c’è chi, come certi artisti queer o marginali, ha preso quel seme e lo ha fatto fiorire in direzioni completamente nuove: performative, rituali, poetiche.

L’Art Brut ci ricorda, insomma, che l’arte non deve per forza “parlare” la lingua dei critici. Che può esistere anche nel silenzio, nel buio, nel margine. Che può essere un sussurro, un grido, una fuga. Ma soprattutto, che può essere tua, anche se nessuno ti ha mai detto che sei un artista.




C’è una corrente sotterranea che unisce gli outsider di ieri ai nuovi corpi dell’arte queer: è una forma di resistenza, prima ancora che di estetica. Se l’Art Brut nasceva da una condizione di esclusione — mancanza di educazione, isolamento, follia diagnosticata — molte pratiche queer si nutrono oggi di una esclusione altrettanto profonda, ma non meno creativa. L’identità, in questi spazi, non è un dato, ma un costrutto da smontare, rifare, abbellire, travestire. E l’arte diventa un campo di gioco, di rivendicazione, di guarigione.

Artisti queer contemporanei come Paul Kindersley, Cassils o boychild (ma ce ne sono decine, sparsi in collettivi, spazi occupati, atelier temporanei) mettono in scena un corpo che non chiede di essere compreso, ma sopportato nella sua verità. E qui si ritorna a Dubuffet: all’idea che l’arte non debba essere bella, né pedagogica, né “giusta” secondo le norme del gusto. Deve solo essere irriducibilmente, brutalmente, esattamente ciò che è. Anche se fa male. Anche se disturba.

Nel panorama italiano, possiamo pensare anche a performer come M¥SS KETA, che, pur non essendo outsider nel senso tradizionale, ha costruito un’intera poetica attorno all’identità molteplice, mascherata, sovversiva. O al lavoro di artisti e artiste che operano in territori liminali tra arte visiva e attivismo: penso a Porpora Marcasciano quando racconta la memoria trans con gesti e simboli, o a corpi come quello di Ivana D’Accico, che si usano come strumenti visivi e politici. Questi sono discorsi che si muovono lontano dal centro — proprio come l’Art Brut — e che per questo possono toccare profondità che l’arte “normale” non osa più esplorare.

Anche le pratiche terapeutiche legate alla creatività sono impregnate, spesso inconsapevolmente, di questo lascito. L’arteterapia, le atelier di espressione libera per persone neurodivergenti, gli spazi protetti dove il disegno non serve a imparare “a disegnare”, ma a dirsi, a guarire, a sopravvivere — tutto questo è figlio della visione di Dubuffet. Non c’è bisogno di sapere cosa si sta facendo: conta che lo si faccia. Che la mano si muova. Che la carta accolga.

La cosa più commovente è che, nel mondo dell’arte contemporanea sempre più istituzionalizzato, il fantasma dell’Art Brut continua a tornare. Come un rimorso. Come un richiamo. Ogni volta che un artista decide di strappare il foglio dalle mani del mercato, ogni volta che un corpo queer si mette in scena senza chiedere permesso, ogni volta che un gesto creativo nasce prima del pensiero — là, c’è ancora Dubuffet. C’è l’Art Brut. C’è la possibilità che l’arte non serva a piacere, ma a esistere.




Oggi, più che mai, l’arte è un terreno di lotta. Non solo contro la dittatura del gusto, del mercato, ma anche contro le forze che cercano di ridurre la creatività e l’espressione a categorie rigide, uniformi, predeterminate. L’Art Brut, in questa dimensione, continua a essere un’arma potente. Per Jean Dubuffet, l’arte non era un prodotto da consumare passivamente, ma un atto di liberazione, una forma di espressione che si distaccava dalle norme convenzionali imposte dalla cultura dominante. Oggi, in un mondo dove le identità sono frequentemente imposte o ridotte a etichette che non corrispondono alla complessità dell’essere umano, questa visione diventa un atto di resistenza. E l’arte continua a essere un campo in cui le lotte per il riconoscimento delle identità marginali e il diritto all’espressione individuale si intrecciano in modi sempre più complessi e sfaccettati.

Nel panorama contemporaneo, la pratica dell’Art Brut ritorna come una critica alle logiche di normalizzazione e di esclusione. Quando pensiamo all’arte come strumento di lotta, possiamo immaginare una battaglia che non si svolge solo nei luoghi istituzionali dell’arte, come gallerie e musei, ma anche nei corpi, nelle menti e nelle voci delle persone che, per vari motivi, sono state storicamente escluse dai canoni della bellezza, della razionalità e del comportamento considerato “normale”. La lotta per il diritto alla differenza è una battaglia che oggi si intreccia con le istanze politiche di chi si sente emarginato, dimenticato, invisibilizzato dalla società. Ed è proprio in questa lotta che l’arte si rivela come un atto di potere: il potere di essere, il potere di esistere, il potere di non conformarsi.

Nel contesto contemporaneo, la politica delle identità è diventata uno degli aspetti fondamentali della battaglia culturale. Le identità di genere, la sessualità, la neurodivergenza e la diversità culturale sono diventati temi centrali nel dibattito sociale e politico. Le pratiche artistiche queer, ad esempio, sono diventate uno degli ambiti più vivaci di questa lotta per il riconoscimento delle identità non normative. Questi artisti, attraverso il corpo e la performance, rifiutano ogni tentativo di classificazione e di riduzione delle loro identità a categorie fisse. L’arte queer, quindi, non si limita a una rappresentazione della diversità, ma diventa una vera e propria strategia di sovversione, un atto politico che sfida le convenzioni sociali e culturali.

L’Art Brut ritorna come una forma di resistenza radicale. Non solo come una forma di arte che nasce dalla marginalità, ma come una filosofia che si oppone a qualsiasi forma di omologazione. L’arte che rifiuta le convenzioni, che non si preoccupa di piacere al mercato o alle istituzioni, ma che si concentra sull’autenticità dell’espressione, diventa, dunque, un potente strumento di emancipazione. La bellezza dell’imperfezione, la forza dell’autodeterminazione, la capacità di dare voce all’individuo in tutta la sua molteplicità — sono questi i temi che l’Art Brut ha saputo esplorare, e che continuano a essere al centro delle pratiche artistiche contemporanee.

In particolare, le pratiche artistiche legate alla neurodivergenza sono un campo in cui l’Art Brut ha lasciato una traccia profonda. Le persone con autismo o altre disabilità cognitive sono spesso considerate incapaci di comunicare attraverso i linguaggi convenzionali. Ma in realtà, molti artisti neurodivergenti utilizzano la creatività come veicolo per trasmettere emozioni, esperienze e mondi interiori che non possono essere raccontati in altro modo. L’arte, in questi casi, non è solo un mezzo terapeutico, ma diventa un atto di affermazione dell’esistenza. Un’esistenza che rifiuta di essere ridotta a una diagnosi, ma che si esprime in tutta la sua ricchezza e complessità. Questa forma di arte, che si collega direttamente all’Art Brut, ci insegna che la creatività non ha bisogno di essere giustificata o incasellata. Essa è, di per sé, un atto di libertà. E, nel contesto della neurodivergenza, diventa anche un atto di resistenza contro la patologizzazione delle differenze.

Allo stesso modo, le pratiche artistiche queer, che spesso operano in territori liminali, tra arte visiva e attivismo, pongono al centro il corpo come strumento di espressione e di liberazione. Artisti come Cassils, boychild o Paul Kindersley hanno dimostrato che la performance non è solo una questione di rappresentazione estetica, ma un modo di affermare la propria identità in modo radicale. La fluidità delle identità di genere, la visibilità dell’eros, l’affermazione di un corpo che non si adatta alle aspettative della società sono tutte espressioni che trovano un parallelo diretto nell’Art Brut. L’artista queer, come l’artista outsider, rifiuta le etichette e le categorie predefinite, e afferma il diritto di esistere in tutta la propria complessità e ambiguità.

L’Art Brut si collega anche a una riflessione più ampia sul ruolo dell’arte nella società. L’arte non è mai stata solo un prodotto estetico, ma un atto politico che rivendica il diritto di ogni individuo di esprimere se stesso senza subire la censura della norma. Ogni atto creativo, che sia il dipinto di un artista neurodivergente o la performance di un artista queer, è un atto di affermazione della propria identità. Ed è proprio in questa capacità di affermarsi che l’arte diventa una forza di cambiamento sociale. In un mondo che ci vorrebbe standardizzati, l’arte non è solo un mezzo per esprimere ciò che siamo, ma anche un modo per rifiutare ciò che non vogliamo essere.

L’Art Brut, quindi, continua a essere un simbolo di resistenza contro il conformismo, una filosofia che promuove la libertà dell’espressione individuale, il diritto alla differenza e la possibilità di esistere senza essere giudicati. Oggi, più che mai, l’arte ha il compito di sfidare le convenzioni e le gerarchie imposte dalla società, di rendere visibile l’invisibile e di dare voce a chi è stato escluso dal discorso dominante. L’Art Brut non è solo una pratica artistica, ma una filosofia che invita tutti noi a rifiutare le etichette, a non conformarci a un’idea predeterminata di bellezza e normalità, ma ad accogliere la diversità come una ricchezza.

Questa attualità dell’Art Brut non è solo estetica, ma anche etica. In un mondo in cui la norma vuole omologarci, l’arte continua a essere il luogo in cui possiamo finalmente essere noi stessi, nella nostra più totale autenticità. La forza di questa arte risiede nel suo potere di rivelare la bellezza dell’imperfezione, nella sua capacità di mettere in scena corpi e identità che sfidano le categorie, nella sua capacità di guarire e di risignificare. È in questo che l’Art Brut si fa atto politico, atto di liberazione, e oggi, più che mai, ci offre una via per resistere alla normalizzazione della vita e per affermare la nostra libertà creativa.