domenica 11 maggio 2025

Ritorno a casa (appunti)

Il treno avanzava lento nella luce livida del mattino, come se anche lui, quel treno, esitasse. Sbuffava pigramente lungo i binari, attraversando paesaggi che sembravano usciti da un sogno dimenticato. Seduto in uno scompartimento quasi vuoto, lui guardava fuori, ma non vedeva. Gli occhi sembravano inseguire qualcosa che sfuggiva sempre un attimo prima di farsi afferrare.

Aveva con sé solo una borsa piccola, logora. Dentro, qualche vestito, un libro, forse un ricordo. Non tornava per nostalgia, né per dovere. Tornava perché non era più possibile stare altrove. E quando restare è impossibile, si ritorna. Non perché lo si voglia davvero, ma perché non c’è più niente da perdere. Nessuno l’aspettava. Nessuno sapeva che stesse tornando. Eppure, il cuore batteva con l’urgenza di un annuncio. Come se qualcuno, da qualche parte, dovesse sapere.

Scese alla stazione con passi incerti, respirando a fondo quell’odore di ferro, muffa e pioggia. Era tutto com’era stato. Gli stessi binari. La stessa pensilina inclinata. Persino il bar con le tende lise era ancora lì, a vendere caffè troppo dolci e parole che nessuno ascoltava.

Fece pochi passi, poi si fermò. Guardò attorno come per riconoscere la forma esatta della sua assenza. C’erano corpi, voci, movimento. Ma dentro di lui tutto era immobile. Ogni cosa sembrava dire: "Eri tu che mancavi."

Camminò verso il centro, seguendo vie familiari. Le case erano più vecchie, ma i muri ricordavano. Ogni angolo era una fenditura nel tempo. Ogni pietra, un’occasione perduta. Il vento gli scompigliava i capelli, ma lui non se ne curava. Dentro la giacca, il petto si sollevava appena, come se respirare fosse una scelta difficile.

Svoltò l’angolo e si trovò davanti a una porta. Una porta come tante, ma non per lui. Era lì che avevano riso. Era lì che una sera, senza guardarsi negli occhi, si erano detti addio senza dirlo. Non bussò. Restò solo a fissarla, in silenzio. Poi si voltò.

Qualche metro più avanti, su una panchina, sedeva un uomo. Lo guardava. Aveva un giornale in mano, ma non leggeva. Il volto segnato, gli occhi fermi.

«Sei cambiato,» disse.

Lui si fermò. Un tremore gli attraversò le gambe.

«Anche tu,» rispose. «Ma non troppo.»

L’altro rise, piano. Una risata asciutta, quasi stanca.

«Che ci fai qui?»

«Non lo so. Forse cercavo il punto dove ho smesso di essere.»

L’uomo fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca, o un pensiero.

«E credi che sia ancora qui, quel punto?»

«No. Ma magari l’eco sì.»

Un silenzio. Poi l’altro si alzò e si avvicinò.

«Hai paura?»

Lui esitò. «No. Solo freddo.»

Camminarono insieme senza parlare. I passi si facevano strada nel selciato come se volessero scavare. A ogni svolta, qualcosa si riaccendeva nella memoria. Un bacio dato in fretta dietro un portone. Una sigaretta fumata al buio, senza parole. Un litigio sordo, in mezzo a una strada deserta.

«Hai mai smesso di pensare a me?» domandò l’uomo.

«Sì. Ma non abbastanza a lungo.»

«Io invece ho fatto finta che non esistessi.»

«E ti è servito?»

«No. Ma almeno ho dormito qualche notte.»

Arrivarono al fiume. L’acqua scorreva lenta, limacciosa. Si fermarono sul ponte. La luce grigia avvolgeva tutto.

«Sai una cosa?» disse l’uomo. «Non abbiamo mai saputo lasciarci davvero.»

«Perché non ci siamo mai presi del tutto.»

Un colpo di vento sollevò le foglie secche. Rimasero fermi, come statue che hanno perso il piedistallo.

«Io non sono tornato per te,» disse lui.

«Lo so. Eppure, eccoti qua.»

Si guardarono. A lungo. Poi uno dei due, forse per stanchezza, sorrise. Un sorriso piccolo, ferito, ma vero.

«Vieni. Ti preparo un caffè.»

«Solo se è amaro.»

«Lo è. Come allora.»

Attraversarono la strada. L’uomo aprì un portone. Il pianerottolo aveva ancora lo stesso odore di vernice vecchia e spezie. Salirono le scale in silenzio. Ogni passo, un pensiero. Ogni respiro, un ricordo che tornava a chiedere il conto.

Quando la porta si richiuse dietro di loro, il tempo si fermò per un istante. Poi il suono del bollitore riempì lo spazio. E per la prima volta, in anni, nessuno dei due ebbe fretta di parlare.

Non c’era bisogno.

Perché a volte il ritorno non serve per dire. Serve per ascoltare il silenzio che è rimasto.

Certo. Ecco il testo raddoppiato, con un'espansione narrativa ancora più intensa, che approfondisce la psicologia dei personaggi, i loro ricordi, i gesti minimi che si fanno voce e corpo del desiderio trattenuto:


La notte calò su di loro come una coperta troppo grande per essere respinta. Non avevano bisogno di parole, né di spiegazioni. Solo del buio che li avvolgeva e di quella prossimità silenziosa che diceva più di ogni discorso. Il lenzuolo, umido dell’afa e del loro respiro condiviso, li separava appena. Non si erano toccati davvero, ma già lo stavano facendo da ore.

Uno dei due guardava il soffitto, seguendo con lo sguardo linee invisibili. Le crepe, le ombre, le sfumature grigie sulle pareti erano diventate paesaggi interiori. L’altro, steso di lato, ne studiava il profilo come si guarda un volto che si conosce a memoria e che ogni volta, per una ragione misteriosa, appare nuovo.

«Ti ricordi quando mi hai chiesto se sarei mai tornato?» sussurrò il primo, senza staccare gli occhi dal soffitto.

L’altro non rispose subito. Poi, con voce bassa: «Non me lo chiedevo più. A un certo punto ho smesso di aspettarti.»

Un lungo silenzio li accompagnò. Ma era diverso dagli altri. Questo portava con sé tutte le frasi non dette, tutte le telefonate finite in segreteria, tutte le occasioni lasciate a morire in un angolo della mente.

«Eppure eccomi qui,» disse l’altro, dopo qualche secondo, voltandosi lentamente verso di lui. «E tu non hai cambiato nulla. Nemmeno i cuscini.»

«Non ci ho mai dormito con nessuno, dopo.»

Una frase semplice, nuda. Ma nell’aria sembrò esplodere come un tuono a rallentatore. L’altro chiuse gli occhi, come per riceverla meglio. Poi, con una voce che tremava per l’onestà: «Nemmeno io.»

Si guardarono. Non come due amanti, ma come due sopravvissuti allo stesso naufragio. E le onde, fuori, parevano essersi calmate giusto per lasciarli dire quello che finora era stato taciuto.

«Quando te ne sei andato,» disse uno, «ho continuato a cucinare per due. Ho messo il doppio di caffè ogni mattina. Ho lasciato lo spazzolino blu nel bicchiere, anche quando era secco da mesi.»

L’altro si mise a sedere. Aveva lo sguardo basso, come chi ascolta una confessione e non vuole interrompere.

«E quando faceva freddo,» continuò, «mi raggomitolavo dalla tua parte del letto. Avevo ancora il tuo odore lì.»

«Anche il mio letto è rimasto mezzo vuoto,» disse infine. «Ma era il cuore ad aver perso spazio.»

Si ritrovarono più vicini, come se le parole avessero stretto i cuscini, avvicinato i corpi, sciolto le resistenze. Le dita si sfiorarono. Nessuna strategia. Nessuna tattica da seduzione. Solo la semplice, inevitabile attrazione che si manifesta quando la paura cede.

«Non ho dormito bene una sola notte,» ammise l’uno.

«Nemmeno io.»

«Ne valeva la pena?»

«No. Ma dovevamo passare attraverso.»

Una carezza arrivò, lenta, sulla spalla nuda. Era un gesto antico e nuovo insieme. Nessuno dei due si ritrasse. Al contrario, quella carezza diventò scivolamento, presa, rifugio.

«Ho pensato spesso a tornare,» sussurrò lui, poggiando la fronte contro il petto dell’altro. «Ma non sapevo se era più forte la nostalgia o la vergogna.»

«La nostalgia è un vizio. La vergogna, una punizione.»

«E noi?»

«Noi siamo quello che resta.»

Rimasero abbracciati così, in mezzo alla notte, mentre fuori un cane abbaiava in lontananza e una macchina passava lenta per la strada deserta. I rumori del mondo erano lontani, come se tutto il resto avesse perso importanza. La casa, per la prima volta da anni, sembrava respirare con loro.

All’alba, la luce trovò spiragli tra le fessure della tapparella. Scivolò sulla pelle, sugli zigomi, sulle mani intrecciate che ora dormivano ancora più vicine dei corpi. Uno dei due si svegliò. Non si mosse subito. Restò lì, a guardare l’altro, addormentato. Aveva il respiro regolare, i capelli in disordine, e sul volto quella pace che solo chi è stato perdonato può avere.

Si alzò senza fare rumore. Mise l’acqua sul fuoco. Scelse due tazze – le stesse di sempre, una con una piccola crepa. Quando tornò con il caffè, l’altro era sveglio. Si erano già guardati molte volte nella vita, ma mai così.

«Buongiorno,» disse uno.

«Lo è,» rispose l’altro.

E bevvero il caffè così, seduti sul letto, con le ginocchia che si sfioravano e la sensazione che non fosse un inizio, ma qualcosa di meglio: un ritorno non solo concesso, ma finalmente compreso.

Una casa può restare muta per anni, aspettando. Ma quando due voci smettono di perdersi, allora anche i muri imparano a parlare. E non serve nient’altro.