Il cinema exploitation è un genere (anzi, una galassia di generi) che nasce con un intento molto chiaro: catturare l’attenzione del pubblico sfruttando ciò che il cinema “serio” evita o censura. È un cinema che vive di scandalo, provocazione, morbosità — ma anche di pura libertà creativa. È come se dicesse: “Volete sesso? Ve ne diamo tanto. Volete sangue? Fiumi. Volete vendetta, incesto, suore sadiche, zombie nel Bronx, vampiri lesbici? Benissimo. Eccoli”.
Non è un cinema elegante, non è raffinato, non si vergogna. Anzi, più è “sporcato”, più è orgoglioso.
Il termine “exploitation” viene dagli Stati Uniti. Fin dagli anni '30, alcuni produttori iniziano a realizzare film a basso costo che sfruttano temi controversi per attrarre pubblico: sesso prematrimoniale, droga, malattie veneree. Questi film si facevano passare per educativi — ma erano solo un pretesto per mostrare cose proibite. Si proiettavano nelle periferie, nelle “grindhouse”, cinema economici dove si facevano maratone di filmacci, spesso in copie rovinate.
L’età dell’oro: anni ’60–’70, quando la censura comincia a mollare la presa, arriva l’epoca d’oro: gli anni ’60 e soprattutto ’70. L’America è attraversata da guerre, rivoluzioni, lotte razziali, rivoluzioni sessuali. Il cinema “ufficiale” è lento ad aggiornarsi, ma l’exploitation cavalca tutto in tempo reale. E nasce di tutto:
- Sexploitation: film pieni di nudità, dove le donne spesso sono presentate come oggetti del desiderio, ma anche come vendicatrici.
- Blaxploitation: neri protagonisti, pistole, soul music e lotta contro il sistema bianco. Shaft, Foxy Brown, Superfly sono i re e regine di questo filone.
- Horror splatter: sangue a fiotti, organi che volano, zombie che si mangiano i bambini.
- Cannibal movies: girati spesso nella giungla (spesso italiana camuffata), dove esploratori bianchi vengono fatti a pezzi da tribù finte.
- Nunsploitation e Nazisploitation: conventi dove le suore fanno sesso e punizioni corporali; campi nazisti pieni di torture e divise fetish — due generi scomodi, scandalosi, e oggi difficili da digerire.
- WIP – Women in Prison: donne in prigione, umiliate e poi ribelli.
Perché esiste? Perché è un riflesso oscuro del desiderio collettivo. È una zona franca, un teatro delle pulsioni. Dove le cose che non si possono dire si mettono in scena. Dove il pericolo, il vizio, la fantasia estrema diventano spettacolo. E spesso, sotto la superficie, si nasconde anche una critica al potere, alla morale ipocrita, al conformismo.
E in Italia? Siamo stati campioni del mondo. Tra gli anni ’60 e ’80, con quattro soldi, registi come Lucio Fulci, Joe D’Amato, Sergio Martino, Bruno Mattei hanno fatto horror, erotici, zombie, fantascienza, gialli. Spesso brutti, a volte geniali. Sempre coraggiosi. Alcuni oggi sono rivalutati, idolatrati all’estero come film di culto.
Il cinema exploitation non è morto. È diventato un mito. Registi come Tarantino, Rob Zombie, Nicolas Winding Refn lo citano, lo omaggiano, lo reinventano. Anche molte serie TV moderne, nel loro eccesso, gli devono qualcosa.
È un cinema dove la vergogna non esiste. E in questo, è molto più libero del cinema “alto”. È il lato oscuro della luna, ma anche il più vitale.
Lasciami prendere per mano il tuo sguardo e portarlo in una sala grindhouse, con poltrone di velluto sfondato, odore di popcorn rancido e un manifesto mezza strappato: “Ilsa, la belva delle SS”.
Siamo nel 1975. Questo è un nazisploitation, genere che già dal nome fa capire che non siamo in zona “buon gusto”. “Ilsa” è una finta comandante di un campo di concentramento nazista (ma sembra uscita da un calendario fetish), bionda, prosperosa, sadica. Tortura uomini per dimostrare che le donne sopportano meglio il dolore — e quindi meritano di comandare. Femminismo da incubo, mescolato a pornografia da bancone del bar. Il film è così esagerato da risultare quasi grottesco: corpi nudi, iniezioni, urla, erotismo squallido… eppure è diventato un cult. Perché? Perché esagera talmente tanto da mettere a nudo il meccanismo stesso della rappresentazione del potere, del sesso, della guerra. È pornografia di potere.
Altro esempio? “The Witch Who Came from the Sea” (1976): una donna disturbata, con un passato di abusi, si vendica castrando uomini famosi. Sexploitation? Psycho-thriller? Femminismo rabbioso? Tutto insieme, come in un incubo febbrile sotto LSD.
E poi ci sono i Mondo Movies, come “Mondo Cane” (1962), italiano, che con la scusa del documentario ci mostrava riti tribali, animali scuoiati vivi, donne tatuate, cibi disgustosi. Era un modo per dire: “Guarda quanto sono selvaggi gli altri”, ma in realtà era: “Guarda cosa ti eccita, anche se non lo ammetti”. Erano finti documentari sull’esotico, ma in realtà erano un gigantesco specchio dell’Occidente voyerista.
E ancora: “Faster, Pussycat! Kill! Kill!” di Russ Meyer (1965). Tre donne seminude, violente, al volante di macchine ruggenti, che uccidono uomini a caso. Una fantasia sadomaso ma anche un’esplosione di potere femminile, prima che Hollywood se ne accorgesse. Le protagoniste sono dominanti, libere, ironiche. Russ Meyer era un maniaco del seno abbondante, ma anche un proto-femminista incosciente.
Insomma: l’exploitation è come un’orgia sotto luci al neon — spesso di cattivo gusto, ma mai noiosa. È il cinema dove la realtà è truccata come una drag queen ubriaca: esagerata, disturbante, ma profondamente vera, proprio perché non finge di essere “educata”.
Allora, lascia che ti porti in un posto dove l’exploitation si sposa con la follia queer — un angolo di cinema dove le ciglia finte grondano sangue e le dive gridano con la bava alla bocca. Ti parlo di John Waters, il papa del trash, il re del cattivo gusto, l’uomo che ha fatto del disgusto un’arte.
Immagina di essere a Baltimora negli anni ’70. Il mondo gay è ancora clandestino, il femminismo combatte nelle strade, l’America è in piena nevrosi post-Vietnam. E nel mezzo, John Waters gira film con i suoi amici criminali, drag queen, tossici e freak. È exploitation? Certo. Ma anche molto di più. È un atto d’amore verso tutto ciò che la società rifiuta.
Il suo film più famoso è “Pink Flamingos” (1972), definito “il film più disgustoso mai realizzato”. Protagonista: Divine, un’icona drag obesa, spietata, irresistibile. Si fa chiamare “la persona più schifosa del mondo” — e per dimostrarlo, mangia letteralmente una cacca di cane vera sullo schermo. Fine. Nessun trucco. Nessun effetto speciale. Una sfida diretta al buon gusto, alla decenza, e a Hollywood intera.
Ma non è solo provocazione. In “Pink Flamingos” c’è un’etica: tutto ciò che la società considera mostruoso, qui è celebrato. I freak non sono vittime: sono regine. Divine non è ridicola: è una dea da temere, da ammirare. Le famiglie borghesi sono mostri sadici, le puttane sono eroine, le perversioni diventano poetiche. È il rovesciamento assoluto.
John Waters prende l’exploitation e la rende queer. Ma non nel senso elegante del queer contemporaneo: è un queer selvatico, sporco, urlato, inarrestabile. Il suo è cinema fatto in casa, montato a mano, ma con una visione feroce: fare arte dalla spazzatura, bellezza dalla devianza, poesia dal porno.
E questo vale per tutta una sottocultura: il queer exploitation, da Jack Smith a Paul Morrissey, fino a registi underground più recenti come Bruce LaBruce, che gira zombie porno gay marxisti. Sì, esatto: porno gay marxisti. Con zombie. In Canada. E la cosa straordinaria è che funziona.
Nel cinema exploitation queer, i tabù si trasformano in bandiere. La marginalità non è solo rappresentata: è esaltata, urlata, glorificata. È come se dicesse: non vogliamo essere accettati, vogliamo sovvertire tutto, e farlo vestiti da Moira Orfei sotto anfetamine.
In questo senso, l’exploitation è un’arma. E forse anche una forma di verità. Perché a volte, il vero volto della realtà non è quello lucido e ben illuminato del cinema d'autore, ma quello sporco, urlante, truccato male, di chi ha deciso di non farsi domare.
Vieni, ti porto in un cinema italiano dimenticato, ma pulsante come un erotico di mezzanotte: ti racconto di Laura Gemser, detta anche Emanuelle Nera, la regina indiscussa dell’erotico-exotic italiano anni ’70.
Siamo nel 1975. Mentre il cinema d’autore parla di alienazione borghese e inquadrature fisse, il pubblico accorre a vedere “Emanuelle nera”, di Bitto Albertini. La protagonista è una fotoreporter di colore (interpretata da Laura Gemser, attrice indonesiana naturalizzata italiana), che gira il mondo intervistando politici corrotti, sciamani africani, e soprattutto... facendo sesso con tutti. Donne, uomini, coppie, gang intere. Ma sempre con grazia. Con stile. Con vestiti che si aprono da soli, come per magia.
Emanuelle (con "m", per non confondersi con quella francese, "Emmanuelle") non è una vittima: è una donna libera, attiva, moderna. Viaggia, esplora, seduce, scappa. Emanuelle non è mai passiva. Anzi: domina. Spesso filma i suoi amanti, li incastra, li seduce per smascherarli. È un personaggio post-femminista avant la lettre, ma immerso in un’estetica da rotocalco tropicale: palme, sudore, musica funky, letti rotondi, rovine, jungle girl, incubi allucinogeni.
I film della serie — “Emanuelle in America”, “Emanuelle e gli ultimi cannibali”, “Violenza in un carcere femminile” — sono un cocktail velenoso: erotismo, softcore, pseudo-politica, turismo etnografico, orrore splatter, critica sociale, il tutto con quella fotografia sfocata da VHS e i dialoghi doppiati con accento romano. In uno di questi, Emanuelle trova persino un’isola dove ricconi pagano per vedere... snuff movies. Una riflessione sul voyeurismo? Forse. Un pretesto per mostrare di tutto? Sicuro.
E poi c’è lei, Laura Gemser: bellissima, malinconica, silenziosa. Una diva che non ha mai recitato in un film “serio”, ma che è diventata un’icona globale, da Tokyo a New York. Nessun red carpet, ma milioni di occhi su di lei, nei cinema di Caracas, nei cineclub di periferia, nelle videoteche della provincia americana.
Laura Gemser non ha mai rilasciato interviste, non ha mai scritto un libro, è sparita dalle scene senza clamore. Una diva muta, come una Venere nera su pellicola scadente. Ma il suo volto è rimasto: nei frame sgranati, nei poster disegnati a mano, nei sogni umidi degli anni ’70.
E oggi? Chi parla di lei? I cultori. I cinefili queer. Gli storici dell’exploitation. Perché Emanuelle era troppo per il cinema "serio": troppo sexy, troppo libera, troppo nera, troppo pop. E quindi è finita dove finiscono tutte le cose troppo vive: nell’underground.
Lascia che ti racconti “Emanuelle in America” (1977), che non è solo il film più delirante della serie, ma anche un’opera psichedelica travestita da softcore. Un viaggio nella mente collettiva degli anni ’70, piena di desiderio, colonialismo, paura, voyeurismo — e una bellezza inquieta che scivola sotto la pelle.
La trama, se così la vogliamo chiamare, è una scusa per spostarsi da un luogo all’altro come in un sogno febbrile. Emanuelle, fotoreporter che sembra appena uscita da un servizio di Harper’s Bazaar in acido, indaga su un misterioso miliardario americano che organizza feste private per aristocratici degenerati. Scopre che si scambiano film snuff, immagini proibite, oscenità “oltre il limite”. Lei si infiltra. Fa sesso con chiunque. Fotografa tutto. E non giudica mai.
In una scena chiave, viene portata in una villa veneziana, un luogo sospeso nel tempo, dove ricconi nudi fanno cose che neppure De Sade avrebbe osato immaginare. Le inquadrature sono morbide, sfocate, quasi barocche. La nudità è rituale. L’erotismo è un labirinto. A un certo punto Emanuelle trova un proiettore. Mette su una pellicola. Appare uno snuff movie. La pellicola mostra una donna seviziata. Il volto di Emanuelle è immobile. Poi si volta verso lo spettatore e sorride.
Quel sorriso è tutto. È lo sguardo che capisce. Non condanna, non partecipa, ma osserva. È lo sguardo dell’exploitation stessa. Che ci dice: “So cosa sei venuto a cercare. E so che ti vergogni di volerlo vedere.”
La regia di Joe D’Amato (che usa mille pseudonimi come se fosse mille uomini diversi) è fluida, morbosa, ipnotica. Non c’è moralismo, non c’è struttura. Solo una danza erotica intorno alla pulsione. L’unico vero personaggio è il corpo. Laura Gemser è al centro: eterea, distante, ma anche profondamente viva. Non ha battute memorabili, ma ha una presenza magnetica: silenziosa, attraversa le stanze come un’apparizione. Guarda. Fotografa. E scompare.
Emanuelle non è un personaggio erotico nel senso comune. È una flâneuse del desiderio. Una spettatrice che si sporca. Una testimone complice. È, in fondo, lo sguardo femminile che osserva e possiede, invece di essere osservato e posseduto. In un’epoca in cui il cinema porno mainstream era dominato da uomini, Emanuelle si infiltra e lo rivolta come un guanto di raso.
“Emanuelle in America” è anche un catalogo del kitsch politico degli anni ’70: dai conti nazisti in Sud America, ai party a luci rosse dell’aristocrazia vaticana, fino al commercio di donne esotiche come feticci. Il tutto con una colonna sonora funky che sembra composta da un Ennio Morricone fatto di cocaina e bonghi.
E nel finale? Tutto si scioglie in una dissolvenza ambigua. Emanuelle se ne va, con la macchina fotografica piena di segreti. Non li rivelerà mai. Perché sa che non è pronta la società — ma neppure lo spettatore.
Quel che resta è un senso di vertigine. Di aver visto qualcosa di troppo. Di aver goduto in un punto dove non avremmo voluto.
Questo è exploitation allo stato puro. Cinema come allucinazione. Erotismo come critica. Spazzatura come specchio.
E Laura Gemser come una dea stanca, con gli occhi pieni di verità che nessuno vuole sentire.
Faccio un passo indietro, ma solo per prendere la rincorsa. Perché dopo l’erotico esotico di Emanuelle, l’exploitation italiana si tuffa a capofitto in un territorio ancora più torbido, più sensuale, più politicamente scorretto: il carcere femminile.
Siamo sempre nella seconda metà degli anni ’70. Il cinema sta cambiando, i generi si frantumano. I produttori italiani, sempre più rapidi nel cogliere il vento (e soffiarci dentro un po’ di LSD), iniziano a sfornare una valanga di film ambientati in prigioni tropicali, dove le guardie sono sadiche, le direttrici ex-naziste, le docce obbligatorie, e le detenute tutte bellissime e sempre pronte a litigare in mutande.
Questi film sono il sottogenere noto come WIP – Women In Prison, già popolare negli USA, ma qui filtrato dal gusto barocco del nostro exploitation più puro. Un titolo su tutti: “Violenza in un carcere femminile” (1982), diretto da Bruno Mattei e, guarda un po’, con protagonista Laura Gemser, sempre lei, sempre inarrivabile.
Il film, in teoria, vuole denunciare la violenza nelle carceri sudamericane. In pratica, ogni tre minuti c’è una rissa tra detenute, un’ispezione ginecologica, o una scena di seduzione lesbo tra un’aguzzina con frustino e una prigioniera ribelle. La denuncia sociale? C’è, ma coperta da uno spesso strato di sapone, sudore e peli inumiditi.
Il personaggio di Laura stavolta è un’infiltrata, una giornalista sotto copertura che si fa rinchiudere per documentare gli abusi. La cosa interessante è che, ancora una volta, non è mai vittima. Subisce, sì, ma reagisce. Combatte. Guarda. E soprattutto: scrive. Come a dire che anche nell’inferno, l’intelligenza e la memoria sono strumenti di rivolta.
Ma quello che rende questi film affascinanti è il contrasto stridente tra l’intento dichiarato e l’effetto reale: si finge di parlare di diritti umani, ma si inquadra il corpo femminile come in un’orgia stilizzata. E qui viene il paradosso: nell’eccesso, nella volgarità, a volte emerge una strana forma di poesia. Una tensione. Come se il cinema, inciampando nel suo stesso appetito, finisse per dire qualcosa di più profondo sul desiderio, sul potere, sulla reclusione del corpo.
C’è una scena emblematica: le detenute vengono rinchiuse nude in una cella di punizione, dove piove dall’alto e il pavimento è di cemento. Una guardia passa con stivali lucidi, osserva, e ride. Ma la macchina da presa indugia sul volto di Laura, che non distoglie lo sguardo. Ed è lì che capisci: lei sta vedendo, mentre noi stiamo guardando. Lei sta documentando, anche se non ha più la sua macchina fotografica. È il nostro specchio.
Certo, sono film pieni di cliché, di morbosezze, di scorrettezze oggi impensabili. Ma sono anche spazi di libertà ambigua, dove il corpo femminile non è solo oggetto ma anche soggetto. Dove l’eccesso diventa una forma di resistenza. E dove attrici come Laura Gemser incarnano un’icona silenziosa, che non ha mai fatto politica, ma è diventata simbolo — suo malgrado — di una certa libertà controcorrente.
Allora ascolta: ora te la racconto così, come fosse una leggenda urbana tropicale, una mitologia da videoteca consumata, un racconto orale da tramandare tra cinefili nottambuli e ragazzi soli con il videoregistratore.
Ti racconto Laura Gemser non come attrice, ma come apparizione.
Si dice che una volta, nei cinema di Caracas e nelle sale di Rio, qualcuno vide una donna bellissima entrare durante l’intervallo. Pelle scura, occhi grandi, capelli lunghi come un sipario. Non parlava. Si sedeva in fondo. Guardava lo schermo con la stessa attenzione con cui si guarda un amante che dorme. Quando le luci si riaccendevano, non c’era più.
Si dice che fosse nata in Indonesia, ma che il suo corpo fosse fatto di ombre italiane, come disegnato con la matita grassa di un fotoromanzo softcore. Il suo nome? Laura. Ma nel cinema non aveva nome: era la Nera, l’Emanuelle, la Spia, la Prigioniera, l’Antilope, la Vedova del Desiderio. Era tutto e niente, come i sogni erotici da cui ci si sveglia con la lingua secca.
Faceva film che non facevano curriculum, ma costruivano culto. Il suo volto è stato inciso su locandine dipinte a mano, su VHS clandestine, su pellicole che odoravano di muffa e tabacco. Era la sola che riusciva a guardare nella camera senza chiedere permesso, e a far sembrare ogni inquadratura una confessione.
Lei era l’oggetto del desiderio che si rifiutava di essere oggetto.
Non ha mai vinto un premio, ma ha vinto ogni sguardo.
Non ha mai rilasciato interviste, ma ogni sua scena è un monologo muto.
Non ha mai detto “basta”, ma un giorno è sparita.
Lasciando solo il fantasma.
Una figura che attraversa il cinema di genere come un miraggio: troppo bella per essere vera, troppo intelligente per restare.
Si dice che viva in Svizzera, oggi. O in una villa sul lago, dove le pareti sono piene di fotografie che non ha mai scattato.
Ogni tanto, qualcuno giura di averla vista a un mercatino del vintage, davanti a una locandina di Emanuelle in America. La guarda. Sorride. E scompare.
Questa era Laura Gemser.
Non un’attrice.
Una leggenda dell’exploitation.
La donna che ha reso l’erotismo un’arte minore.
E la vergogna... una forma di resistenza.
Mettiamoci nella sala buia, adesso, davanti a un telone che odora di polvere e crema abbronzante scaduta. Parte il rullo.
Titolo: Papaya, dei Caraibi.
Regia: Joe D’Amato, naturalmente.
Anno: 1978.
Sottotitolo non ufficiale: Anticolonialismo, sudore e succhi vagamente sovversivi.
La protagonista è Papaya, una guerrigliera creola con il corpo da Venere nera e lo sguardo di una pantera politica. Vive in un’isola tropicale non ben definita (probabilmente lo stesso set riciclato da tre film precedenti), dove una compagnia americana vuole costruire una centrale nucleare. Lei, Papaya, guida la resistenza.
Come?
Seduce gli ingegneri. E li fa fuori. Uno a uno. Dopo averli amati.
Non è solo sesso. È guerriglia clitoridea. È vendetta col sorriso.
Papaya non è un personaggio: è un’allegoria afrodisiaca della lotta contro l’imperialismo, con l’ombelico scoperto e l’ideologia nella lingua. In una scena indimenticabile, invita una giornalista bianca in una cerimonia vodoo e la inizia ai “riti locali”. Il risultato è un orgasmo spirituale collettivo che ha più impatto narrativo di cento editoriali su Le Monde Diplomatique.
Certo, tutto è ambiguo. Tutto è sessualizzato. Ma è proprio lì, in quella sovrabbondanza carnale, che emerge la forza del film.
Papaya non è il sogno esotico dell’uomo bianco, è il suo incubo: la donna che non solo si concede, ma decide, che ama e poi uccide, che ti guarda mentre muori e dice: «Era solo sesso, dolcezza.»
Ecco il punto: il cinema exploitation non ha mai avuto paura del corpo.
E mentre il cinema d’autore si spremeva su metafore della liberazione, l’exploitation la metteva in scena nuda, a gambe divaricate, e le faceva dire: “Libertà è questa”.
Lo capirono bene i ragazzi gay che guardavano questi film per desiderio e per disobbedienza.
Lo capirono le donne stanche di essere eroine per bene.
Lo capirono i marginali, i diversi, gli ironici, i lussuriosi.
Capirono che in quei film c’era una verità proibita, mescolata a vergogna e piacere.
Papaya era un film. Ma era anche un’invenzione mitica, come la libertà vista con gli occhi dell’adolescenza: desiderata, oscena, sacra.
Allora eccoli, li vedi? Sono già seduti. Silenziosi. Aspettano.
È il pubblico perduto dell’exploitation.
Non li trovi nei cineforum. Non scrivono su Cahiers du Cinéma. Non vincono festival. Ma loro c’erano. Eccome se c’erano.
C’è il ragazzo di provincia, quello col motorino e la giacca a vento, che ha scoperto che al Cinema Nazionale danno Porno Holocaust. Ci va perché ha sentito che si vede tutto. Ma quando esce non riesce a smettere di pensare a quella scena assurda, quella in cui una ragazza bacia un mostro radioattivo come se fosse l’ultima creatura rimasta sulla terra. Gli è rimasta impressa. Non sa perché.
C’è la parrucchiera con i capelli cotonati, che ama il cinema di Raffaella Carrà ma si lascia sedurre da La fine dell’innocenza con Ornella Muti. “È una porcheria” dice uscendo, ma torna la settimana dopo.
C’è il travestito elegante, che fuma Dunhill lunghi e si siede sempre in fondo, ma non si perde un film con la Gemser. La chiama “la Callas del clitoride”. Ha una borsetta foderata di ritagli. Dentro c’è anche una foto di Florinda Bolkan con gli occhi sbarrati da Non si sevizia un paperino.
C’è la coppia etero che litiga durante i titoli di testa. Lui vuole vedere le scene spinte. Lei si annoia, ma a un certo punto resta ipnotizzata da una sequenza su una spiaggia nera, dove una donna nuda si sdraia su un letto di sangue e piume. Dice: “Che strano, sembra un quadro”.
C’è lo zio col trench, di cui si dice tutto e niente. È lì ogni settimana. Non parla. Guarda. Quando il film finisce, si alza e se ne va. La sua faccia è un paesaggio bombardato da anni di sogni sporchi.
E ci sei anche tu.
Sì, tu, con il tuo taccuino invisibile e la mente accesa.
Sei lì a chiederti cosa stai davvero guardando.
Corpi? Sesso? Violenza? O forse l’unica verità che il cinema non osa dire mai:
che tutto questo desiderare, senza redenzione, è arte.
Siamo nel cuore degli anni '80, l’esplosione finale dell’exploitation. Cinema che non vuole più provocare, ma trasformare. Un universo parallelo che prende vita non nelle stanze eleganti degli studios, ma nelle case buie di periferia, dove il rumore delle pellicole scorre più velocemente delle immagini stesse. Il cinema qui non è solo un’esperienza. È una trasgressione che ti entra in corpo come il fumo di una sigaretta malfumata.
Qui non si parla più solo di donne in prigione o di porno. Qui, nel porno post-apocalittico, ogni cosa è distrutta, e i corpi sono il solo terreno su cui costruire, o distruggere, una nuova umanità. Immagina The New Barbarians (1983) o Hell of the Living Dead (1980), entrambi regnanti di un regno dove l’unica legge è quella della carne. La carne che si mangia, che si strazia, che resiste e si riproduce nel caos.
In Hell of the Living Dead ci sono scene che ti rimangono impresse non tanto per il loro orrore, ma per la fragilità della vita che tutto il film trasuda. Zombie? Sì, ma non sono solo carne marcia che si agita: sono l’eco di una società consumata, che sta morendo e non se ne rende conto. Ogni scena sembra un atto di resistenza, come se le carcasse dei vivi cercassero di dirti qualcosa in quel morire grottesco, un messaggio che sta per essere inghiottito dal buio.
Nel frattempo, fuori dalla sala, il pubblico cambia. Non è più solo il giovane di provincia o il travestito elegante: adesso, c’è il cinefilo underground, quello che sa ogni singola curiosità su una pellicola perduta. È il collezionista di VHS, il tipo che, quando esci dalla proiezione, ti guarda con un sorriso sottile e ti dice: "Se vuoi, ce l’ho in edizione limitata. Solo che dovresti farti un giro fuori Milano, in un negozio di 20 metri quadrati."
E lui, questo cinefilo, ha una faccia che non dimentichi.
Non è mai felice, ma quando parla di cinema lo fa con quella passione devastante che solo chi ha visto troppi film di merda ha la possibilità di sentire. Con lui, il concetto di vergogna è sfumato. È diventato un elemento del cinema stesso. Il film è vergognoso, e proprio per questo diventa necessario.
Siamo nel periodo in cui la carne e l’anima si confondono, dove il cinema diventa una lingua oscura fatta di frammenti, in cui non c'è bisogno di un messaggio chiaro. Il messaggio è sempre quello: l'oscurità che entra dentro. Le scene di violenza, gli abusi, le nudità non sono più il centro, sono solo il pretesto. Ogni gesto violento in queste pellicole è una rappresentazione di una società che implode sotto i colpi della sua stessa disumanità.
C’è qualcosa che la critica ufficiale non capiva: che in quella disumanità c’era un tentativo di libertà, di rinascita, di un mondo che chiede di essere riconsiderato. Quei film non erano mai “solo” film di carne, erano riflessioni su ciò che è stato rimosso: la sofferenza, la rabbia, il desiderio. E, più importante di tutto, la disobbedienza.
E così, eccoci di fronte a uno degli ultimi gradi del cinema estremamente perverso: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), l’ultimo respiro di Pasolini. Ma non è solo un film. È la condanna e la risurrezione di una forma d’arte che ha sempre flirtato con il confine tra piacere e dolore, tra bellezza e brutalità.
In Salò non si trattano solo gli orrori del fascismo. No. Pasolini ha preso il suo cuore più oscuro e l’ha condensato in un'opera che ti straccia l’anima e ti lascia stordito. Un film dove la violenza non è più spettacolare, ma una condizione esistenziale. La tortura, il sadismo, l’umiliazione non sono episodi da censurare o da rimuovere. Sono il linguaggio con cui l’uomo moderno, consumato dal potere, si esprime. Ecco il segreto di Salò: è un film che non ti permette di essere spettatore. Ti costringe a diventare complice.
I giovani protagonisti, apparentemente dei ragazzi dell’alta società, diventano oggetti di tortura. Ma non è una tortura fisica, è una tortura della mente, della coscienza, dell’innocenza che viene lentamente disintegrata. Pasolini non si limita a mostrarci il lato più abietto dell’essere umano; lo inietta nella nostra stessa percezione. Ogni scena è una provocazione, un rituale apocalittico. La loro bellezza, come quella dei ragazzi torturati, non è più un oggetto di desiderio. Diventa l’emblema di ciò che viene ucciso, di ciò che viene stracciato e messo in scena.
Le immagini del film sono indelebili. I ragazzi che vengono obbligati a compiere atti abominevoli, le carni che si piegano e si modellano sotto le mani dei torturatori. Non c'è spazio per la redenzione, non c’è speranza. Tutto è intriso di una rabbia irrisolta che Pasolini aveva verso il potere e verso la società che aveva tradito la sua promessa di libertà. La bellezza fisica non salva più nessuno.
Pasolini qui non è più il poeta, l’intellettuale. È il testimone di una società corrotta che va verso la sua morte. È il narratore di una tragedia che non è solo storica, ma universale. Non c’è via d’uscita. Salò non è un film che ti offre un luogo sicuro dove ripararti, è una scuola di dolore, un viaggio nell’inferno che non ti lascia scampo. La violenza non è mai gratuita. Ogni fotogramma è pensato per provocare, ma non solo nel corpo. È pensato per scuotere l’anima.
In quel film, Pasolini diventa l'alchimista della disillusione. Ogni inquadratura, ogni attimo, è pensato per restituire la sensazione di un mondo che ha dimenticato di sognare. Non c'è bellezza da salvare. La bellezza è una trappola. E l'arte di Pasolini è quella di strappare la bellezza dal suo contesto classico e infilarla nell’abisso della disumanità.
Ma qui non c'è solo il potere, c'è anche il corpo. Quello stesso corpo che nelle pellicole exploitation era ridotto a carne nuda da consumare, qui diventa l'unico strumento di resistenza. Ma resistenza a cosa? A un mondo che non lascia spazio a nessuna forma di purezza. L'innocenza viene sacrificata, come un rito di passaggio. Pasolini ti obbliga a guardare in faccia la decomposizione di un sistema che non è più in grado di sognare l’emancipazione.
E alla fine, quando il film finisce, non puoi semplicemente uscire dalla sala. Non puoi semplicemente dimenticare. Non è come quando esci da un film di cannibali o da una prigione erotica. Qui non c’è un happy ending da rincorrere. Qui la realtà ti prende per la gola e ti fa vedere per un istante la sua vera faccia. Una faccia che avevi visto nelle ore buie del cinema, e che ora ti segue nel mondo esterno.
Pasolini, con Salò, ci ha dato qualcosa di più di un film: ci ha dato un testamento, una riflessione crudele su ciò che ci accade ogni giorno, sul potere che esercitiamo sugli altri, su come siamo tutti prigionieri di qualcosa.
Ma dopo Salò, cosa resta? Cosa accade quando il cinema di disobbedienza, quello che non aveva paura di guardare l’orrore negli occhi, si spegne? Si dissolve nella polvere delle sale, nei sotterranei della memoria. Si fa mito, leggenda, storiografia.
Perché, alla fine, ogni film dell’exploitation e ogni gesto di Pasolini ci dice la stessa cosa. Guardare il mondo è l’atto più rivoluzionario che possiamo compiere.